Giuseppe Bortolussi: la mia vita di rompiscatole che fa le pulci al fisco
Se volete sapere tutto di tasse, di numeri e di imprese tartassate, bussate alla porta della Confederazione artigiani di Mestre. Vi aprirà Giuseppe Bortolussi, che dirige l’ufficio studi, «ragionier antibalzello».
Per capire la tragedia del Nord-est, e quindi dell’Italia, basta entrare nella torre di sei piani in vetrocemento e lega d’alluminio, costata 15 miliardi di lire, che ospita la Cgia di Mestre, ormai diventata più importante dell’Istat. Dal 2008 il fatturato di questa citatissima sezione della Confederazione generale italiana artigianato è sceso da 10 a 9 milioni di euro e i dipendenti sono diminuiti da un centinaio a 85. Dei 4 ingegneri che lavoravano su sicurezza e ambiente ne rimangono solo 3. «Le imprese falliscono, gli iscritti calano, i tempi di pagamento si allungano» allarga le braccia il segretario Giuseppe Bortolussi. «Molte aziende non dispongono neppure dei 200 euro della quota associativa annua. Molte altre non chiudono solo perché non hanno i soldi per pagare i Tfr».
In compenso gli addetti all’ufficio studi della Cgia sono passati da 12 a 15, l’organico del call center è rimasto invariato (15 persone) e 30 collaboratori esterni, in genere docenti universitari, continuano a essere retribuiti a cachet per sfornare a getto continuo indagini demoscopiche, report e statistiche sulla voracità del fisco. Il che spiega perché negli ultimi 20 anni Bortolussi sia stato protagonista di ben 1.340 notizie dell’Ansa. E anche perché nel primo semestre del 2013 la medesima agenzia di stampa ne abbia già dedicate 275 alla Cgia di Mestre. Una media di 45 lanci al mese. Tolti i festivi, quasi 2 al giorno.
Da quando 33 anni fa venne assunto in prova nell’organizzazione fondata dal sindacalista Manlio Germozzi nel 1946, Bortolussi, 65 anni ad agosto, veneziano di Gruaro, laurea mancata in giurisprudenza dopo aver passato tutti gli esami, si è molto impegnato in una metamorfosi che oggi fa di lui uno dei pochi opinion leader bipartisan, pur essendo stato arruolato dal Pd nel 2010 come indipendente nella sfida impossibile contro il leghista Luca Zaia per la poltrona di governatore del Veneto: «Finì 29 a 60. Resta l’orgoglio di una candidatura accettata da sconfitto in partenza». Gli resta anche la consolazione di un seggio, l’unico della lista Bortolussi presidente, in Consiglio regionale.
Facile mettere d’accordo sinistra, destra e centro quando si lasciano parlare solo i numeri. «Ho imparato dall’avvocato Ennio Antonucci, pace all’anima sua, penalista di origini napoletane ma svizzero di testa, che mi prese a far pratica nel suo studio legale a Dolo. Era imbattibile nell’analisi dei fatti. Mi convocava in ufficio alle 4 del mattino, sottolineava con matite colorate le carte contenute nei faldoni e le riempiva di glosse. Gli altri avvocati arrivavano in udienza con Il Gazzettino nella cartella e perdevano cause già vinte. Noi vincevamo anche quelle perse perché avevamo studiato».
Il metodo Antonucci è stato codificato da Bortolussi in quattro postulati: 1) Di norma i luoghi comuni risultano sempre falsi. 2) Qualunque sia il problema, la soluzione è stata già scritta, ma nessuno l’ha letta. 3) Se la soluzione non è stata già scritta, di sicuro c’è chi l’ha già trovata, ma nessuno gliel’ha chiesta. 4) Qualunque indagine va controllata almeno cinque volte.
Il segretario della Cgia ha obbligato i suoi collaboratori a girare con un taccuino per gli appunti nelle tasche, nel suo caso un Moleskine, e ad annotarsi tutto ciò che prima di sera possa essere traducibile in tabelle, grafici e comunicati stampa da servire ai giornalisti famelici. «L’importante è non sbagliare. Sono tutti lì che mi aspettano al varco con il fucile puntato. Per fortuna finora non ho beccato neppure una smentita».
Ha un segreto?
Mio padre Ottone fu segretario comunale a Fossò e io vicesegretario nel municipio di Fiesso d’Artico. Entrambi notammo che gli impiegati con la licenza di terza elementare assunti prima del 1968 riuscivano sempre a far quadrare i conti, i sapientoni laureati dopo il 1968 mai.
