La banda romena che assaltava le gioiellerie
Organizzati, cattivi, spietati, cresciuti nella stessa cittadina. Tra il 2012 e il 2013 hanno colpito i più eleganti negozi d'Europa. Fino a quando...
La chiamano strada europea. Ma dopo pochi chilometri capisci che ti stai allontanando non solo fisicamente dalle pur acciaccate Roma, Madrid, Parigi. Una carreggiata, doppia corsia di circolazione che parte da Bucarest e ti porta a nord verso la Moldova seguendo in parallelo la linea dei Carpazi che si stagliano a ovest. Attraversi villaggi, paesi, campagne desolate e innevate, con i cani che ti osservano e che spesso ti tagliano la strada. Superi carri che trasportano una quantità di legname eccessiva per i due cavalli che procedono stancamente. Fai attenzione ai pedoni che camminano sul bordo, chiudi gli occhi davanti all’ennesima carcassa circondata da una pozza di sangue sull’asfalto. Sono circa 400 chilometri, ci impieghi più di sei ore, sei finalmente arrivato a Piatra Neamt, centomila abitanti, situata a metà tra l’Ucraina e la Transilvania, città dalla quale sono partiti i rapinatori riuniti in quella che in Italia è stata ribattezzata come la banda degli orfani.
Passamontagna in testa, bastoni, mazze, asce, bombe molotov: entravano nelle migliori gioiellerie d’Europa, devastavano e razziavano tutto. Hanno colpito due volte a Milano, da Franck Muller in via della Spiga, a Parigi, da Vacheron Constantin in place Vendome, poi a Firenze, Londra e Bruxelles. Bottino stimato in cinque milioni di euro. Si muovevano in bus dalla Romania per non lasciare tracce, si accampavano in tende fuori città, facevano dei sopralluoghi e poi colpivano. Organizzati, cattivi, spietati, delle vere azioni paramilitari che dall’ingresso dentro la gioielleria fino alla fuga protetta con bottiglie incendiarie non dovevano durare più di un minuto.
Sessanta secondi di puro terrore. Ma hanno fatto dei piccoli errori, polizia e i carabinieri di Milano si sono messi sulle loro tracce, li hanno inseguiti per un anno e li hanno acchiappati. Sono dieci in totale quelli finiti in carcere in due distinte operazioni investigative ma inevitabilmente intrecciate. Hanno dai 20 ai 25 anni, a parte un minorenne. Ma la cosa che più ha colpito gli inquirenti e destato scalpore sui giornali è che, stando alle informazioni fornite dai poliziotti romeni, tutti questi ragazzi risultavano provenire dallo stesso orfanotrofio, dove la criminalità organizzata li avrebbe reclutati, comprati, rapiti, per poi spedirli a lavorare all’estero.
A Piatra Neamt ci sono tre orfanotrofi che ospitano circa 500 bambini. Solo uno su cento ha i genitori morti, gli altri si sono lasciati alle spalle storie peggiori. C’è il bambino tenuto senza cibo per giornate intere, o completamente nudo fuori di casa, come punizione per piccole malefatte. C’è il bambino obbligato a fare lavori pesanti, o abbandonato in strada a chiedere l’elemosina. C’è il bambino con il padre ubriaco che arriva a casa, massacra di botte la mamma, sfascia tutto, e lui si presenta alla porta dell’istituto, chiede, implora di essere accolto. C’è il piccolo drogato con la colla, c’è quello che non ha mai conosciuto mamma e papà, che sono usciti di casa e si sono scordati di lui. C’è il bambino con diciotto fratelli e sorelle in una casa grande una sola stanza, trovato in una grande discarica dove solo per un miracolo lo hanno distinto dagli altri rifiuti.
L’orfanotrofio è la liberazione, la salvezza. Gli arrestati in Italia hanno una sfilza di nomi seguiti da un cognome che diventa il loro unico appellativo: Vartic, Tabacaru, Lungu, Marian, Ciobanu, Marcu, Nechitoaia, Vadana, Turea, Sandulescu. Titoli che per loro non contano niente. Anzi, spesso sono un peso, un marchio, una linea di discendenza da spezzare. Quei pochi che conoscono Vucinic non sanno neppure che il suo vero nome è Lungu. Utilizzano i soprannomi, ma spesso cambiano anche le generalità all’anagrafe. Forse è anche per questo che si fa fatica a trovare tracce del loro passaggio dentro gli orfanotrofi e nei registri della direzione generale protezione bambini.
