Panorama
Bonus Natale, sono arrivate le precisazioni dell’Agenzia delle Entrate e così è più chiaro a chi spetteranno i 100 euro di indennità sotto l'albero. Viene meno il requisito del coniuge a carico, basta ci sia un figlio fiscalmente a carico, ma non potrà andare a entrambi i genitori se coniugati o conviventi. Pur avendo tutti i requisiti richiesti uno dovrà rinunciare. Con la circolare n. 22/E pubblicata il 19 novembre 2024, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito, con tanto di esempi concreti, le regole per ottenere il Bonus Natale.
L’indennità di 100 euro è destinata ai lavoratori dipendenti con un reddito complessivo annuo non superiore a 28mila euro e con imposta lorda superiore alla detrazione per lavoro dipendente. La novità principale riguarda il requisito familiare: è sufficiente avere un figlio a carico, indipendentemente dallo stato civile o dal tipo di convivenza (coniugati, separati, divorziati, monogenitori o conviventi ai sensi della legge n. 76/2016). Vengono considerati fiscalmente a carico i figli fino a 24 anni e reddito complessivo non superiore a 4mila euro e i figli con età superiore a 24 anni e reddito fino a 2.840,51 euro.
Tuttavia, il bonus non può essere percepito contemporaneamente da entrambi i genitori. Se entrambi i coniugi o conviventi lavorano e rispettano i requisiti, uno dei due dovrà rinunciare all’agevolazione. La circolare chiarisce alcuni casi specifici. La coppia di genitori è rappresentata dal Signor Rossi e dalla Signora Bianchi.
Esempio 1: Genitori (Signora Bianchi e Signor Rossi) non coniugati (separati o divorziati) e non conviventi con altri soggetti. Entrambi hanno diritto al bonus se rispettano i requisiti economici.
Esempio 2: Genitori non coniugati e non conviventi. Ma mentre la Sig.ra Bianchi non è né sposata né convivente con altri. Il Signor Rossi invece è sposato con la Signora Verdi (anche lei dipendente) e con lei ha un altro figlio a carico. In questo caso il bonus viene riconosciuto alla Sig.ra Bianchi e a uno dei due coniugi (Rossi o Verdi).
Esempio 3: Genitori non coniugati e non conviventi. La Signora Bianchi non rispetta gli altri requisiti per avere il bonus (per esempio i 28mila euro di limite di reddito) e il Signor Rossi è sposato con la Signora Verdi (anche lei dipendente) e con lei ha un altro figlio a carico. In questo caso il bonus viene riconosciuto al Signor Rossi oppure alla Signora Verdi (anche se la Signora Bianchi non lo percepisce).
Esempio 4: Genitori non coniugati e non conviventi. Ma mentre la Sig.ra Bianchi non è né sposata né convivente con altri. Il Signor Rossi invece è sposato con la Signora Verdi (anche lei dipendente) e con lei ha un altro figlio NON fiscalmente a carico. In questo caso il bonus spetta alla Signora Bianchi (come da esempio 1) e anche al Signor Rossi (perché ha un figlio fiscalmente a carico − con la sig.ra Bianchi – e, pur essendo coniugato con la sig.ra Verdi, quest’ultima non è beneficiaria del bonus).
Come si chiede il bonus? I lavoratori dipendenti devono presentare un’autocertificazione al proprio datore di lavoro, dichiarando: il rispetto del limite reddituale, la presenza di almeno un figlio fiscalmente a carico e che il coniuge o convivente non percepisca il bonus. Per chi ha già presentato la richiesta, non sarà necessario ripetere l’autocertificazione, salvo che, con le nuove regole, sia necessario aggiornare i dati (ad esempio, comunicare il codice fiscale del convivente e dichiarare che non riceve il bonus). Il bonus sarà corrisposto dal sostituto d’imposta con la tredicesima, solitamente accreditata a dicembre. Nel caso in cui il beneficio non venga erogato, il lavoratore potrà recuperarlo con la dichiarazione dei redditi per il 2024, da presentare nel 2025.
TUTTE LE NEWS DI ECONOMIA
Purtroppo, le guerre non sono un film di Hollywood, dove vincono i buoni o coloro che si ritengono tali. I conflitti, quelli veri, che non si svolgono sul set, si chiudono spesso nel peggiore dei modi e purtroppo credo che quello in Ucraina sia tra questi.