Come ha fatto a diventare un opinion leader?
La materia fiscale è ostica, una terra di nessuno fra la scienza delle finanze e il diritto tributario. L’ho colonizzata. Faccio i conti giusti e con quelli convinco chi deve decidere. Difendo le piccole imprese, quindi è come se parlassi alla gente dei problemi quotidiani, perché tutti hanno a che farci o hanno almeno un parente che ci lavora: il 98 per cento delle aziende conta meno di 20 addetti. Gli italiani conoscono l’artigiano, non la Fiat.
Ma non basta a spiegare il suo successo.
Già nel 1992 dimostrai che un idraulico pagava più tasse delle società di capitali, il 60 per cento delle quali dichiarava addirittura reddito zero. La svolta avvenne con la battaglia contro la minimum tax. Bloccai Giulio Tremonti negli studi di Milano, Italia, la trasmissione condotta da Gianni Riotta, per spiegargli che era ingiusta. «Non le credo» mi liquidò. Lo rincorsi fino in strada e, alla luce di un lampione, gli squadernai i dati su artigiani e commercianti. «Venga domani nel mio studio di via Crocifisso a Milano» concluse. Mi dedicò l’intera mattinata. E mi fece una promessa: «Se divento ministro, te la tolgo ’sta minimum tax».
È stato di parola.
Un galantuomo. I fatti dimostrano che sull’austerità imposta dall’Europa aveva ragione lui: è stata una follia. Quello di Tremonti era un rigore pacato, teso a far sì che la spesa pubblica non esplodesse. Non ti toglieva la pelle di dosso. Ma quando i consumi vanno in crisi e il governo non risponde allargando i cordoni della borsa, il cavallo smette di bere.
E si ferma anche il Nord-est.
Dal 2005 al 2012 in Italia sono morte mille imprese al giorno. Il saldo resta attivo a +18.911 per effetto delle nuove iscrizioni. Io le chiamo aziende della disperazione e della speranza: chiude una società con 8 dipendenti e 2 licenziati si mettono in proprio per sopravvivere. Ma le ditte artigiane segnano un -20.319. L’epicentro della crisi è nel Triveneto e la provincia di Venezia registra il saldo peggiore.
Perché proprio Venezia?
La città perde abitanti, il polo petrolchimico di Marghera è passato dai 35 mila addetti di trent’anni fa ai 7 mila di oggi. Anche chi ha da parte un po’ di soldi li tiene in banca per vedere come andrà a finire. Non spende, non tinteggia le pareti di casa, non rifà il tetto, non cambia i mobili. Sa qual è il paradosso?
Qual è?
Il Nord-est statistico, quindi inclusa l’Emilia Romagna, può ancora vantare un prodotto interno lordo più alto della Germania e del Giappone e un saldo attivo della bilancia commerciale pari a 40,2 miliardi di euro, contro i 10,9 dell’Italia, proprio perché è terra di piccole imprese: una ogni 8 o 10 abitanti.
Nel 2011 lei ha avuto un reddito imponibile di 529 mila euro. È il più ricco fra i consiglieri regionali. Non pare che abbia risentito della crisi.
Sarei andato volentieri in pensione dal prossimo agosto, ma l’ex ministra Elsa Fornero mi ha costretto a restare al lavoro per altri 15 mesi e mi ha congelato il fondo obbligatorio in cui ho dovuto versare per anni un fiume di quattrini sui quali facevo affidamento per il futuro delle mie tre figlie. Però nel 2011 ho anche pagato 220 mila euro di tasse.
Fanno pur sempre 25 mila euro netti di stipendio mensile.
Sono un dirigente d’azienda licenziabile ad nutum, cioè dalla sera alla mattina. E lavoro fino al 26 luglio per l’Agenzia delle entrate.
Mi pareva che la Cgia avesse fissato al 12 giugno il «tax freedom day», ovvero il giorno a partire dal quale i contribuenti cominciano a lavorare per se stessi e non più per lo Stato.
Quella data vale per operai e impiegati. Quest’anno la pressione fiscale è arrivata al 44,4 per cento, un record mai toccato in precedenza. Nel nostro pil c’è un 10 per cento di economia sommersa, che una stima dell’Istat nel 2008 valutava fra i 225 e i 275 miliardi di euro. La mia aliquota reale è del 53,8 per cento.
