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Bruno Contrada, l'ultimo linciaggio

Il Paese dovrebbe avere la decenza di chiedergli almeno scusa: invece dobbiamo sentire i commenti di chi a Palermo avviò l'inchiesta e sostenne l'accusa

Ci sono alcuni principi elementari del diritto che non necessitano di una laurea per essere compresi. Se cercate su Wikipedia, appunto, la massima "nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali" troverete questa spiegazione: "Rappresenta una massima fondamentale per il diritto moderno. L'espressione si fonda sull'assunto che non può esservi un reato (e di conseguenza una pena), in assenza di una legge penale preesistente che proibisca quel comportamento".

Elementare, appunto.

Dal che non si capisce perché questo Paese non abbia la decenza di chiedere scusa a Bruno Contrada, che dopo 25 anni di calvario giudiziario si è vista revocata la condanna a 10 anni di carcere (interamente scontata) per concorso esterno in associazione mafiosa: un reato che all'epoca dei fatti contestati (1979-1988) era sconosciuto al codice penale.

Per esser chiari: non poteva essere arrestato, non poteva essere giudicato, non poteva essere condannato, non doveva soprattutto scontare neanche un giorno di carcere. C'è voluta nel 2015 la Corte europea dei diritti dell'uomo per riportarci a forza dalla bara del diritto alla culla e la Corte di Cassazione, finalmente, ha ora emesso un vagito e revocato la condanna.

Ma a Contrada, poliziotto palermitano di gran lignaggio e successivamente alto funzionario dei servizi segreti, nessuno chiede scusa e nessuno ha la parvenza di un rossore: deve invece subire un ulteriore, odioso supplemento di linciaggio. Che consiste in particolare nei commenti di chi a Palermo avviò l'inchiesta e sostenne l'accusa.

Sono analisi figlie di una visione di "parte" che rimane spesso senza argomenti e si rifugia nel bollare come sconcertante o stupefacente (Antonio Ingroia dixit) la pronuncia della Cedu e della Suprema Cortee arrivaa spingersi in una sorta di mascariamento degli operatori del diritto laddove sostiene (Gian Carlo Caselli dixit) che "negare la configurabilità del concorso esterno, nerbo della mafia, equivale in pratica a negare la stessa mafia".

A costo di passare per negazionista affermo convintamente che quella del concorso esterno, in verità, è un'enorme impostura perché presuppone che chi aiuta la mafia per nove anni come nel caso di Contrada lo possa fare a intermittenza un po' come quando leggete nelle ricette "q.b.": quanto basta. Si fa un favore a Totò Riina e poi si torna a fare il poliziotto, come se le "famiglie" fossero delle onlus di beneficenza che ricevono ogni tanto delle donazioni e non piuttosto delle schifose e crudeli macchine criminali fondate su un principio assoluto e invalicabile: o sei mafioso o non lo sei, non puoi mafiare a giorni alterni.

O si aveva il coraggio (l'ardire) di processare Contrada per associazione mafiosa oppure, come finalmente ha riconosciuto la Cassazione, non si poteva condannare per un reato che non esisteva.

Questo pacifico ed elementare principio è lo stesso che proprio alcuni magistrati invocano in questi giorni a proposito di una querelle godibilissima che loro stessi stanno mettendo in scena. La questione è legata alla promozione di un ex parlamentare del Pd, già ministro della giustizia ombra di quel partito, a presidente del Tribunale di Pordenone.

Al Consiglio superiore della magistratura stanno volando gli stracci. Piercamillo Davigo e la sua corrente hanno abbandonato per protesta la giunta dell'Associazione nazionale magistrati perché sostengono l'assurdità di promuovere un ex parlamentare mentre si discute di una legge che regolerà in maniera severa le porte girevoli tra politica e toga. La risposta del presidente dell'associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte è stata: "Questa norma più severa al momento non esiste e noi, visto che siamo dei giuristi, ci dobbiamo muovere nel solco del diritto positivo. Pretendere che il Csm faccia un atto illegittimo è veramente una mostruosità logica e giuridica".

Bene, esimi giuristi che rivendicate giustamente come insuperabile il diritto a essere giudicati in forza di una norma esistente: prendete il numerino, mettetevi in coda e chiedete scusa a Bruno Contrada.

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Giorgio Mulè