Daniele De Santis: "Ho sparato a Ciro Esposito solo per salvarmi"
L'intervista all'ultrà della Roma, condannato a 26 anni, pubblicata da Panorama un anno fa
I giudici della Terza Corte d'assise di Roma hanno condannato a 26 anni di carcere Daniele De Santis, l'ultrà romanista accusato della morte di Ciro Esposito, avvenuta nel 2014 a Roma. Il giovane tifoso del Napoli venne ferito gravemente il 3 maggio di due anni fa, poco prima della finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli e morì dopo un'agonia durata 53 giorni.
Riproponiamo un'intervista relizzata da Panorama un anno fa a Daniele De Santis.
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di Giovanna Gueci
Il 3 maggio 2014 allo stadio Olimpico di Roma è in programma la finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli. Mentre i tifosi affluiscono verso lo stadio, su viale di Tor di Quinto si verificano violenti scontri durante i quali Daniele De Santis, 48 anni, ex ultrà romanista, ferisce il tifoso napoletano Ciro Esposito, 30 anni, che muore 50 giorni dopo, il 25 giugno. Per la prima volta De Santis accetta di parlare e, in questa intervista esclusiva a Panorama, racconta la sua versione dei fatti (che si basa sulla legittima difesa) riguardo alla morte del giovane napoletano. Nei mesi scorsi ha rilasciato una dichiarazione spontanea ai pubblici ministeri, ammettendo di aver esploso il colpo che ha portato alla morte di Esposito. "Nelle intenzioni di De Santis" spiega il suo avvocato, Tommaso Politi, "la notizia doveva rimanere riservata. Invece è filtrata, come al solito in maniera distorta. È vero, la dichiarazione non spiega come quella pistola sia finita in mano sua. Su questo l’unico a poter dire qualcosa è lui stesso. Di certo il processo mediatico non ha aiutato: il pregiudizio è tale che molti faticano a credere alla stessa perizia del Ris, che è assolutamente favorevole alla difesa". La chiusura delle indagini è attesa tra gennaio e febbraio, il processo dovrebbe cominciare entro tre mesi.
Daniele De Santis, come ha vissuto i mesi trascorsi dalla morte di Ciro Esposito? Che cosa ricorda di quel giorno?
Penso sempre a quel maledetto giorno. Sono passati otto lunghi mesi durante i quali, immobile in un letto, non ho fatto altro che pensare. Questa è e rimane una tragedia per tutti. Per la famiglia di Ciro e anche per la mia famiglia. A volte mi domando: se per salvarmi la vita, oltre alle sofferenze fisiche, devo veder soffrire tanto, non era meglio che mi avessero ammazzato?
Si può dire qualcosa a chi è rimasto colpito da quell’episodio? La famiglia di Ciro, innanzitutto, ma anche le persone che seguono il calcio con passione?
Non mi sono mai rivolto alla famiglia di Ciro non perché non abbia provato sofferenza, l’ho provata eccome! E ho provato a immaginare se, anziché a quei genitori, fosse toccato ai miei: proprio per questo qualsiasi parola avrebbe provocato solo rabbia perché, per quanto potessi esprimere rammarico, avrei dovuto comunque chiedere scusa per essermi salvato la vita. Cosa gli avrei detto? Riguardo all’opinione pubblica, purtroppo conosco bene il modo vergognoso in cui verrebbe strumentalizzata ogni mia frase, vista come qualcosa di utile solo alla mia difesa. Troppe logiche evidenze sono state ignorate palesemente, quindi volutamente. Per cui, a me interessa solo che siano i giudici a valutarle. Del circo mediatico a me non è mai fregato niente, a gente che guadagna speculando sulle disgrazie non do altra legna da ardere. Non sarò un chierichetto, ma ritengo che la sofferenza non sia merce da vendere in tv.
Lei non era lì per caso quel giorno. Perché aveva scelto di vivere in quel posto "occupato"?
Vivo lì perché, oltre alle spese per la sopravvivenza, devo accudire i miei cinque cani e con lo stipendio delle Poste, di cui sono dipendente, non ce l’ho più fatta a pagare il mutuo di casa. In cambio, mi occupavo della manutenzione degli spazi e di fare da guardiano.
Lei era a casa sua, dunque. Poi che cosa è successo?