Quanto vorrebbe pagare di tasse?
In una nazione che eroga buoni servizi, l’ultimo scaglione non dovrebbe superare il 35-38 per cento. Quindi, in Italia, il 32. Pensi solo a com’è tassata una famiglia monoreddito composta da marito, moglie e due figli a carico. Da noi versa 5.010 euro l’anno di Irpef, in Francia appena 313. Se però lavora anche la moglie, ne paga 2.842. Meno! Ma che cacchio di Paese è?
Dovrebbe fondare la Cgia del Canton Ticino. A Lugano la sua aliquota sarebbe suppergiù del 13 per cento. Com’è che la Svizzera funziona meglio dell’Italia con minori risorse?
Non le spreca. Da noi le sole agevolazioni fiscali arrivano a 253 miliardi di euro l’anno, che finiscono in larga parte alle imprese pubbliche e ai grandi gruppi industriali. Lo Stato si fa dare i soldi con una mano e li restituisce con l’altra. Invece dovrebbe lasciarli nelle tasche, perché ogni intermediazione costa. E poi gli svizzeri non hanno 142 adempimenti fiscali, cioè quasi 3 a settimana, come noi.
Soprattutto non hanno 110 miliardi l’anno di evasione.
La situazione è ben peggiore di questa stima. La pressione tributaria, quella formata da imposte, tasse e tributi con l’esclusione dei contributi previdenziali, in Italia è al 30,2 per cento, contro una media del 25,7 nell’area euro. In Germania è al 23,6 e in Francia al 27,9. Mi obiettano: sì, però noi abbiamo il debito pubblico più alto e una maggiore evasione. Ma questo è un corto circuito logico! Indipendentemente da chi paga e da chi non paga, comunque il nostro Stato riceve il 30,2. Dopodiché si scopre che gli altri paesi, a esclusione della Grecia e, in parte, dell’Ungheria, a differenza dell’Italia offrono tutti, dico tutti, un reddito minimo garantito ai giovani senza lavoro dai 18 anni in su.
Non ci posso credere.
Eh, lo so, è il segreto meglio custodito del mondo. Prendiamo la Danimarca: 1.201 euro mensili a un single senza figli. Che salgono a 3.524 per una coppia con tre figli. La Germania, più parsimoniosa, si ferma a un tetto di 1.409 euro, che sono pur sempre più della paga di un operaio in Italia.
Ma così nessuno si cercherà mai un lavoro.
E qui sbaglia. Mentre in Italia gli occupati dai 15 ai 24 anni sono appena il 18,6 per cento, in Danimarca arrivano al 55 e in Germania al 46,6. E sa perché? Da noi il 60 per cento della spesa pubblica serve per le pensioni e così i giovani finiscono per dipendere a vita dai genitori. Invece altrove, con il reddito minimo garantito, possono andarsene di casa, studiare, avviare una loro attività.
Pensavo che il nostro tallone d’Achille fosse la pletora di dipendenti pubblici che ci costano 172 miliardi di euro l’anno, 11 punti di pil. La Germania, assai più popolosa e meglio amministrata, si ferma a 8. Risparmiando 3 punti di pil, equivalenti a 45 miliardi di euro, in pochi anni ripianeremmo il debito pubblico.
Pensava bene. Dal 2001 al 2010 la spesa per la macchina statale è aumentata del 40,4 per cento, cioè di 40 miliardi, nonostante una diminuzione di organico di 110 mila unità.
Che previsioni fa su questa crisi economica infinita?
Non la vedo per niente bene. Nel 2014 si ipotizza un +0,7 di pil. Mi accontenterei di un +0,4 o un +0,5. Ma temo che non sarà così. L’Eurozona veleggia verso un -0,6 e la Germania è ridotta a uno striminzito +0,1. La cura non ha dato gli esiti sperati, il malato peggiora. Spero che la cancelliera Angela Merkel, se vincerà le elezioni, trovi la forza per invertire la rotta. Stati Uniti e Giappone l’hanno già fatto. Non si fida di Bortolussi? Dia almeno retta al Fondo monetario internazionale.
Vale a dire?
Il Fmi ha esaminato 173 casi di crisi nazionali affrontate con politiche rigoristiche dal 1978 al 2009. In tutti i 173 casi è emerso che l’eccessiva austerità ha determinato calo della produzione, calo del pil, calo dell’occupazione.
