Le relazioni pericolose dell’antimafioso Rosario Crocetta, neogovernatore della Sicilia
A partire dagli anni Settanta, fra matrimoni e competizioni elettorali, il nuovo presidente della Regione Siciliana è entrato in contatto con alcuni uomini di Cosa nostra. Frequentazioni poco raccomandabili per un uomo delle istituzioni, mai approfondite dalla magistratura. Ma che ora potrebbero minare la sua credibilità.
Nella Sicilia in cui uno sguardo accorda, una parola combina e una stretta di mano compromette, c’è una storia che non è stata mai raccontata. «Bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia» scriveva Leonardo Sciascia. Nel nostro caso, basta fermarsi a Gela, tra i miasmi del Petrolchimico e la poltiglia avanzata dalle guerre di mafia, per capire quanto è incredibile la Sicilia. La città dov’è nato e vissuto Rosario Crocetta, nuovo presidente dell’isola. Dov’è stato sindaco dal 2003 al 2009. A Gela, tra i polverosi archivi del commissariato, gli studi di avvocati penalisti e le testimonianze dirette, emerge, una carta sopra l’altra, il passato del governatore che sfidò Cosa nostra fino a farsi vessillifero dell’antimafia. Un passato sorprendente: fatto di conoscenze di uomini «d’onore» dai fulgidi trascorsi criminali. Campagne elettorali al fianco di aspiranti boss. Matrimoni in compagnia di futuri capiclan. Non sono episodi che emergono dai velenosi crocicchi di piazza Umberto I, ma da relazioni di polizia e atti giudiziari.
Il primo è un’informativa della polizia datata 31 marzo 2003. Crocetta, in quel momento appena eletto sindaco di Gela, ha già avviato la sua lotta contro le cosche. Ma a pagina 6 del rapporto, inviato alla Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, il vicequestore Antonio Malafarina, che guida il commissariato di Gela, scrive: «Va comunque rilevato, per quanto a conoscenza di quest’ufficio, che la campagna elettorale del Crocetta sarebbe stata in parte condotta da Celona Emanuele, oggi collaborante, esponente di Cosa nostra, appartenente alla cosca mafiosa degli Emmanuello, più volte notato in compagnia del Crocetta, che frequentava la libreria del Celona, il quale avrebbe reso dichiarazioni in merito a tale supporto elettorale».
Ai tempi del rapporto, Celona si era già «buttato pentito». Aveva cominciato a collaborare con la giustizia il 16 ottobre 2002, dopo una carriera di primo piano da affiliato cominciata nel 1990 e culminata nel 1999, con la reggenza del clan Emmanuello, una delle due «famiglie» storiche gelesi. Il 31 luglio 2010, nelle motivazioni della sentenza del processo «Munda mundis» sul racket dei rifiuti, i magistrati scrivono che Celona «ha anche avuto contatti con imprenditori e politici nonché commissionato omicidi, come è stato dallo stesso dichiarato in udienza». In quegli anni, inoltre, si è dedicato alla «gestione dei latitanti, al traffico di sostanze stupefacenti e alle estorsioni».
La prima testimonianza dei rapporti tra l’emergente capoclan e il futuro governatore siciliano risale proprio ai primi mesi del 1998, in occasione delle amministrative gelesi: Crocetta, per la prima volta, si candida al consiglio comunale. Appena uscito da Rifondazione comunista, cerca un posto in lista con i Verdi. Celona è stato scarcerato poco prima, il 27 gennaio del 1998: ha già alle spalle due condanne per associazione mafiosa e un periodo di latitanza. Saverio Di Blasi all’epoca è presidente della sezione locale del Sole che ride: è lui, racconta, «dopo varie insistenze da parte di Rosario» a decidere di candidare Crocetta. «D’accordo con Emanuele Amato, il segretario del partito, gli offriamo la nostra sede per farne il comitato elettorale» racconta Di Blasi a Panorama. «Un giorno ci trovo un ragazzo bassino, con gli occhiali, che sistema manifesti e volantini. Gli chiedo com’è entrato. Mi risponde: “Mi ha dato le chiavi Rosario”. Fu la prima volta che vidi Celona».
I due erano inseparabili. Aggiunge Di Blasi: «Celona organizzava con Crocetta incontri in un garage del Bronx, il quartiere della criminalità gelese. Distribuiva il suo materiale elettorale. Saliva con lui sul palco durante i comizi. Fra i due c’era un’amicizia strettissima: Celona l’ho incontrato anche a casa di Rosario, e Rosario ci dava spesso appuntamento nella libreria di Celona». Attività che l’uomo d’onore aveva aperto con una delle sorelle in piazza Umberto I. Tutto fila liscio fino a quando, a un mese dalle elezioni del 1998, qualcuno prende da parte Di Blasi con aria circospetta: «Ma lo sai con chi cammini? Quel Celona non è una persona a posto» gli riferisce il conoscente. Il presidente dei Verdi riferisce subito l’accaduto al suo candidato, Crocetta. Che lo rassicura sull’amico, già da anni affiliato a Cosa nostra: «Mi disse che Celona era un bravo ragazzo. E per me la cosa finì lì. Fin quando lo stesso Celona, qualche giorno dopo, arriva in sede mentre sono lì con Amato. Ci guarda a muso duro: “Che fa, non vi piace la mia faccia?” domanda in dialetto. Intanto si apre la giacca: ha una pistola infilata nella cintura». Amato aggiunge: «Sconvolti, lo riferiamo subito a Rosario, che però continua a difenderlo. Pensiamo anche di ritirare la candidatura, ma purtroppo ormai è tardi».
