Tutte le bugie del caso Boschi
Dal ministro a suo padre, dal pm all'avvocato, lo scandalo che imbarazza il Governo è pieno di omissis. Il testo integrale dell'inchiesta di Panorama
È ancora buio quando tre marescialli e un luogotenente della Guardia di finanza bussano alla porta di una villa alle porte di Laterina, piccolo borgo sperso nella campagna aretina. È il 24 marzo 2010. Sono le 7 del mattino. Gli agenti del Nucleo di polizia tributaria mostrano il tesserino e si presentano a Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena, futuro ministro delle Riforme. Esibiscono il «decreto di perquisizione locale e personale» firmato dall’allora procuratore di Arezzo, Carlo Maria Scipio, e dal pm Roberto Rossi. Poi notificano all’uomo il provvedimento dell’autorità giudiziaria.
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Boschi è indagato per turbativa d’asta in un’inchiesta che vede anche l’ipotesi di riciclaggio a carico di altre persone. L’incanto cui l’atto si riferisce è quello della Fattoria di Dorna, un podere di 303 ettari venduto il 12 ottobre 2007 dall’Università di Firenze alla «Valdarno superiore», la cooperativa guidata da Boschi dal 2003 al 2014. Assieme a Boschi, al momento della perquisizione, ci sono la moglie, Stefania Agresti, e due figli: Pier Francesco ed Emanuele. Manca invece Maria Elena. Lei lavora in un’affermato studio legale di Firenze. Mantiene però la residenza nella villa di famiglia a Laterina.
I quattro finanzieri chiedono a Pier Luigi Boschi se vuole farsi assistere da un avvocato. Lui, però, spiega che «non intende avvalersi di tale facoltà». Consegna spontaneamente ai militari alcune cartelle di documenti e una copia fotostatica dell’assegno di 95 mila euro «emesso da Saporito Francesco all’ordine della Valdarno superiore». Vengono poi controllate le due auto in garage. Concluse le ricerche nei tre piani della casa, i finanzieri passano a perquisire le sedi di due società amministrate da Boschi nella zona: la Progetto Toscana e la cooperativa Valdarno superiore. Negli uffici, gli agenti sequestrano due raccoglitori pieni di carte e verbali di consigli d’amministrazione. Il materiale è talmente voluminoso da costringere i militari ad annotare: «Vista la copiosità, nell’impossibilità di procedere a una immediata repertazione, la documentazione è stata progressivamente numerata e fatta siglare su ciascun foglio». L’operazione della Guardia di finanza aretina si conclude alle 15,30.
La perquisizione dura otto ore e mezza. Ma sembra non aver lasciato traccia nella memoria del ministro Boschi. Nelle ultime settimane non ha mancato di sottolineare la rettitudine del genitore, finito nel tritacarne mediatico-giudiziario dopo il crac di Banca Etruria, di cui è stato vicepresidente dal giugno 2014 al febbraio 2015. «Mio padre è una persona perbene» ha sillabato il ministro, lasciando intendere candidi trascorsi. L’indagine archiviata sul padre del ministro, pubblicata da Panorama la scorsa settimana, rivela invece un quadro più nebuloso.
Maria Elena Boschi non è però l’unica colta da dimenticanze, in questa storia. Anche il pm Rossi, ascoltato il 28 dicembre dalla prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, non ha riferito di essersi occupato dell’ex vicepresidente di Banca Etruria: «Non conosco nessuno della famiglia Boschi» ha dichiarato. «Non sapevo neanche come fosse formata». Una dimenticanza che, lette le anticipazioni dell’inchiesta di Panorama, costringe il magistrato a una tardiva ammissione. Il 20 gennaio 2016 invia una lettera al Csm. E conferma di essersi occupato in passato di procedimenti riguardanti Boschi, ma di non conoscerlo di persona. «Abbiamo preso tutti atto con rammarico che le dichiarazioni rese non corrispondono ai fatti» commenta Pierantonio Zanettin, membro dell’organo che governa la magistratura. Così, la prima commissione del Csm riapre l’istruttoria sul procuratore.