Stava succedendo il finimondo. Sono uscito a vedere, anche perché sui campi occupati stavano giocando a calcio alcuni ragazzini. Si vedevano i fumogeni e si sentivano esplodere i «bomboni». Da casa mia al viale di Tor di Quinto ci sono 150 metri, lungo i quali si passa davanti a un gabbiotto dei Carabinieri. La cosa che ricordo di aver fatto, l’unica che non avrei dovuto fare, è stata raccogliere un fumogeno e rilanciarlo verso un pullman parcheggiato sul controviale che chiudeva completamente l’accesso. C’era già casino, ma non si vedeva bene, un po’ per il pullman, un po’ per i fumogeni. Improvvisamente, sono spuntate almeno 30 persone. Se fosse andata come sostiene chi mi accusa, avrei dovuto sparare al primo che mi capitava, no?
Invece?
Sono stato aggredito, ho cominciato a fuggire e ho preso bastonate e le prime coltellate. Ho provato anche a chiudere il cancello che divide i campi dal viale, dove si trovava la mia abitazione, provando a bloccarlo con le braccia e con una gamba che è rimasta sotto e che, per questo, si è quasi staccata completamente dal corpo, come dicono i referti, rimanendo attaccata solo con qualche brandello di muscoli e pelle. Ho arrancato ancora per qualche metro, poi li ho avuti ancora addosso. Ero convinto di vivere gli ultimi momenti della mia vita.
E subito dopo, lo sparo.
Sì. E se non avessi premuto quel grilletto, sarei morto. Credo che in quel momento nessuno al mondo avrebbe potuto fare altrimenti. Parlare ora, a freddo, non è semplice. E non per strategia. Ho pensato e ripensato a quegli attimi, anche se ricordare tutto in maniera fotografica non è semplice. Ciò che ricordo di più è il dolore violento, un dolore assurdo, e poi il frastuono e l’orda di gente su di me. Comunque l’ho detto ai magistrati, non ho mirato, non volevo uccidere nessuno.
Un passo indietro. In che modo ha iniziato a far parte del mondo degli ultrà?
Se avesse due giorni di tempo glielo racconterei. È un mondo che ho frequentato per oltre trent’anni. Sono abbonato dal 1978 con la Roma, da quando avevo 13 anni. Mi affascinava il fatto che il calcio fosse uno sport così diverso da quello che praticavo io, il karate. Allo stadio conosco tutti e tutti mi conoscono, ma non sono mai stato un leader né ho mai capeggiato un gruppo. Non c’ho mai nemmeno provato. Tra le tante sorprese, dai giornali ho saputo che avrei un soprannome, Gastone. Nessuno mi ha mai chiamato così. Mi chiamano Danielino dai tempi in cui pesavo 50 chili di meno.
Quello degli ultrà è un ambiente libero oppure è condizionato da fattori esterni?
In curva c’è di tutto. E poi negli anni ho visto tendenze politiche diverse, a seconda delle mode. Le mie simpatie politiche le ho sempre tenute al di fuori del mio grande amore per la Roma e chi mi conosce può confermarlo.
È però di pochi giorni fa il riferimento a suoi collegamenti con l’inchiesta Mafia Capitale in base a intercettazioni telefoniche.
Ci mancava solo la mafia. Se non stessi vivendo una tragedia mi verrebbe da ridere. Perché finora ho sentito di tutto: che ero il braccio destro di Gianni Alemanno, che non ho neanche mai visto; che farei parte dei servizi segreti deviati e adesso la mafia. Cose che miprovocano più dolore delle ferite fisiche. Forse chi dice queste cose ci crede o comunque, a forza di dirle, qualcuno ci crederà. Risponderle mi sembra quasi assurdo: lo faccio comunque per chiarezza, specificando che delle persone coinvolte in Mafia Capitale non ne conosco nemmeno una e di quei fatti non so proprio nulla. Ma avete visto dove vivevo? Torniamo alla realtà, per cortesia: vivevo in una specie di casa occupata, facevo il guardiano a dei campi di calcio, conoscevo tutti i ragazzi e i genitori dei ragazzi che andavano a giocarci. Le somme tiratele voi.
È d’accordo sul fatto che le violenze commesse dagli ultrà siano il male principale del calcio italiano?
Di certo non faccio il santo, per cui non negherò che mi sia capitato di fare a pugni allo stadio. Ma la violenza non è prerogativa solo dello stadio. Gli episodi più gravi successi in passato, l’accoltellamento di un tifoso o altri incidenti mortali, sono sembrate sempre cose assurde anche a me. Chi mi conosce bene sa che io, se proprio devo, affronto lealmente le persone e che in vita mia non ho mai usato un’arma, nemmeno un taglierino. Figuriamoci un’arma da fuoco. Diversamente, non avrei aspettato di arrivare a 48 anni per usarla.