Il successo di Donald Trump in America sembra avvicinare una tregua in Ucraina. Non so se il nuovo presidente degli Stati Uniti terrà fede alle promesse che gli sono state attribuite in campagna elettorale («Se verrò eletto fermerò la guerra in ventiquattr’ore»), ma è certo che la fine del conflitto ai margini dell’Europa è una delle priorità del nuovo inquilino della Casa Bianca, non fosse altro perché la resistenza di Kiev all’invasione russa è finora costata agli Stati Uniti una sessantina di miliardi di dollari. Dunque, in molti si attendono che il 47esimo presidente americano chiuda i rubinetti, imponendo se non una pace, perlomeno un cessate il fuoco.
La prospettiva, tuttavia, allarma chi intravede nell’armistizio una resa davanti all’aggressore, ossia la perdita dei territori occupati dai russi, con una sorta di congelamento dei due fronti, senza una riconquista e una cacciata dell’invasore. «Stiamo abbandonando l’Ucraina?» si è chiesto la scorsa settimana il Corriere della Sera. In un articolo a firma dell’ex direttore di Repubblica Carlo Verdelli, il quotidiano di via Solferino sintetizzava lo scenario venutosi a creare con le elezioni americane come un voltafaccia dell’Occidente.
Dopo aver illuso gli ucraini di un sostegno senza se e senza ma, all’improvviso il cosiddetto mondo delle democrazie apparirebbe stanco, pronto a mollare Volodymyr Zelensky e il suo popolo al loro destino. «Una delle soluzioni che si va delineando, complice un costante avanzamento delle truppe d’invasione» ha scritto Verdelli, «prevederebbe la sostanziale vittoria dell’aggressore e l’umiliazione più o meno mascherata dell’aggredito, con la Russia che si annetterebbe il 20 per cento del territorio ucraino conquistato, in spregio al diritto internazionale, e con Zelensky, o chi per lui, che si impegnerebbe a ritirare la richiesta di adesione alla Nato». Per l’editorialista del Corriere, tutto ciò rappresenterebbe non solo la fine della libertà e dell’indipendenza di Kiev, ma anche la conclusione di quell’ordine mondiale scaturito in anni di sostanziale pace. E soprattutto, certificherebbe la debolezza delle diplomazie e delle democrazie occidentali, spazzando via la retorica che ci ha accompagnato dal 24 febbraio 2022, quando le truppe di Vladimir Putin varcarono baldanzose il confine con l’Ucraina. Nei giorni a seguire non c’è stato capo di governo che non abbia giurato eterno sostegno a Kiev, promettendo aiuti senza limiti, pronti anche al sacrificio di qualche grado in meno dentro la casa pur di tagliare gli introiti petroliferi con cui Mosca alimentava la sua macchina da guerra.
Tuttavia, a quasi tre anni dall’inizio del conflitto, tutte le certezze con cui l’Occidente prediceva il crollo della Russia sono state spazzate via e oggi siamo di fronte a un’amara realtà. Condivido quasi tutte le riflessioni del collega del Corriere della Sera, quando dice che stiamo tradendo gli ucraini e pure che la stiamo dando vinta all’aggressore a spese dell’aggredito. È vero che questo rappresenta una sconfitta delle democrazie occidentali e pure la fine di un equilibrio scaturito dopo la Seconda guerra mondiale (ma forse sarebbe meglio collocarlo dopo il crollo dell’Unione sovietica). Tuttavia, l’alternativa a tutto ciò qual è? Continuare una guerra che secondo il New York Times ha già causato un milione di vittime e che promette di provocarne altre senza lasciare neanche intravedere una vittoria dell’Ucraina? La realtà con cui noi siamo chiamati a fare i conti sta in un inciso dell’editoriale di Verdelli, là dove dice che la soluzione della tregua che si va delineando è dettata «dal costante avanzamento delle truppe d’invasione».
Non passa giorno senza che dal fronte arrivino pessime notizie per l’Ucraina. Le truppe di Putin procedono nel centro del Donbass, ma pure a sud e anche a nord. Nel Kursk, regione russa che Kiev ha invaso l’estate scorsa sperando poi di barattare le aree occupate con qualche territorio ucraino, i soldati di Zelensky sono circondati e hanno di fronte 50 mila militari, doppio o forse il triplo dei loro effettivi. È l’andamento della guerra che impone l’urgenza di una tregua. Si fosse provato a raggiungere un accordo due anni fa, probabilmente oggi l’umiliazione dell’aggredito sarebbe stata meno cocente. Ma se all’armistizio si giungesse fra un anno, forse sarebbe peggio e gli aggrediti sarebbero costretti a cedere agli aggressori altri pezzi di Paese.
