Rakhine Myanmar Rohingya, rifugiati
Ye Aung Thu/AFP/Getty Images
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Myanmar, viaggio fra i musulmani perseguitati

Nello Stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh, dove la minoranza Rohingya vive in una condizione di apartheid. Il nazionalismo buddista e i rischi di strumentalizzazione degli estremisti islamici di Asia e Africa

Yangon, Myanmar (Birmania) - Quando Nandar arriva indossando la tradizionale gonna birmana alle caviglie e la polvere gialla sul viso è difficile distinguerla dalle altre donne che camminano di fianco a lei nelle affollate strade di Yangon, la città più popolosa del Myanmar.

Non indossa il velo, ma la sua appartenenza alla minoranza musulmana Rohingya si rivela presto: “Mio zio vive a Sittwe e lì si vive rinchiusi in un ghetto: lui non può uscire, non può cercare un lavoro e vive di donazioni dall’esterno, ma una parte se la tiene la polizia.”

Sittwe è molti chilometri più a nordovest, nello Stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh. La proposta di andarlo a cercare non viene accolta: “Io lì non ci vado, ho paura.”
Mentre i Rohingya a Yangon vivono una vita relativamente tranquilla, la storia della minoranza musulmana del Myanmar – o Birmania - cambia radicalmente quando ci si muove oltre le catene montuose che definiscono i perimetri dello Stato di Rakhine.
È qui che si capisce perché Nandar non vuole venire.

Lo Stato di Rakhine
Questo è uno dei luoghi, insieme al Bangladesh, da cui parte il flusso illegale di migranti verso Paesi più ricchi come la Thailandia o la Malesia.

Migliaia di persone in fuga da condizioni di vita senza prospettive si mettono nelle mani di trafficanti di uomini, fino ai tragici risvolti venuti alla luce nelle scorse settimane: oltre tremila migranti – Rohingya ma anche molti Bengalesi – arrivati sulle coste di Tailandia, Malesia e Indonesia; altre migliaia forse ancora su barche alla deriva senza cibo e acqua, abbandonati dai trafficanti in fuga dopo il giro di vite voluto dalla Tailandia; altre centinaia destinati al più macabro dei risvolti: arrivati a destinazione e morti in fosse comuni nei luoghi dove avrebbero dovuto ricominciare una nuova più promettente esistenza.

Decine di corpi sono stati riesumati in sette campi-prigione al confine fra la Tailandia e la Malesia. I primi riscontri mostrano segni di imprigionamento e tortura.

I trafficanti – in alcuni casi essi stessi Rohingya – approfittano del fatto che la minoranza musulmana del Rakhine sia priva di documenti che ne riconoscano la cittadinanza e non ha quindi libertà di movimento né dentro né fuori dal Myanmar.

Non mancano anche i casi di rapimento dietro richiesta di riscatto alle famiglie. L’ipotesi è che fra coloro che sono stati uccisi e seppelliti nei campi, ci fossero anche i familiari di chi non ha pagato.
Perché allora correre un simile rischio?

Check point della polizia e filo spinato
Varcando il confine del ghetto di Aung Ming Lar, dove vivono i familiari di Nandar, la risposta è scritta nei volti e nelle parole degli abitanti. Ai bordi della strada minuti ragazzini svuotano i canali dal fango per prepararli alla stagione dei monsoni, quando Rakhine diventa una delle zone più piovose del pianeta.

L’area è isolata dal resto della città da check point della polizia e filo spinato. Le uscite dal perimetro di quelle poche vie sono limitate a due a settimana, accompagnati. In assenza di permesso speciale si può solo sgattaiolare da una via secondaria. L’arrivo di estranei attira immediatamente l’attenzione di un ragazzo, poi un altro, poi un altro ancora.