Colpisce che lei abbia avuto un passato importante da sportivo. Che esperienza è stata?
Quasi mi dispiace di smontare il mostro a cui la gente si è abituata. Il mio percorso sportivo forse stupirà chi di me conosce soltanto ciò che è stato conveniente dipingere. Sono stato campione italiano di karate, ho anche avuto il diploma al merito sportivo in questa disciplina che ti forma non solo sportivamente, ma anche umanamente, un percorso iniziato da bambino e che ho seguitato a insegnare ai bambini. Uno sport di autodifesa e non di attacco. Sono figlio di un maestro di karate, che mi ha trasferito i valori di questa disciplina come la lealtà, l’autocontrollo, il rispetto dell’avversario, considerando l’uso delle armi uno sminuimento della dignità. Tutto questo è ciò che ho cercato di portare con me non solo nelle gare, ma anche nella vita.
Quali sono le sue attuali condizioni?
Sono cosciente di non poter tornare più a camminare normalmente, anche se non ho mai smesso di lottare per cercare di evitare almeno l’amputazione della gamba. In seguito agli scontri di quel giorno, ho un’osteomielite cronicizzata per la quale, secondo i medici del carcere di Regina Coeli prima e di Belcolle di Viterbo ora, devo essere rioperato. In Italia esistono solo tre centri specializzati in grado di potermi accogliere: a Savona, al Rizzoli di Bologna e a Cortina. Cortina si era resa disponibile anche con il posto letto. Invece, nonostante il Gip mi abbia autorizzato per qualunque ospedale sia in grado di accogliermi, per motivi burocratici il trasferimento dal carcere non è ancora possibile: assurdo, mentre si gioca con la burocrazia lo si sta facendo anche con la mia vita. La mia situazione non è trattata come altre analoghe: il mio fisico è ormai a pezzi a causa dei farmaci assunti senza sosta da quasi nove mesi.
Ha qualche paura?
Certo. La mia prima preoccupazione è stata che alcune mie dichiarazioni avrebbero messo in pericolo l’incolumità soprattutto della mia famiglia anche perché la stampa, molto coscienziosamente, ha pensato bene di rendere pubblici i loro nomi, cognomi e indirizzi. E ancora vi chiedete perché non voglio parlare? Mi hanno messo un’intera città contro, compresi i suoi ambienti più pericolosi. Quindi, prima di mettere a rischio i miei cari con dichiarazioni che verrebbero solo strumentalizzate, ho preferito rimanere in silenzio, almeno fino al processo. Penso che se fossi morto anch’io, oggi probabilmente l’avversario non sarebbe il pregiudizio, ma soltanto chi ha tentato di uccidermi. A volte, quando vengo ferito dalle parole di chi parla senza sapere la verità, vorrei anche solo per un secondo che si fossero trovati nella mia situazione.
Lei parla di pregiudizio.
Sì, il pregiudizio che non ti affronta mai ad armi pari. Specie quando hai la sfortuna di incarnare mediaticamente il perfetto stereotipo di mostro da sbattere in prima pagina. Lì combatti contro la soluzione più comoda per tutti. Non devi stupirti che non ci sia più nessuna logica, che di colpo scompaia anche la più ovvia delle evidenze, come le coltellate che ho preso, fino a quando almeno questa verità non è emersa dalle perizie. Si è dato spazio a qualsiasiipotesi, anche la più assurda, pur di mantenere il punto. Partendo dal folle gesto di un pazzo scatenato arrivando con disinvoltura all’esatto opposto: l’agguato studiato e premeditato per motivi misteriosi, passando per i servizi segreti e arrivando addirittura a Mafia Capitale. Quando il tuo nemico è il pregiudizio, tutto può accadere e la verità diventa un pessimo affare.
Le indagini, però, hanno messo in evidenza anche elementi diversi da questo.
Per fortuna c’è ancora chi non ha voglia di soluzioni di comodo. Ci sono organi investigativi come il Racis che si fermano solo davanti alla verità (secondo i carabinieri del Racis, De Santis avrebbe fatto fuoco su tre tifosi del Napoli mentre veniva aggredito e ferito, ndr) ed è solo grazie a loro che tutti sono ora obbligati a farsi domande logiche, a cercare formule diverse, meno frettolose, dal definirmi un mostro. Per ora la verità, oltre a chi c’era, la sa solo Dio. Le mie parole servono a poco. Spero davvero che chi avrà l’autorità di giudicarmi non sarà condizionato e che, nel frattempo, gli ulteriori accertamenti della procura chiariscano definitivamente quei momenti.