Purtroppo, le guerre non sono un film di Hollywood, dove quasi sempre vincono i buoni o coloro che si ritengono tali. I conflitti, quelli veri, che non si svolgono sul set, si chiudono spesso nel peggiore dei modi e purtroppo credo che quello in Ucraina sia tra questi. Non si tratta di abbandonare Kiev, come si chiedeva Verdelli, si tratta di abbandonare l’ipocrisia e la retorica. E soprattutto l’idea che la storia si concluda sempre nel migliore dei modi.
Continua a leggereRiduci
Il presidente «sovrano» della Campania, Vincenzo De Luca, non molla. Più dello sfascio che lascia dietro di sé, può la brama di potere.
Il terzo mandato. Ecco di cosa di preoccupa il governatore della Campania, Vincenzo De Luca: di avere il terzo mandato. Di mantenere la sua poltrona, contro tutto e contro tutti. Sfida la segretaria del suo partito, il Pd. Scatena i pasdaran. Mobilita le truppe cammellate. Non vuole mollare il potere. Ecco l’unica cosa che gli interessa. E pazienza se attorno a lui tutto crolla. Pazienza se la sanità campana è agli ultimi posti d’Italia, se i trasporti fanno acqua, se il territorio frana e l’occupazione è al palo. Quello che conta è il terzo mandato. Farsi rieleggere. Comandare. Ma comandare per fare che cosa? Nelle strade di Napoli i ragazzini si sparano e si uccidono come se niente fosse. Comprare una pistola costa poche centinaia di euro. Usarle, ancor meno. Nessuno controlla. Nessuno interviene. Nessuno offre alternative credibili alla camorra. E De Luca che fa? Si preoccupa del terzo mandato.
Fateci caso: siamo inondati di retorica sul rinascimento napoletano. Proud to be Napoli, scrive la squadra di calcio sulla maglietta. «Napoli milionaria», titolano i giornali eccitati per il boom di turisti. Oppure: «Napoli canta vittoria». «Siamo una capitale internazionale attrattiva», si vanta l’assessore Teresa Armato. E poi c’è il film di Paolo Sorrentino, Parthenope, che ha «l’amore di Napoli addosso», è pieno di «luce poetica» e racconta «l’imprecisa identità di Napoli», la sua «epopea femminile» attraverso «la sirena da cui nasce il mito». Nessuno ha capito che diavolo voglia dire, però bisogna entusiasmarsi per forza perché esalta Napoli, la mette al centro dello spettacolo, completando l’opera già avviata dalle serie Tv (Mare fuori) e dai nuovi cantanti (Geolier). Dalle canne a Cannes: il rinascimento napoletano ora è pieno, c’è pure il timbro dei salotti chic. Se poi qualche 19enne muore per un paio di scarpe sporche chi se ne importa?
Già: chi se ne importa se un 19enne viene ucciso per un paio di scarpe sporche? Chi se ne importa se il suo assassino (17 anni) prima spara e poi va a farsi un drink? Chi se ne importa se negli stessi giorni un 15enne viene ammazzato a colpi di pistola da alcuni coetanei? Chi se ne importa se per i giovanissimi di Napoli, poco più che bambini, ormai è normale girare armati? Chi se ne importa se è scoppiata la guerra dei ragazzini? C’è il rinascimento napoletano. C’è la «capitale internazionale attrattiva» (cadaveri a parte). C’è il film di Sorrentino, che fa sempre trendy. E c’è De Luca che vuole il terzo mandato. Che cosa volete di più?
De Luca, d’altra parte, non potrebbe resistere senza il terzo mandato. Quest’uomo vive di politica da sempre. Ha una poltrona pubblica da 34 anni. Correva l’anno 1990 e faceva già l’assessore. Per quattro volte sindaco di Salerno, per due mandati presidente della Regione, si è guadagnato progressivamente i titoli di Pol Pot, Sceriffo, Re Sole, Governatore del mondo. Ha sempre fatto lo slalom fra le grane giudiziarie, è stato condannato in via definitiva per danno erariale allo Stato, ha dato smalto al nepotismo piazzando entrambi i figli in politica. Uno dei suoi principali sostenitori, Franco Alfieri, il sindaco delle fritture di pesce, è stato di recente arrestato per corruzione. Chissà se anche questo fa parte del rinascimento napoletano. Chissà se anche questo è un fiore all’occhiello per chiedere il terzo mandato.
