Stefano Faravelli e l'arte del carnet de voyage
Un'intervista per conoscere l'artista torinese che ha dipinto il mondo coi suoi acquerelli
Descrivere Stefano Faravelli, torinese classe 1959, come un autore, pittore e viaggiatore, non sarebbe pienamente esaustivo. Faravelli assomiglia più ad un moderno flâneur che si aggira per il mondo con i suoi acquerelli alla mano e un bagaglio essenziale sulle spalle, che parte leggero e ritorna pieno. India , Egitto , Mali , Cina , Giappone : sono l’Africa e l’Oriente che lo affascinano. Dopo aver lavorato come scenografo e pittore per il Teatro dei Sensibili, dal 1994 ha pubblicato otto libri e taccuini di viaggio, e esposto le sue opere in in tutto il mondo. In attesa della pubblicazione del suo nuovo carnet de voyage realizzato durante un viaggio di un mese nella foresta malgascia lo scorso dicembre, vi presentiamo questo personaggio eclettico che sembra emergere da un'altra epoca.
Da dove nasce l’esigenza di dipingere in viaggio?
Come scriveva mirabilmente Baudelaire, 'Nessuno è più adatto a gustare un paesaggio di colui che lo osserva per la prima volta, poiché la natura si presenta allora in tutta la sua estraneità, non ancora infiaccata da un troppo frequente sguardo'. Il viaggio è proprio questo, con il suo rompere le abitudini, il suo scardinare le assuefazioni della vita ordinaria. Il viaggio è riscoperta del mondo come tessitura di segni da interpretare e comprendere. Viaggiare con il taccuino, disegnando come faccio da anni, è il mio modo di comprendere (etimologicamente: di fare mia) questa tessitura. Inoltre si tratta anche di risarcire il mondo - il creato- dall’usura dello sguardo 'infiacchito' di cui parla Baudelaire. Il medium del disegno e della pittura è particolarmente adeguato a cogliere questo rivelarsi del mondo e a penetrarne la stupefacente novità e bellezza.
Il carnet de voyage è scrivere e disegnare: qual è il suo rapporto con la scrittura?
Il testo esprime il pensiero, che è nel cuore stesso del visibile; non per niente 'Idea' ha la stessa etimologia di vedere. I miei testi non sono solo didascalie delle immagini, ma altre immagini, espresse in altro modo. Poi c’è da considerare l’importanza della calligrafia, forma d’arte tra le maggiori in Oriente (Cina, Giappone, Islam). In un calligramma cosa è figura e cosa è scrittura? Forse l’esempio più perfetto di ciò che ho in mente sono i mappamondi medioevali: trovo straordinario come scrittura e immagine si intrecciassero in essi a formare un vero e proprio supporto per derive meditative. Non erano uno strumento per orientarsi tra meridiani e paralleli, descrizioni 'orizzontali' del mondo, bensì 'macchine mistiche', dove scritto e figura consentivano pellegrinaggi mentali e morali, autentici viaggi letterari per gente che non si muoveva.
Spesso quando si viaggia si dimentica presto quello che si è visto. Realizzare un carnet de voyage è una buona soluzione per ricordare?
Non è tanto la mia memoria personale in gioco. Piuttosto, se così posso dire, la memoria del luogo. Viaggio molto nel passato: i miei sono viaggi nel tempo, in verità. In questo senso la preparazione “ante viaggio” è fondamentale, naturalmente. Per il Giappone ad esempio non ho consultato neppure una guida, ma mi sono letto tutto Mishima e Tanizaki, i testi Zen e Murasaki, Harris e Fosco Maraini. Per tacere del mio rapporto con la tradizione figurativa di quel paese che ispira il mio lavoro da anni: una volta lì mi sembrava di esserci già stato infinite volte, con altri occhi. La pagina deve contrarre il tempo e lo spazio per poterlo poi sprigionare sul doppio versante narrativo e simbolico.
Come viaggia (solo o in compagnia, mezzi pubblici o auto, tenda, albergo o nelle case della popolazione locale…)?
Detesto gli slogan come 'la riscoperta del viaggio lento' ecc. Ogni viaggio ha il suo ritmo,la sua regola, la sua storia: il più delle volte è il viaggio stesso a dettarla. Ho soggiornato in alberghi famosi e bellissimi, ma anche dormito su un materassino steso lungo una strada.
Lungo il Niger ho navigato sulla Gran Pinassa, un barcone rugginoso che fa la spola tra Mopti e Timbouctù, in una sconvolgente promiscuità di animali, merci e passeggeri stipati in coperta. Sul Nilo, invece, avevo un sandalo tutto per me con cinque membri di equipaggio e un cuoco. Sono molto adattabile: nel mio ultimo viaggio ho soggiornato per giorni nel cuore di una foresta pluviale, dormendo in tenda, bevendo acqua dal torrente e mangiando solo riso e fagioli.
Usa device tecnologici durante i suoi viaggi per raccogliere materiale? Ha un senso il carnet di viaggio digitale?
Niente in contrario che altri creino carnet digitali, ma a me non interessa. La protesi tecnologica può essere un impedimento sotto molti aspetti: paura di furti o di guasti, batterie da ricaricare (come fare nella foresta?),controlli da parte delle autorità locali (ricordo i computer di amici ‘frugati’per ore dalla polizia israeliana, mentre io li aspettavo dall’altra parte del check-in). Soprattutto non voglio rinunciare al disegno perché esso rende possibile una fusione con la cosa vista in una sorta di andirivieni, estremamente complesso, dello sguardo, della mano, degli impulsi che viaggiano nella corteccia cerebrale e che sono tutt'uno con essa e con l’atmosfera in cui è immersa: quando disegno una cosa divengo un po’ quella cosa. Al contrario, il 'diaframma meccanico' esclude questa intimità fatta di tempo, di osmosi. Detto ciò una macchina fotografica tascabile può essere molto utile, un modo di prendere appunti, ma non vado al di là di questo.
Di cosa tratta il suo ultimo carnet?
Il più del lavoro è nato nella foresta pluviale di Betampona nel Madagascar centro orientale. In questo straordinario 'atelier' ho lavorato per venti giorni, accampato con alcuni zoologi e due guide sotto il verde manto di una foresta millenaria.
Gli zoologi, sotto la guida di Franco Andreone del Museo di scienze naturali di Torino, intenti alla nobile missione di preservare nella grande arca genetica la biodiversità di rettili e anfibi, ed io, con i miei taccuini e pennelli, cercando di tradurre in segni e disegni la bellezza fantasmagorica di questo luogo, dove ogni raggio di luce che filtra dal folto illumina creature leggendarie e poco note.
Durante la sua esperienza in Madagascar ha steso un testo filosofico: ha in mente di pubblicarlo?
L'esperienza singolare (era un po' che non si vedeva un 'peintre naturaliste' al lavoro con una spedizione scientifica) ha avviato anche una piccola ricerca che in effetti potremmo definire ‘filosofica’. Si tratta di una meditazione sulla foresta come archetipo, come ‘dimensione dello spirito’. La mia riflessione prende le mosse da una frase di Emerson: ‘Nelle foreste un uomo elimina i suoi anni come un serpente la sua pelle, e in qualunque periodo della vita è sempre un bambino. Nelle foreste è la perpetua giovinezza’. Penso che questo testo potrebbe entrare a far parte del libro che ho in mente. Il titolo? ‘Esegesi della Foresta’.