Usciti dagli istituti, è come cercare dei fiocchi di neve sulla steppa. A Savinesti, 5 mila abitanti vicino Piatra Naemt, campagna ghiacciata e nebbia bassa che riduce in modo claustrofobico lo spazio vitale tra terra e cielo, ecco apparire le orme di Vartic. Papà morto, mamma partita per l’Italia, due fratelli finiti chissà dove, e una sfilza di furti, rapine, risse, pestaggi, carcere, sentenze, condanne, sconti, cumuli di pena, ancora e sempre carcere. Dentro il quale è stato violentato. Ma anche lui ha abusato sessualmente di un detenuto, e lo ha fatto insieme con Ciobanu, un altro degli arrestati con una fedina penale lunga un chilometro. Come quella di Tabacaru, che in cella è stato sgozzato e per poco non ci ha lasciato la pelle. Poi i consueti interminabili furti, rapine, pestaggi.
Si delinea una sorta di profilo unico degli arrestati, che nella prima parte della loro vita hanno passato molto più tempo in carcere. I segni del loro passaggio su questa terra, almeno per il momento, si trovano soprattutto dentro le sbarre e nella comunità degli avanzi di galera. Fuori, tra la gente che si spezza la schiena in campagna a coltivare mais e patate o tagliare la legna per sopravvivere, quasi nessuno conserva un loro ricordo.
A questo punto diventa superfluo stabilire se sei passato dall’orfanotrofio o te lo sei inventato per ottenere benevolenza, perché sei cresciuto rubando ogni cosa, pure l’identità, perfino la sfortuna e la disgrazia altrui, hai arraffato tutto quello che serviva per massimizzare i risultati e minimizzare i rischi.
Certo, ti sono mancati i modelli positivi, nessuno ha mai dato la possibilità di scegliere. Qual è il bene, dove sta, che colore ha? Che sapore ha? A scuola stavi seduto accanto a un compagno di banco vestito bene, sereno, con dei genitori veri, circondato da affetto. Mentre tu torni a casa e cammini sopra tappeti fatti con lana intrecciata ricavata da vecchi maglioni, dormi con i nonni su un letto senza materasso e mangi sempre patate e fagioli. La prigione è il mondo con dei punti fermi che arriva a mettere ordine nella tua vita, mentre fuori c’è il caos e non c’è nessuno che ti aspetta. Nelle carte giudiziarie di Tabacaru, Vartic e compagni c’è un dato curioso. L’uno denuncia l’altro quando stanno in carceri diversi e distanti l’uno dall’altro. Si accusano di un reato per il quale si fa una causa in tribunale, dove vengono chiamati a testimoniare: viaggio pagato dallo stato, trasferta e possibilità di parlare con l’amico per programmare nuove e future avventure.
Ma gli intrecci non sono finiti. C’è la violenza sessuale come strumento di sopraffazione e dominio, una medaglia da esibire in pubblico come simbolo di virilità, tanto più luccicante quanto maggiore è l’umiliazione dell’altro. Una esplosione di forza e cattiveria che raggiungono il parossismo, perché solo così puoi mettere a tacere il bisogno naturale di uno sfogo sessuale represso che brucia dentro di te. Intanto ti violento, ti faccio diventare un làchit, un parìa, nessuno siede più al tuo tavolo in carcere, dove non puoi fare amicizie e non puoi toccare le cose degli altri. Allora cerchi di scappare o cambiare prigione per andare dove non ti conoscono, e questa volta fai in modo di essere più lesto a violentare prima di essere violentato. Il modello di riferimento è il grande criminale Camataru, che dentro una discoteca affollata di Bucarest ha punito un cantante famoso colpevole di flirtare con una delle sue ragazze: abbassati i pantaloni, gli ha detto, e lo ha marchiato per sempre.
Marian, Marcu e gli altri sono duri, forti, imbattibili. Non hanno paura, non hanno sentimenti, non provano emozioni. Sono la stupidità che si eleva a perfezione, carne pregiata per i criminali veri, che li aspettano fuori, gli fanno quattro moine, li fanno sentire importanti, li valorizzano e li mandano a lavorare nei posti che contano: Milano, Parigi, Londra, nei quartieri più chic. Ti è stata offerta l’occasione, ora tocca a te dimostrare che hai la stoffa. Il tempo della donna picchiata selvaggiamente per strada per strapparle una collanina è finito per sempre.
L’inchiesta sui rapinatori delle gioiellerie non è conclusa. Polizia e magistrati romeni sono partiti da loro per provare a risalire e trovare il legame con la grande criminalità organizzata. Circola una foto di uno degli arrestati che ha destato l’attenzione degli investigatori: Vartic in compagnia di un ragazzo in qualche modo legato al famigerato clan Clamparu, gli zingari di Iasi, città al confine con la Moldova. I Clamparu, il cui capo è chiamato testa di porco, vengono considerati la banda malavitosa tra le più potenti d’Europa, capaci di mettere una taglia di 500 mila euro sulla testa di un poliziotto romeno che ficcava troppo il naso nei loro affari: droga, armi, prostituzione. Incombenze per le quali serve gente che non ha nulla da perdere, che cerca un modo per attirare l’attenzione, per far sapere al mondo che esiste e che c’è anche lui tra gli ingranaggi che fanno girare la terra intorno al sole.