Ali Eskandarian, 'Golden Years' - La recensione
Postumo e autobiografico, è il nuovo cult della narrativa americana beat: un romanzo poetico, ribelle, struggente
Il Grande Romanzo americano-iraniano. Sembra una provocazione, un'iperreazione da circolo letterario al disagio di essere (e)lettori nell'epoca trumpista. Invece quel romanzo esiste e ora finalmente esce anche in Italia nella bella traduzione di Roberto Serrai: Golden Years di Ali Eskandarian, l'ultima pepita ritrovata sui confini più estremi della letteratura rock-on-the-road, su quella lunga Strada che da Jack Kerouac e dal Bob Dylan di Tarantula - attraverso le lande post apocalittiche di Cormack McCarthy e quelle esistenziali di Jon Krakauer - approda ai tossici paesaggi urbani di Bret Easton Ellis e Jay McInerney, riaggiornati alla colonna sonora del nuovo millennio da autrici come Jennifer Egan e Dana Spiotta, fino al recentissimo incubo californiano di Emma Cline.
La storia di questo manoscritto, come si legge nella postfazione curata da Oscar van Gelderen, ha dell'incredibile. Ali Eskandarian nasce nel 1978 in Florida ma trascorre l'infanzia con la famiglia a Teheran, durante i drammatici anni della guerra con l'Irak e della rivoluzione khomeinista. Nel 1989 si trasferisce in Germania, dove i suoi ottengono asilo politico prima di sbarcare definitivamente a Dallas nel 1992, e rifarsi una vita. Dal Texas alle mille sirene della New York post 11 settembre il passo è breve, per un aspirante cantautore dallo spirito maudit: "era un nascondiglio perfetto, io una specie di fuggiasco". Nel novembre 2013 l'artista viene ucciso durante una sparatoria nella sua casa di Williamsburg, assieme a due amici musicisti degli Yellow Dogs. Il killer, che fino a qualche mese prima faceva anch'egli parte di una rock band newyorkese, si suicida dopo la strage.
L'eredità letteraria e artistica di Ali - a parte gli albumNothing to Say e il postumo Down out Sober, più qualche altra partecipazione e pochi video rintracciabili su youtube che ne fanno appena intravedere il carisma, il talento e le potenzialità, non distaccandosi invece troppo le canzoni dagli stilemi folk-rock - è consegnata a questo manoscritto che nel 2012 aveva inviato via mail a van Gelderen, editore olandese conosciuto alla mostra "Made in Iran" dove il cantautore si era esibito in un breve set. Pubblicato inizialmente a puntate su Medium.com, quindi sottoposto a un delicato editing dopo il tragico lutto, ecco finalmente gli Anni Dorati di un peccatore messo a nudo: "avete a che fare con un uomo pieno di difetti, perdonatemi e vogliatemi bene".
Il libro parla di un artista che cerca di sopravvivere in un mondo moderno che trova esaltante/irritante, scrive Ali nella prima mail all'aspirante editore. O, detta con le parole del protagonista del romanzo, di un pazzo impegnato con tutto se stesso ad autodistruggersi (un artista?) O ancora, di un immigrato da un paese oscurantista sedotto dalla mecca della libertà e del consumo. Tanti io coesistenti in una trama ipnotica senza centro, dove il passato e il presente si danno continuamente il cambio travolgendoci con romantiche fughe on the road e giorni depressi di fame involontaria, scorribande negli angoli bui della notte intossicati da ogni abuso chimico immaginabile, meditazioni vipassana e sesso sfrenato, nobili pensieri proiettati nella quinta dimensione.
Le brevi sezioni iraniane, lucide allucinazioni al napalm, sono di un'intensità toccante, specie nella disamina della guerra psicologica vista con gli occhi di un bambino. Nella nuova patria Ali sperimenta poi altre forme di sadica ossessione dell'uomo per il potere. Tutto il romanzo può essere letto come un atto d'amore-odio, di pietà ed empietà verso la città dei sogni, New York. "Ero quasi al verde e non trovavo lavoro: ero un uomo felice". L'effetto America sulla comunità di immigrati che ruota attorno alla sua casa è deflagrante ma anche commovente. New York città mondo, New York cocaina e pasticche, New York sesso e pompini, New York deserto metropolitano, New York stato mentale dove sembrava plausibile perfino sentirsi un artista.
"Non voglio sentirti dire che la vita / non ti porta da nessuna parte, angelo" sussurrava David Bowie (anch'egli newyorkese d'adozione) nella sua Golden Years, già intravedendo il principio della fine. Anche per Ali il sogno s'inaridisce nella dipendenza dalle droghe, nei sensi di colpa assortiti, nella affannosa ricerca di denaro per sopravvivere, nella scalata a un successo che ha perso strada facendo tutto il suo appeal. Ma mentre il tanfo di morte si spande dalla scena dello showbiz ai luridi loft che accolgono la sua ridda di rocker squattrinati e sessuomani, lui riesce a conservare la sensibilità creativa per afferrare quel mondo dal di fuori, per metterlo in dubbio (per farne un romanzo) nel medesimo istante in cui ci si crogiola immerso fino al collo.
Portavoce di una generazione che sembra aver perso tutto fuorché l'immaginazione, Golden Years rivoluziona la mitologia dell'America intercettando la sua nuova sonorità interiore, abbattendo i muri reali o immaginari che separano individualismo e collettività, autobiografia e fiction, immigrati e nativi, libertà e convenzioni sociali. La luce non è in fondo al tunnel ma dappertutto: libere associazioni oppiacee traducono l'immanenza del presente devota al mito dell'eterna giovinezza - le cento lingue parlate tutte insieme nello struscio della Grande Mela - come un rinnovato scroll di stampo jazzistico. Una corsa nella corrente senza riposo, lo stream of consciousness di questo tempo folle.
Ali Eskandarian
Golden Years
Giunti
218 pp., 17 euro