Nuovi casinò, ecco perchè Renzi ci pensa
Ci sono 14 richieste a cui si oppone Federgioco. Ma l'occasione di far cassa potrebbe spingere il Governo a studiare una norma ad hoc
Inaugurare nuovi casinò in Italia? Il tormentone fa capolino ogni volta che i comuni, del Mezzogiorno ma non solo, hanno necessità di fare cassa e prospettare ai loro cittadini flussi turistici e nuovi sbocchi occupazionali: cioè, visti i tempi, quasi sempre. Ma almeno per quanto riguarda il governo Renzi l’apertura mostrata dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, che incontrando ieri il sindaco di Taormina Eligio Giardina ha aperto alla possibilità, rappresenta un inedito assoluto. "Sono molto fiducioso, perchè finora erano stati solo i comuni a chiedere la riapertura dei casinò" ha dichiarato Giardina. "Invece questa è la prima volta che l’argomento viene affrontato concretamente dalle istituzioni". Insomma, un’occasione da non perdere dopo i tanti sforzi a vuoto degli anni passati.
Era la fine del 2007 quando Giuliano Amato stroncò sul nascere l'ipotesi di aprire nuove sale da gioco in Italia: “Troppi problemi pratici e di ordine pubblico” tuonò l'allora ministro dell'Interno del governo Prodi II. Un anno e mezzo dopo, la lobby dei tavoli verdi tornò a sperare: il 15 maggio 2009 Silvio Berlusconi in persona promise ai cittadini di Taormina, ancora lei, che presto la roulette della sala da gioco, chiusa nel dopoguerra, sarebbe tornata a girare.
Un'idea che trovava il consenso del siciliano Ignazio La Russa (che da tempo spingeva anche per inaugurare una casa da gioco nell'hinterland milanese), dell’allora responsabile del Turismo Michela Brambilla e naturalmente del Movimento per l'autonomia di Raffaele Lombardo, detentore di un vero record: 10 delle 13 proposte di legge sulle nuove aperture di casinò presentate in Parlamento nella legislatura precedente a questa portavano la firma di deputati del Mpa. Il refrain è sempre lo stesso: negli ultimi 60 anni, con le concessioni concentrate a Nord, si è impedito al resto del Paese di sfruttare un veicolo di crescita importante.
Non se ne fece nulla, ma il movimento del sì è rimasto vivo e combattivo. E non riguarda certo solo Sicilia e dintorni. Sommando le interrogazioni parlamentari e gli emendamenti di diverso orientamento politico a legge di stabilità e decreto Sblocca Italia si contano 14 richieste, caldeggiate dai comuni quasi sempre tramite parlamentari dello stesso territorio: tre in Toscana (Bagni di Lucca, Porto Azzurro, Montecatini Terme), Campania (Sorrento, Ischia e Capri) e Piemonte (Stresa, Acqui Terme e Salice), due in Friuli (Lignano Sabbiadoro e Grado), e ancora Anzio, Fasano, San Pellegrino, Merano, Chianciano (si tentò di inserirla già nel 2009 nel decreto salva-L’Aquila), Tropea.
Eppure i numeri sembrano indicare che in Italia questa attività non sia più un business. Dal 2004 a oggi i casinò nazionali in possesso di autorizzazione (Saint-Vincent, Campione d'Italia, Venezia e Sanremo) hanno perso in media un quarto del loro giro d'affari. Soltanto nel 2014, secondo i dati messi in fila dall’agenzoia specializzata Agipronews, le quattro case da gioco hanno registrato una raccolta in calo del 4,1 per cento attestandosi a 296 milioni di euro, contro i 308,7 milioni del 2013. Venezia è scesa del 7,5 per cento, Saint Vincent del 5 e Sanremo del 3,8. Unica realtà in controtendenza è Campione, che ha migliorato dello 0,3% i risultati del 2013, attestandosi a 90,5 milioni di euro. Ma, secondo quanto dichiarato dal suo amministratore delegato Carlo Pagan, a fine 2015 rischia una batosta pari a oltre un quinto del fatturato a causa della fine del regime di cambi prefissati tra euro e franco svizzero.
Insomma, il filone d’oro sembra esaurito e bisognoso di un rilancio, più che di una maggiore concorrenza che rischerebbe di rendere ancora più sottili i margini. Almeno secondo alcuni.
I motivi sono diversi: le norme antifumo; un'abnorme diffusione fuori sala delle slot machine, che per i casinò valgono il 65-70% della raccolta; ma soprattutto l'incapacità di attrarre nuovi visitatori, se si escludono Campione e Venezia, ancora dotate di un buon fascino presso i giocatori russi. Le statistiche dicono che nell’ultimo decennio il flusso di ingressi è rimasto quasi costante ma che il 60% dei nuovi giocatori abituali preferisce l’estero. Non a caso la Slovenia vanta 12 casinò e la Svizzera ben 20, quasi tutti a ridosso dei nostri confini.
Ed è proprio questo l'appiglio a cui si aggrappa chi in Italia chiede un allargamento delle maglie: “Con un'offerta migliore e una gestione più moderna del business, lo scenario cambierebbe” scriveva pochi mesi fa in un documento l’Anit, l'Associazione italiana incremento turistico, che propone un modello alternativo a quello del monopolio pubblico: in sostanza concessione affidata ai privati, ricca di attività collaterali (in primis spettacoli e concerti che ad esempio a Las Vegas valgono oltre la metà della raccolta) ed enti locali incaricati solo di sorvegliare e di riscuotere le royalty. Che sono l’unica voce su cui i sindaci non mollano, visto che vale oltre il 30 per cento dei fatturati complessivi. Vanno invece nella direzione opposta le pressioni di Federgioco, l'alleanza tra i quattro casinò operativi, associata a Confcommercio, che ovviamente si oppone al rilascio di nuove licenze.
A questo punto, tutto si gioca in Parlamento. Nonostante l'accelerazione promessa dal governo, tutte le eventuali nuove proposte di legge dovranno iniziare l'iter alle commissioni Attività produttive di Camera e Senato, per poi passare al vaglio di Bilancio e Interni. Strada lunga ma non impossibile, anche se in seno allo stesso esecutivo ci sarebbe già chi sta frenando. Specie se, come si sussurra già a Roma, l’esecutivo scegliesse una via alternativa: l’inserimento di una norma ad hoc all’interno del decreto attuativo della Delega fiscale in materia di giochi, che dovrebbe arrivare in consiglio dei ministri entro giugno.