Migranti: solo la stabilizzazione della Libia può fermare gli sbarchi
Il nuovo piano d’azione sulla rotta migratoria del Mediterraneo centrale parte bene. Ma resta un dubbio: con chi allearsi per risolvere la crisi libica?
Come era prevedibile, le ottimistiche dichiarazioni d’intenti rilasciate lo scorso 20 marzo a Roma dai leader europei e del Nord Africa al termine della prima riunione del “Gruppo di contatto sulla rotta migratoria del Mediterraneo centrale”, sono state presto inghiottite dalla realtà dei fatti.
Due le notizie delle ultime ore che hanno fatto emergere da subito le difficoltà enormi a cui è destinato ad andare incontro il piano d’azione stilato nella sede della Scuola Superiore di Polizia dai ministri dell’Interno di Italia, Algeria, Austria, Francia, Germania, Libia, Malta, Slovenia, Svizzera e Tunisia, in presenza del presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni, del premier del Governo di Accordo Nazionale (GNA) libico Fayez Al Serraj e del commissario europeo per le Migrazioni e gli Affari Interni Dimitris Avramopoulos.
La prima racconta dell’ennesima tragedia che, secondo la ONG spagnola Proactiva Open Arms, si sarebbe consumata questa notte circa 20 chilometri a largo di Sabratha, città strappata ai miliziani dello Stato Islamico dopo lunghi combattimenti all’inizio del 2016.
In queste acque sono stati recuperati una manciata di corpi di migranti, ma si teme che le vittime possano essere molte di più, forse oltre 200, considerato che le due imbarcazioni che sono naufragate trasportano in media circa 120 persone l’una.
Quasi in contemporanea il giornale libico Libya Herald ha dato la notizia dell’annullamento da parte della Corte d’appello di Tripoli dell’intesa raggiunta a Roma il 20 marzo dal premier Al Serraj. Una bocciatura seguita a un ricorso presentato da sei persone, tra cui l’ex ministro della Giustizia Salah Al-Marghani, e motivata dalla mancanza del riconoscimento del governo di Al Serraj da parte del parlamento di Tobruk, controllato dal generale della Cirenaica Khalifa Haftar.
In pratica, secondo il tribunale tripolino, fin quando Al Serraj non otterrà questo riconoscimento non potrà stringere alcun tipo di accordo internazionale, compreso quest’ultimo con l’UE sui migranti.
La debolezza di Al Serraj
La decisione, al netto della sua effettiva validità, mette dunque in risalto l’anello debole della strategia presentata a Roma. Questo anello debole si chiama Al Serraj, il quale fatica ad avere il controllo della stessa capitale Tripoli, si è presentato al vertice in Italia al fotofinish dopo essere scampato a un attacco alla base navale di Abu Sitta dove si trova la sede del suo governo e, di fatto, per un numero sempre maggiore di attori internazionali (Russia, Egitto e Francia solo per citare i Paesi che finora si sono maggiormente esposti a sostegno del suo rivale Khalifa Haftar) non rappresenta l’uomo adatto per salvare la Libia dal definitivo fallimento.
Con un premier dimezzato sull’altra sponda del Mediterraneo, e vista la chiusura della tratta balcanica, l’Europa non può pertanto che rassegnarsi alla crescita di traversate, sbarchi, naufragi e morti. Dal 2014 le vittime accertate solo in questa tratta sono state oltre diecimila: circa 2.850 nel 2015 e 4.600 nel 2016, segnando un aumento significativo da quando ad Al Serraj è stato assegnato l’incarico di guidare il GNA dall’ONU all’inizio dello scorso anno.
I punti critici del piano di Roma
I numeri parlano chiaro e le notizie delle ultime ore non lasciano ben sperare con l’arrivo della primavera e in vista dell’estate quando, con le temperature più miti, i viaggi della disperazione cresceranno inevitabilmente.
Nella speranza di essere smentiti, è possibile intanto tracciare una prima analisi del piano d’interventi concordato a Roma, su cui verrà fatto un punto tra poche settimane a Tunisi. La nuova roadmap, tracciata con pragmatismo dal ministro degli Interni italiano Marco Minniti, parte da due presupposti innegabilmente giusti: per invertire la tendenza dei flussi migratori dall’Africa subsahariana serve rafforzare la partnership tra Europa e i Paesi del Nord Africa coinvolti nell’iniziativa, vale a dire Algeria, Tunisia e Libia; inoltre, se si intendono realmente fermare i trafficanti di uomini è necessario prima stabilizzare la Libia.