In quella tornata elettorale, nel 1998, Crocetta è il consigliere più votato: oltre 800 preferenze. Da lì comincia la sua ascesa: assessore, sindaco, europarlamentare, governatore. Un successo dopo l’altro, nel solco di una sincera battaglia antimafia. Ma sui suoi trionfi politici si innesta una frequentazione scomodissima. E reiterata. Perché Celona partecipa attivamente anche alla successiva campagna elettorale: quella del 2002, in cui Crocetta si candida a sindaco.
Questa volta non è un attivista dei Verdi a certificarlo, ma l'informativa del commissariato di Gela, firmata dal vicequestore Malafarina. Che, smessi i panni dell’investigatore, nel 2012 ha cominciato una brillante e agevole carriera politica, proprio al fianco di Crocetta. Alle ultime elezioni regionali, infatti, il poliziotto è diventato consigliere regionale nel listino bloccato del presidente. Intervistato dal sito Livesicilia, Malafarina ha spiegato: «Ho indagato su Crocetta perché conosceva Celona e, visto che il tizio era mafioso, volevo capirne il motivo senza fare sconti. Emerse che tra i due c’erano stati occasionali rapporti. Nel frattempo Celona iniziava a collaborare con la giustizia, sollecitato proprio da Crocetta».
Questo ruolo, però, non è mai emerso dalle carte processuali. Ai magistrati Celona ha infatti spiegato di essersi pentito vista «la deliberazione della sua uccisione da parte degli altri sodali, anche a causa della precedente collaborazione di suo fratello Luigi, ex appartenente a Cosa nostra». Nel resoconto firmato da Malafarina a marzo 2003 c’è dell’altro. L’ex vicequestore riferisce delle presunte minacce a Crocetta da parte di esponenti della famiglia Di Giacomo, «che ha conclamata appartenenza a cosche mafiose: in particolare alla Stidda». Nove anni fa Salvatore Di Giacomo era un votatissimo consigliere provinciale dell’Udeur che, scrive ancora Malafarina, «riesce a condizionare, dall’alto della sua riconosciuta caratura criminale» il sistema degli appalti nella manutenzione a Gela. Uno che all’epoca il senatore del Pd Giuseppe Lumia, campione dell’antimafia e grande sponsor di Crocetta, considerava indegno candidare nel centrosinistra.
Nel 2002 Di Giacomo fa correre al consiglio comunale il figlio Paolo. E incontra Crocetta, allora candidato sindaco, per proporgli accordi elettorali. Lo stesso governatore lo confermerà in un’intervista al quotidiano La Sicilia il 17 agosto 2004. «Li ho visti tre volte. E avevo una paura indescrivibile: quella di un normale cittadino che non conosce perfettamente i meccanismi di certi poteri criminali ma ne ha sentito parlare. E sa che anche un rifiuto può essere fatale».
Per sua stessa ammissione, quindi, Crocetta vede Di Giacomo, nonostante lo reputi (a ragione) un uomo d’onore. Uno degli incontri si svolge in un famoso ristorante di Scoglitti, paesone di villeggiatura a 40 chilometri da Gela. Crocetta, nell’intervista, chiarisce: «Qualcuno insiste: “Di Giacomo vuole parlarti”. Accetto malvolentieri». In cambio dell’appoggio elettorale dell’Udeur, «mi chiede l’assessorato per il figlio Paolo».
All’incontro partecipa anche l’ingegnere Roberto Sciascia, allora responsabile dei Lavori pubblici al comune e diretto superiore di Salvatore Di Giacomo, che lavora nello stesso ufficio. A Panorama, oggi, Sciascia racconta: «Ricordo perfettamente: fu Crocetta a chiedermi di organizzare quel pranzo, un mese prima delle elezioni. L’atmosfera era amichevole e cordiale: tra i due c’era confidenza. Di Giacomo chiese l’assessorato per il figlio Paolo. In cambio avrebbe portato la sua dote elettorale. Crocetta rifiutò, ma gli promise che si sarebbe interessato per trovare un posto di lavoro al figlio. Sono vicende che ho avuto modo di raccontare nel maggio del 2009, convocato dai carabinieri di Gela».