Non ci possiamo muovere. Avevamo i nostri negozi, ora sono chiusi, non ci possiamo andare, non possiamo uscire per cercare un lavoro,” spiega Sharif, che parla senza sosta per il solo fatto di trovarsi di fronte ad un possibile contatto con l’esterno. “Non ci sono medici e non possiamo studiare. C’è solo la scuola elementare,” insiste.

“Questo posto è come una prigione per noi,” gli fa eco Mohammad, alle sue spalle.
La situazione è ancora più drammatica nei campi per sfollati: “Ho visto bambini morire di malaria una volta arrivati alla clinica mobile, perché per uscire hanno bisogno dell’autorizzazione e anche in questi casi è arrivata solo dopo due o tre giorni,” racconta Wai Lin, ricordando il suo lavoro per una ong in Rakhine.

Rakhine è uno degli stati più poveri del Myanmar, a sua volta uno dei più poveri del sud est asiatico nonostante la rapida crescita seguita alla fine di 50 anni di chiusura economica sotto un regime militare.

Proprio questa povertà ha acuito le tensioni fra la maggioranza buddista e la minoranza musulmana, che costituisce un terzo degli abitanti dello Stato costiero. La situazione è precipitata nel luglio del 2012, quando violenti scontri hanno avuto come esito la morte di circa 200 persone e il trasferimento di 140mila Rohingya – e circa 10,000 Rakhine - in campi per sfollati. Quattromila musulmani vivono nel ghetto. La ragione ufficiale è evitare ulteriori scontri e il risultato sono condizioni di vita che l’ONU definisce di effettiva “segregazione”.

Apartheid dei musulmani: il silenzio di Aung San Suu Kyi
La condizione di apartheid in cui vive la minoranza musulmana da ormai tre anni ha compromesso pesantemente l’immagine della transizione democratica del Myanmar e l’impegno riformista del presidente Thein Sein, messo sotto pressione anche dai vicini dell’area Asean.
Ma a farne le spese è stato anche il mito del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, il cui silenzio sulla questione non è passato inosservato nemmeno al Dalai Lama, che le ha richiesto espressamente di intervenire.

Il nazionalismo buddista
A rendere complessa la gestione della vicenda tanto per il governo quanto per l’opposizione è la diffusione del nazionalismo buddista, attraverso movimenti come Ma Ba Tha e 969, esplicitamente impegnati nella difesa della razza e della religione contro le influenze esterne e ciò che viene percepita come la diffusione dell’Islam militante. Esporsi troppo direttamente in questo clima e a sei mesi dalle elezioni potrebbe risultare un suicidio politico in un Paese al 90% buddista.

Una bandiera politica
I Rohingya rivendicando una presenza antica e non limitata ai flussi migratori degli anni ’70 o più recenti. Il governo invece li considera immigrati clandestini e vincola la possibilità di ottenere una cittadinanza di secondo livello al definirsi ‘Bengalesi’.
Il controverso termine ‘Rohingya’ è diventato così una bandiera politica, anche sotto la regia di attivisti in Paesi come l’Arabia Saudita.

Ma è proprio l’influenza esterna a preoccupare, soprattutto dopo le minacce di Al Qaeda e Stato Islamico di vendicare il trattamento dei musulmani in Myanmar.
Sui social network vengono diffuse foto false di cadaveri smembrati riferite ai Rohingya, frutto anche di un’azione di lobby a diversi livelli per l’utilizzo del termine genocidio in relazione alle sofferenze della minoranza musulmana.

In realtà la tragedia dei Rohingya è quella di essere rifiutati da tutti, anche dal Bangladesh musulmano da cui vengono ‘accusati’ di provenire.
“Ma noi siamo cittadini del Myanmar, vogliamo stare qui, questa è casa nostra,” insiste Sharif, da dentro il ghetto.

La sofferenza dei Rohingya

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21 maggio 2015. Una giovane donna di etnia Rohingya a bordo di un tuk tuk volge lo sguardo alle sue spalle, nei pressi di un campo allestito fuori dalla città di Sittwe, nello stato di Rakhine della Birmania.

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Sara Perria