Ma in questo groviglio c’è anche un’altra persona colta da lapsus: è Giuseppe Fanfani, altro componente del Csm dal settembre 2014. Anche lui sapeva. Il 29 marzo 2010, cinque giorni dopo le perquisizioni, Pier Luigi Boschi lo nomina suo difensore di fiducia nell’inchiesta sulla fattoria di Dorna. Eppure, anche lui, sceglie il silenzio.
Boschi, Rossi e Fanfani. Omissioni che mettono a repentaglio il prestigio di tre istituzioni: politica, giustizia e governo della magistratura. Boschi viene indagato per turbativa d’asta nel gennaio 2010. Il suo ruolo nell’acquisto della tenuta è determinante. Prima, nell’ottobre 2007, da presidente del cda della «Valdarno superiore», compra i 303 ettari per 7,5 milioni. Un mese dopo la sua cooperativa indica che l’acquisto sarà fatto dalla «Fattoria di Dorna», un’azienda agricola che però viene creata solo il 29 novembre 2007. Boschi ne è socio al 90 per cento: la quota, sei mesi più tardi, scenderà al 34 per cento. Le altre azioni sono invece in mano a Francesco Saporito, un imprenditore immobiliare calabrese. La Finanza, in un’informativa inviata alla Procura di Arezzo il 21 gennaio 2010, lo segnala come referente, assieme alla famiglia, «di organizzazioni malavitose riconducibili alla ‘ndrangheta».
La società di Boschi e Saporito, dopo aver comprato la tenuta, cede alcuni lotti a privati e istituzioni. Una di queste compravendite convince Rossi a contestare a Boschi padre anche il reato di estorsione. Il padre del ministro, secondo quanto emerge dalle carte lette da Panorama, avrebbe preteso e ottenuto da un successivo acquirente il pagamento di 250 mila euro in nero. Un reato implicitamente ammesso dallo stesso Boschi che, ad aprile del 2014, paga una multa di quasi 40 mila euro all’Agenzia delle entrate. Il resto dell’imposta evasa sarebbe stato imputato a Saporito, che all’epoca della vendita aveva quasi il 64 per cento dell’azienda agricola.
L’imprenditore calabrese, intervistato dal Fatto quotidiano, ha però spiegato di aver fatto ricorso contro la sanzione: «Questi soldi non li ho mai avuti. Io ho firmato e basta. La trattativa l’ha fatta Boschi. E penso che debba pagare lui». Una versione, tra l’altro, già confermata dalla Finanza di Arezzo in un’informativa del 7 maggio 2010: quei denari non sono andati a Saporito. Così, il 4 febbraio 2013, Rossi chiede l’archiviazione dal reato di turbativa d’asta per Boschi e altre otto persone. Lo stesso giorno, il magistrato iscrive però nel registro degli indagati Boschi per estorsione. Due settimane dopo, il 21 febbraio 2013, Maria Elena Boschi viene eletta deputato. E il 18 luglio 2013 Rossi viene chiamato dal governo Letta come consulente per gli affari giuridici.
Tre mesi più tardi, il 24 ottobre 2013, ad Arezzo si tiene il convegno «Cultura della prevenzione per una crescita ecosostenibile». L’evento è organizzato dalla Procura di cui Rossi è già reggente. Quella tavola rotonda è l’ennesima riprova delle amnesie del magistrato. Un mese fa, di fronte alla prima commissione del Csm, aveva assicurato di non aver mai conosciuto nessuno della famiglia Boschi: «Ho conosciuto solo l’attuale ministro in un’occasione pubblica, istituzionale, quando era parlamentare». I giornali scovano allora le foto di un dibattito del 31 ottobre 2015, ad Arezzo. Panorama, invece, ha trovato evidenze più datate. E compromettenti.