Gli interventi in cantiere sono tre. Il primo consisterà nell’accelerare il processo di costituzione della Guardia costiera libica. Il ministro Minniti ha spiegato che sulla nave San Giorgio è in fase di ultimazione l’addestramento di 93 tra ufficiali e sottoufficiali libici.
Inoltre, entro la metà di maggio verranno consegnate alle forze di sicurezza che rispondono al GNA 10 motovedette. In contemporanea, da qui alla fine di luglio, tra Taranto e La Maddalena, verranno addestrati circa altri 250 militari libici.
L’obiettivo è mettere al più presto la Guardia Costiera libica nelle condizioni di potersi coordinare con i contingenti dei Paesi UE che operano nell’ambito della missione Sophia. L’operazione, il cui nome ufficiale è Eunavfor Med, ha permesso finora di salvare oltre 34 mila vite umane, arrestare 104 scafisti e bloccare 407 imbarcazioni.
Dei tre obiettivi fissati, quello di far diventare la Guardia Costiera libica parte integrante di Sophia appare come quello più facilmente raggiungibile. L’Italia ha infatti già dato dimostrazione in altri teatri di guerra e in altri scenari di crisi all’estero delle proprie capacità di addestramento.
Problemi maggiori si presentano invece nel caso del secondo intervento, il cui fine è la predisposizione di un sistema di sorveglianza delle coste libiche che consentirà di fermare già in acque territoriali libiche le persone che tenteranno la traversata del Mediterraneo. Dunque, i migranti africani, una volta fermati al largo delle coste libiche, verranno riportati in Libia. Qui, come affermato dal ministro Minniti, saranno allestiti per loro "campi di accoglienza, nei quali dovranno essere rispettati i diritti umani".
Si tratta di un passaggio cruciale che però difficilmente nel suo complesso difficilmente potrà essere portato a termine se le coste libiche continueranno a essere sotto il controllo di più padroni come sta accade dalla caduta di Gheddafi nel 2011. Se è vero che la maggior parte dei migranti prendono il mare dalla Tripolitania (dunque dalla fascia di costa formalmente controllata da Al Serraj), è altrettanto vero che solo un sistema di difesa libico unificato può garantire un contenimento efficace dei flussi.
Il che rimanda per forza di cose al generale Haftar e al Libyan National Army ai suoi ordini. Se l’Europa e l’Italia non capiranno che è necessario rapportarsi con lui, e includerlo nel progetto di formazione di un governo unitario in Libia, non potranno mai sperare in un controllo definitivo delle coste libiche.
Il terzo punto, altrettanto complicato, riguarda infine l’intenzione di bloccare alla fonte, e dunque ai confini meridionali della Libia, i flussi migratori che provengono dall’Africa Sub-sahariana.
Per centrare questo obiettivo l’Italia ha già messo sul piatto 200 milioni per il “Fondo Africa” e altri 200 sono in arrivo dall’UE. Nella regione del Fezzan, confinante da ovest verso est con Algeria, Niger e Ciad, l’Italia da tempo ha avviato tentativi di dialogo con i capi clan e con i sindaci dei gruppi locali Tebu, Tuareg e Suliman. Sono trattative su cui il governo di Roma punta molto considerato che è proprio da qui che nei primi due mesi del 2017 è partito il 90% dei 16 mila migranti arrivati sulle coste italiane.
Il dialogo, però, rischia di sbattere contro gli interessi dei gruppi jihadisti che operano nell’area. La minaccia più forte arriva da Jamaat Nasr Al islam wa Al mouminin (“Gruppo per la vittoria dell’Islam e dei suoi fedeli”), nuova creatura di Al Qaeda in cui oltre ad AQIM (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), sono recentemente confluite anche Ansar Eddine, Al-Mourabitoune (“Le sentinelle”) e il gruppo salafita Fronte di Liberazione di Macina e in cui ha un ruolo dominante il signore della guerra Mokhtar Belmokhtar.
La tratta di esseri umani è solo uno dei segmenti del giro d’affari che la nuova coalizione qaedista contende ad altri gruppi armati e di ribelli maliani che operano nel Sahel: riscossione dei riscatti ottenuti dalla presa di ostaggi originari di Paesi occidentali, traffici di droga e, per l’appunto, controllo delle rotte dei migranti.
Finanziamenti aggiuntivi, un maggiore coordinamento tra le forze di sicurezza dei Paesi coinvolti, scambio di expertise e di informazioni di intelligence sono le parole chiave usate dai leader di Europa e Nord Africa per lanciare la nuova strategia di gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo. Lo scatto in avanti in termini di consapevolezza dell’emergenza è stato fatto. Ma resta da risolvere il rebus libico. Solo sciogliendo questo nodo, le ondate di disperati che solcano il Mediterraneo potranno davvero diminuire.