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ANSA / US PALAZZO CHIGI - TIBERIO BARCHIELLI
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E ora Renzi dichiara la semi-guerra

Alle affermazioni contro lo Stato islamico seguono azioni inconcludenti. Per due motivi: rischi di perdita di consenso e soldi per la Difesa

Dopo la guerra sporca, e la guerra asimmetrica, ecco il debutto della semi-guerra, quella dichiarata da Renzi all’Isis in Libia. Come al solito, alle dichiarazioni roboanti («L’Italia farà la sua parte») seguono azioni o inconcludenti o circondate da una coltre di opacità.
Prima si comunica solennemente e a reti unificate che il governo è disposto a mettere a disposizione le basi italiane per i cacciabombardieri Usa che, per almeno un mese, dovrebbero martellare le posizioni dello Stato islamico a Sirte. A quel punto telegiornali e giornali si sbizzarriscono nel mostrare possibili rotte e siti da colpire, cui si aggiungono indiscrezioni sugli assetti aeronavali nazionali che potrebbero prendere parte all’operazione, fino a indicare le forze speciali che potrebbero individuare e «illuminare» i bersagli per aerei e elicotteri d’attacco. Da ultimo, si precisa che l’impiego delle basi aeree, e solo quello, dovrà essere concesso volta per volta e missione per missione. Insomma la «guerra» all’Isis dell’Italia è un po’ come la ripresa economica: «Sta arrivando, ci siamo quasi, dai dai». Ma poi non si capisce dove sia e quanto davvero valga.
Lo scopo di tanta manfrina è piuttosto evidente. Appena nove mesi orsono, con grande squilli di tromba e rullo di tamburi, la conferenza di Roma sulla Libia concludeva un’operazione mediatica a prevalente uso interno che doveva ribadire la «guida italiana» per le operazioni di stabilizzazione della Libia, delle quali la lotta contro l’ultimo spin-off del Califfato rappresentava un passaggio obbligato e pericoloso.
La refrattarietà del premier fiorentino ad assumere rischi in politica estera è nota e non può che essersi rafforzata in un anno, per lui, funestato dai pessimi risultati delle amministrative, da una ripresa economica fantasma e da sondaggi sul referendum costituzionale d’autunno tutt’altro che incoraggianti.
Prendere parte per davvero ad azioni militari in Libia, sia pur su richiesta del governo Serraj che l’Italia e la gran parte della comunità internazionale ritengono legittimo e sostengono, sia pur contro un nemico del genere umano come l’Isis, avrebbe potuto comportare rischi non di poco conto per l’esecutivo. Si sa che l’opinione pubblica è ostile all’uso della forza anche quando si tratti di fare valere i propri diritti o di esercitare un’azione di difesa attiva e in profondità. Le operazioni militari a rischio zero, oltretutto, non esistono e la prospettiva di perdere uomini o mezzi è sempre possibile.
Lo spettacolo dei miliaziani delle opposizioni siriane che ballano sui resti di un elicottero russo abbattuto e fanno scempio del cadavere di un pilota, ai primi di agosto, ha rappresentato un crudele ammonimento sui rischi connessi alle operazioni militari. Oltretutto, la linea scelta dal governo italiano di estrema cautela nella lotta contro gli uomini di al-Baghdadi ha fin qui pagato: «Noi non vi attacchiamo e voi non ci attaccate». Certo non si rimedia una gran bella figura, ma basta arrestare ogni tanto qualche pesce piccolo o espellere qualche neo-radicalizzato e il ministro Angelino Alfano avrà di che vantarsi dell’efficacia dell’azione di contrasto al terrorismo, alludendo ai «due o tre» attentati sventati. Salvo poi essere smentito dalle Procure che indagano sul terrorismo le quali, di questi successi polizieschi o spionistici non sanno proprio nulla. Infine, occorre ricordare la fermissima contrarietà del papa all’impiego della forza militare, che rappresenta un ulteriore freno alle (improbabili) velleità marziali del premier.
Eppure in Libia bisogna essere della partita, se si vuole cercare di proteggere gli investimenti Eni dall’agguerrita concorrenza (specialmente dei francesi di Total) e se si vuole cercare di porre un freno a quel flusso crescente e incontrastato di fuggitivi che, attraverso i porti libici, si riversano sulle nostre coste, in gran parte salvati da morte certa grazie all’intervento della Marina militare. E d’altronde, piaccia o non piaccia, la capacità di concorrere alla stabilizzazione delle aree a rischio anche (e sottolineo: anche) con assetti militari continua a costituire un elemento fondamentale e insostituibile per qualunque Paese voglia candidarsi ad avere un ruolo non da comparsa nello scenario internazionale. Insomma, con i ristoranti di Eataly e i selfie a Copacabana non si va molto lontano.
Ma qui arrivano note persino più dolenti. È vero che l’Italia concorre a diverse missioni internazionali: oltre a quelle che vedono impiegate le navi della Marina in Mediterraneo e Oceano indiano, forze terrestri sono impiegate in Libano, nei Balcani e in Afghanistan. Si tratta di missioni non più particolarmente «combat», in questa fase, alle quali si sta aggiungendo il più pericoloso impiego a Mosul di una brigata a protezione di una diga della cui manutenzione una società italiana ha vinto la gara d’appalto.
Ma i numeri del bilancio della Difesa ci parlano delle classiche «nozze coi fichi secchi» o, più drammaticamente, di una coperta sempre più corta. Secondo i dati raccolti dall’Istituto affari internazionali nella recente pubblicazione Bilanci e industria della Difesa, le risorse che l’Italia assegna alla funzione sono in costante decrescita. E questo nonostante l’estrema insicurezza che caratterizza il clima internazionale: dai 14,08 miliardi di euro del 2014 siamo passati ai 13,19 miliardi del 2015 (cui vanno aggiunti gli stanziamenti specifici per le missioni all’estero di 915 milioni), con il consueto cronico sbilanciamento a favore delle spese per il personale (stipendi) a detrimento di quello riservato a investimento ed esercizio (manutenzioni e addestramento).
Si tratta di ben 900 milioni in meno. Un taglio pesante, destinato ad aumentare, considerando che nel 2018 dovrà raggiungere i 12,72 miliardi. In termini percentuali, l’Italia spende appena lo 0,81 per cento del suo Pil per la difesa (era lo 0,89 nel 2013), lontanissimo dall’1,75 per cento della Gran Bretagna o dall’1,46 della Francia e persino dall’1,11 per cento della pacifica Germania: a distanza siderale da quel 2 per cento che tutti i Paesi Nato si sono nuovamente impegnati a raggiungere all’ultimo Vertice Nato di Varsavia.
Quindi forse, e prima e al di là delle considerazioni sul se e come calibrare il possibile impiego della forza contro l’Isis, la verità è che con questi numeri è a rischio la sopravvivenza stessa dello strumento militare nel medio periodo. Una «scelta» incoerente con le ambizioni di «contare di più» in politica estera. Ci chiediamo quanto consapevolmente adottata e quanto invece frutto di sforbiciate date al bilancio pur di far tornare conti che, «di zero virgola in zero virgola», non riescono più a tornare. Ma, soprattutto, un rischio che decisamente non possiamo assumerci in questo momento storico.

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Vittorio Emanuele Parsi

Professore ordinario di Relazioni Internazionali all'Università Cattolica di Milano

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