E chi era il titolare dell’indagine? «Il maresciallo mi disse che l’interrogatorio si svolgeva su delega del pubblico ministero di Caltanissetta, Nicolò Marino». Un’inchiesta di cui non sembra esserci traccia documentale. E vani sono stati tutti i tentativi di Panorama di contattare il magistrato. Che lunedì 19 novembre ha annunciato l’addio alla Dda nissena per accettare, come tecnico, l’incarico di assessore all’Energia e ai rifiuti, proprio nella giunta guidata da Crocetta.
Ma torniamo a Scoglitti. Dopo il pranzo, Paolo Di Giacomo è eletto nelle file avverse con 600 voti. E Crocetta viene battuto dal candidato del centrodestra, Giovanni Scaglione. Ma fa ricorso al tar, che 10 mesi dopo gli darà ragione. Il 12 marzo 2003, in piazza Umberto I, fa il suo discorso di ringraziamento. «In tale comizio» segnala nel suo rapporto all’Antimafia l’allora vicequestore Malafarina «spiccava la figura di Paolo Di Giacomo». Qualche giorno dopo però Crocetta rompe definitivamente con i Di Giacomo: «Li sbattei fuori dall’ufficio» racconta sempre al quotidiano La Sicilia. «E da lì sono cominciati i miei guai». Anche per questo Paolo Di Giacomo avrebbe fatto al sindaco quelle «minacce di presumibile stampo mafioso» su cui indagherà il commissariato di Gela guidato da Malafarina.
Ma l’atto firmato dal neoconsigliere regionale non è l’unico documento giudiziario in cui la figura di Crocetta non emerge come icona dell’Antimafia. Rosario Trubia, «reggente della famiglia Emmanuello dal 1995 al 1998», comincia a collaborare a novembre del 2006, dopo l’uccisione di tre fratelli. Da pentito, scrivono i giudici sempre nella sentenza «Munda mundis», «si è accusato e ha accusato altri soggetti di gravi delitti, per alcuni dei quali non erano ancora in corso indagini nei suoi confronti».
È un collaboratore di primo piano, Trubia: ha riferito anche di suoi rapporti diretti con alcuni politici. In particolare con Franco Gallo, predecessore di Crocetta alla guida del Comune di Gela. Il pentito, sottolineano i magistrati, sul tema ha un’«attendibilità intrinseca». E inoltre «non è stata riscontrata alcuna incongruenza, logica e cronologica». Da quando ha cominciato a collaborare, Trubia è un fiume in piena. Il 19 febbraio 2007, interrogato dal pm di Caltanissetta Antonino Patti, parla di un presunto appoggio elettorale di Cosa nostra all’allora aspirante sindaco: «Tutta la malavita che c’era a Gela se lo portava appresso Crocetta… Crocetta è cresciuto nel Bronx, alla Macchitella». Trubia racconta pure che «delinquenti» e «figli di delinquenti» «portavano una cassetta di legno, ci mettevano un pezzo di legno e raccoglievano le firme» per la sua candidatura ai «quattro cantuneri», cioè alla fine del corso principale di Gela. Trubia continua: «Gli stiddari (per l’elezione, ndr) me lo hanno rinfacciato: “Non lo portaste voialtri a questo che ora sta facendo un macello? Ora lui per non farsi scoprire che era colluso che cosa fa? Attacca sempre la mafia». Gli viene chiesto in carcere per chi si votava. «Per Crocetta» risponde Trubia. Che spiega: «In pratica quelli che votarono a lui pensavano fosse malleabile». Invece «una volta che è diventato qualcuno, questo è cambiato». E reitera: «Perché il sindaco è stato portato dalla malavita di Gela, almeno per quello che mi consta a me». Un’affermazione gravissima, che non ha avuto alcun seguito giudiziario.
Celona, Di Giacomo, Trubia. Al governatore Panorama ha chiesto di chiarire tutte queste circostanze. Ma alle ripetute richieste di intervista Crocetta non ha mai risposto. Resta così senza replica anche la storia dei rapporti con un suo vecchio amico: Alessandro Barberi, collega al Petrolchimico, dove il presidente della Regione Siciliana ha lavorato come perito prima di darsi alla politica. I due sono amici. Tanto che Crocetta, nel 1973, gli fa da testimone di nozze. Un anno dopo Barberi viene condannato per furto. Nel 1976, segnalano gli archivi della polizia, è sospettato di avere rapinato un istituto di credito di Licata. All’inizio degli anni Ottanta si avvicina a Cosa nostra. Fino a diventare capomandamento di Gela nel 1989. Barberi è pure consuocero di Giuseppe «Piddu» Madonia, ex capo di Cosa nostra in provincia di Caltanissetta, condannato all’ergastolo per la strage di Capaci: suo figlio Marco ha infatti sposato Maria Stella Madonia, figlia del boss.
Crocetta non ha mai negato di avere fatto da testimone a Barberi: «Io avevo 22 anni, lui 23» ammise in un’intervista del 2006. Aggiungendo un disarmante amarcord: «Era un ragazzo della Fgci, non un mafioso. Anzi, era un fine intellettuale. Che leggeva molto e amava il poeta francese Arthur Rimbaud».
(ha collaborato Gian Marco Chiocci)