Pinin Brambilla Barcilon: “Così ho salvato il Cenacolo di Leonardo"
Incontro con la restauratrice che ha lavorato per 22 anni all'opera del maestro. Un intervento raccontato anche in un romanzo, da oggi in libreria
Pinin Brambilla Barcilon, la donna che ha salvato l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci con un restauro durato 22 anni nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano, di sé dice: «Sono una lombardaccia, non dimentico le mie radici celtiche e non ho mai pensato che Leonardo mi avrebbe resa famosa». Nel 1999, quando l’opera fu compiuta, di lei parlarono tutti i giornali del mondo: aveva evitato che uno dei capolavori dell’umanità sparisse per sempre. Eppure il suo motto resta: «Preferisco lavorare che parlare». Oggi a novant’anni si è decisa a raccontare il suo lungo e personale rapporto con Leonardo da Vinci e si è lasciata convincere a svelare nel romanzo appena uscito per Electa (La mia vita con Leonardo,128 pagine, 19,90 euro) le difficoltà, le emozioni e i dolori del restauro «più difficile del mondo». «Tutti mi hanno chiesto cosa avessi provato e cosa avessi visto in quel genio assoluto. È qualcosa di molto difficile da tirare fuori: Leonardo ti sfugge, pensi di poterlo afferrare e invece scivola via. Bisogna conoscerlo, riuscire a entrare dentro la sua mente, così inquieta e così misteriosamente ambigua».
Ci provi: che cosa ha scoperto stando per anni più tempo con Leonardo che con suo marito?
L’Ultima Cena è secondo me l’opera più oscura al mondo. La sua pittura ha avuto la straordinaria capacità di ritrarre la natura dell’uomo, ma ha usato una tecnica destinata a scomparire e ciò ha reso ancora più misterioso il suo lavoro.
Nel 1995, dopo 18 anni e a restauro non ancora ultimato, lei dichiarò al New York Times che al confronto quello della Cappella Sistina «era stato semplice come lavare un vetro». Quali sono state le grandi difficoltà?
Molte, a cominciare dall’essere una restauratrice donna. In quegli anni c’era grande curiosità intorno alla mia figura e le domande erano continue. Giudizi, pressioni. Non era facile allora lavorare per le donne, ancora di più non era facile essere la restauratrice di un capolavoro assoluto. Ho fatto fatica, ma la guerra mi aveva temprato. E poi alla fine ho superato le stesse difficoltà che avrebbe dovuto superare un uomo.
Leonardo divenne il suo compagno. Come visse quel periodo la sua famiglia?
Mi sono sentita colpevole, come si sentono tutte le donne che lavorano. Verso mio figlio provavo un senso di lacerazione quando ero costretta, molto spesso purtroppo, a non stare con lui. Andavo a lavorare senza interruzioni, anche il sabato e la domenica. Mio marito si lamentava, ricordo che ripeteva: «Basta non è più vita, non ne posso più».
Ricorda come fu il primo impatto con l’opera?
L’impatto visivo fu completamente negativo. La prima volta che salii sul ponteggio non riuscii a capire niente, l’unica cosa che potei dire fu: «Madonna, ma quanto è brutto». Poi tutto divenne una conquista.
A quale conquista si sente più affezionata?
Il volto degli apostoli. All’inizio era diverso, erano figure sbiadite. Eppure Leonardo aveva messo intorno a Cristo, così severo, così mesto, uomini tormentati che si interrogavano, inquieti su chi lo avrebbe tradito. Mi sono innamorata di San Matteo, ritrovare la sua reale fisionomia è stata per me una grande emozione. Era un giovane e non un vecchio con la barba come appariva. Il restauro ha riportato in vita i suoi riccioli biondi, la bocca carnosa, l’espressione di stupore per l’annuncio del tradimento. Per me è stata una vittoria portare alla luce qualcosa che prima non c’era.
In che condizioni lavorava?
L’opera rimase aperta durante il restauro. E, mentre si era sui ponteggi, entravano scolaresche e visitatori. Un disastro, i bambini correvano, urlavano. E c’era chi mi chiedeva di spostarmi, incurante della delicatezza del mio mestiere. A volte la mia rabbia e insofferenza arrivavano a livelli non sopportabili. E i media sostenevano che volessi farmi pubblicità lavorando di fronte al pubblico. E invece era una tortura.
Alla fine del libro c’è una grande malinconia, come se nel 1999 avesse terminato molto più di un semplice lavoro. È così?
Sì, sento miei tutti i quadri sui quali lavoro. Ne ricordo uno in particolare, era della Galleria Sabauda di Torino. Andai a rivederlo e istintivamente appoggiai le mani sulla tela. I guardiani mi rimproverarono. Eppure io sentivo mio quel quadro, lo avevo avuto tra le mani. E così è stato anche per Leonardo: la sensazione è che ci sia un rapporto esclusivo tra te e l’opera d’arte. Così una volta all’anno vado a vederlo. Sono tenuta a controllare la spolveratura. E anche se è per pochi giorni, allora torna a essere mio.
Terry Marocco