Al convegno del 24 ottobre 2013, coordinato da Procura e Prefettura, viene invitata anche l’onorevole Boschi. Della sua presenza deve essersi inevitabilmente accorto anche Rossi. Che, da padrone di casa, apre l’incontro alle 10,30 con una dissertazione sui «reati ambientali». Maria Elena Boschi sale sul palco dell’Auditorium poco dopo, a mezzogiorno in punto, per un intervento dal titolo: «Prevenire è meglio che curare». Finito di parlare, si accomoda in prima fila, a fianco della senatrice Loredana De Petris e dell’allora ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando.
Tailleur blu, sottogiacca grigio abbinato a scarpe tacco 12, capelli raccolti: la futura ministra, ripresa dalle telecamere delle tv locali, sembra quasi spaesata. Tre file più indietro, appollaiato su una poltroncina c’è un distinto signore con i capelli grigi e gli occhiali spessi. Indossa un abito blu, la camicia azzurra e una cravatta vinaccia: è Pier Luigi Boschi, allora sotto inchiesta per estorsione. Davanti a lui, sul palco, seduto al tavolo dei conferenzieri, c’è Rossi, il suo «inquisitore». Che due settimane dopo, il 7 novembre 2013, chiede però l’archiviazione del fascicolo. Il procedimento avrà una coda cinque mesi più tardi, con il pagamento della multa di Boschi all’Agenzia delle entrate per l’Iva evasa sul pagamento in nero.
I destini dei due torneranno a incrociarsi il 21 marzo del 2014 quando, su ordine di Rossi, viene perquisita la sede aretina della direzione generale di Banca Etruria. E Boschi, mai indagato per il crac dell’istituto, siede nel consiglio d’amministrazione dell’istituto. Diventando vicepresidente poco dopo: il 4 aprile 2014. L’ultimo tassello del puzzle è la nomina del suo avvocato al Csm. Giuseppe Fanfani, sindaco di Arezzo e «nipotissimo» del leader della Dc Amintore, viene eletto il 9 settembre 2014 dal Parlamento, su indicazione del Pd di Matteo Renzi. La Nazione, quotidiano di riferimento della Toscana, scrive: «La candidatura, spinta dal ministro Maria Elena Boschi, cui il sindaco è unito da aretinità e fedeltà renziana, potrebbe fare breccia anche col premier in persona». Breccia che diventa un varco.
Poco dopo, 18 dicembre 2014, il governo Renzi affida una nuova consulenza (la precedente era scaduta cinque mesi prima, il 21 luglio 2014) a Rossi, ancora come esperto degli affari giuridici. L’ incarico dura meno di due settimane, ma il 24 febbraio 2015 viene rinnovato fino al 31 dicembre 2015. Queste due nomine avevano spinto la prima commissione del Csm a verificare eventuali incompatibilità tra il ruolo di Rossi, coordinatore delle indagini su Banca Etruria, e quello di consulente dell’esecutivo. L’audizione del magistrato, il 28 dicembre 2015, lascia molte perplessità. Anche la frase così definitiva sulla conoscenza dei Boschi sembra inveritiera: «Non conosco neppure la composizione del nucleo familiare».
La sua versione viene riportata da tutti i giornali italiani. Mentre Fanfani, controparte di Rossi nei procedimenti penali che coinvolgevano Boschi, continua a tacere. Così il Csm, il 19 gennaio 2016, propone l’archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, lette le anticipazioni dell’inchiesta di Panorama, Rossi trasecola. Spedisce una lettera al Csm in cui conferma di aver indagato su Boschi, ma di non conoscerlo personalmente. E l’istruttoria viene riaperta.
Panorama, per la seconda settimana di fila, rivela nuovi documenti e circostanze. Fatti che mettono i protagonisti di questa storia di fronte alle loro responsabilità. Il ministro, il procuratore e il togato: in gioco c’è molto di più della solita disfida politica.