Anche suicidi.
Ci ho scritto un libro. Però bisogna essere prudenti. A 15 chilometri da qui un imprenditore s’è impiccato, lasciando sul pavimento le cartelle esattoriali. Poi s’è scoperto che era socio di un’impresa che andava benone e che dietro il suo gesto c’erano solo i debiti di gioco. Comunque è un fatto che nel 2012, su una cinquantina di partite Iva morte suicide in Italia, la metà erano venete.
Perché qui si ammazzano più che altrove?
Sento dire: perché i veneti hanno raggiunto il benessere da poco e temono di perderlo. Non mi convince. Io dico: perché qui resiste l’antico codice d’onore contadino. Ero bambino e già qualcuno si suicidava quando gli andava male il raccolto. È una sorta di pudore: chi fallisce, desidera scomparire, togliere peso alla terra.
Un rapporto riservato della Mediobanca securities ha pronosticato la bancarotta dell’Italia entro sei mesi.
Non ci credo. Finanziariamente siamo più stabili della Francia, dove il rapporto deficit-pil è quasi il doppio del nostro e in aumento. Tra indebitamento privato, pubblico ed estero, l’Italia è preceduta solo dalla Germania nella classifica dei paesi virtuosi. Mi spaventa molto di più l’instabilità politica.
Quindi che consigli darebbe al premier Enrico Letta?
Abbia il coraggio di svoltare. Si allei con Francia e Spagna per cambiare questa dissennata politica europea. Tolga per sempre l’Imu sulla prima casa ai redditi familiari al di sotto dei 50 mila euro. E rinunci per sempre all’aumento dell’Iva: sarebbe un errore tecnico, perché questa non è una crisi della domanda, bensì dell’offerta. Nel 2009, annus horribilis, il pil è sceso del 5,5 per cento e i consumi dell’1,6. Nel 2012, nonostante il calo del pil si sia più che dimezzato fermandosi al 2,4, il calo dei consumi è quasi triplicato, -4,3 per cento, con una punta di -13 per i beni durevoli. La gente non ne può più. Se non cambia rotta, che cavolo ci sta a fare questo governo di larghe intese? Meglio il rito belga, allora, 535 giorni senza esecutivo con gli indicatori economici in crescita.
Ha fiducia in Matteo Renzi?
Non mi convince. Lo trovo un po’ leggerino. Non diventerà mai un leader e, se lo diventerà, sarà un leader dimezzato. O impone al suo partito un programma innovativo in dieci punti oppure ne esce e fonda una sua forza politica. Il valore di un uomo si vede quando fa, non quando parla.
E Beppe Grillo la convince?
È una risorsa preziosa. Bravo nell’individuare le storture, ardimentoso nel denunciarle. Ma non è strutturato per risolvere i guai dell’Italia.
È d’accordo sulla macroregione del Nord proposta da Roberto Maroni, che dovrebbe trattenere qui il 75 per cento delle imposte?
Mi accontenterei del 70 o del 68. Se è una secessione, non mi sta bene. Ma se è un federalismo spinto, che ci lascia fare ciò che Roma non sa fare, sì.
Mi tolga una curiosità: dove tiene i suoi risparmi in tempi di crisi?
Non ne ho. Li ho messi nel mattone, nel fondo obbligatorio per dirigenti d’azienda e nel design.
Nel design?
Sì, mai comprato Btp o azioni. Da anni colleziono solo pezzi rari, tipo la moto e i letti di Philippe Starck o gli arredi di Vico Magistretti e Achille Castiglioni. Ne ho ceduti 2 mila in comodato gratuito al Comune di Padova per farci il primo museo italiano del design. Altrettanti li ho in giro. Sono un ottimo investimento. Mi avevano offerto una Lockheed chair di Marc Newson per 20 milioni di lire, e non li avevo. Anni dopo me la proposero di nuovo per 120 milioni, e non li avevo. Adesso l’hanno venduta all’asta a New York per 1,5 milioni di dollari.
Ha un’idea, visto che si occupa di artigiani, di quanto costi la risuolatura di un paio di scarponi?
So quanto costa risuolare le scarpe: sui 25-30 euro. Ma gli scarponi no.
Da Zamberlan, a Pieve di Torrebelvicino, la bellezza di 45 euro.
Però so a quanto si può trovare un litro di latte in Veneto: 80 centesimi.