Qualcuno trova De Luca simpatico. Ma forse la confonde con l’imitazione di Maurizio Crozza. Il quale però, per quanto esageri, non riesce mai a raggiungere il livello dell’autentico governatore. Rosi Bindi? «Da uccidere». I Cinque stelle? «Mezzepippe». La sindaca Raggi? «Bambolina imbambolata». Il commissario Ue Raffaele Fitto? «Delinquente politico». L’ex ministro Sangiuliano? «Parcheggiatore abusivo». Maurizio Gasparri? «Mescolanza di umano e pinguino». Il prete anticamorra Patriciello? «Pippo Baudo con la frangetta». L’avversaria in Consiglio regionale? «Chiattona». Il governo? «Imbecilli, farabutti, disturbati mentali». Durante il Covid ha invocato l’arresto per chi correva senza mascherina, il lanciafiamme per chi faceva feste di laurea e il napalm per i no vax.
Ma non c’è niente da ridere. Soprattutto non hanno niente da ridere quei genitori che in Campania hanno un bimbo autistico: per fare terapia nei centri pubblici devono aspettare anche cinque anni. Sapendo che ogni giorno che passa loro figlio perde un po’ di speranza di avere un vita normale. Sapendo che invece nei centri a pagamento, per chi è ricco, il posto c’è domani mattina. Qualcuno dice qualcosa? I direttori delle Asl campane fuggono, i dirigenti si nascondono. La Regione chiude gli occhi. Ma che importa? C’è il rinascimento napoletano. E De Luca pensa al terzo mandato. n
© riproduzione riservata
Continua a leggereRiduci
Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D., La ciociara... Con questi capolavori, da regista ha inventato il Neorealismo. Da attore, ha dato sostanza e carattere a personaggi che sullo schermo raccontano ancora oggi la nostra storia recente. E nella stessa biografia di questo straordinario uomo di cinema - che se ne è andato 50 anni fa - si ritrovano qualità e debolezze, tic e passioni di un Paese.
Come distinguere - esattamente - dove finisce la recita e quando comincia la vita? Vittorio De Sica, il personaggio del film, se lo portava a casa e il suo carattere - senza troppo sottilizzare fra qualità e debolezze - quietamente, entrava nei copioni da tradurre in una pellicola. Per questo- anche a cinquant’anni dalla morte, il 17 novembre 1974 - l’immaginario collettivo lo colloca nel gotha dei campioni del cinema, capace di dare voce alle cose di tutti i giorni che ciascuno può considerare come proprie, come se ciascuno si trovasse sul palcoscenico. Scene che ospitano la realtà. Neorealismo, per l’appunto.
La Cineteca di Bologna, nella Galleria Modernissimo, lo celebra (fino al prossimo 12 gennaio) con una rassegna dedicata «alla frastagliata esistenza di un uomo senza eguali» che è stato «regista&interprete». Gian Luca Farinelli, utilizzando foto, costumi e oggetti di scena che vengono dall’archivio di famiglia, ha costruito un percorso capace di restituire le tappe di un’esistenza inimitabile.
Per qualche tempo (poco, per la verità) in famiglia - più il padre che lui - s’illusero che potesse avviarsi a un impiego in banca. Tempi di ripresa economica, dopo la Prima guerra mondiale, con un diploma da ragioniere, anche senza raccomandazioni dall’alto, non era così difficile trovare un posto in qualcuno degli istituti finanziari che andavano moltiplicando le filiali. Del resto, il padre, Umberto, dipendente della Banca d’Italia, era stato trasferito alla succursale di Sora, nel cuore della Ciociaria. Vittorio si dannò sui numeri fino al diploma ma, dal momento dell’esame di maturità in avanti, di bilanci e «partite di giro», non ne volle più sapere. Al mestiere di attore sembrava predestinato.
Raffinato per vocazione, galante senza apparire sdolcinato e «posa» da gentiluomo per naturale ricercatezza. Da giovane, era sottile di corporatura, la faccia smagrita che s’infilava fra due orecchie leggermente a sventola. Vestiva di scuro ma il soprabito lo voleva color panna. Sceglieva camicie alla moda con le punte. Portava il farfallino piuttosto che la cravatta. E doveva impomatarsi per tenere a bada un mazzo di capelli impertinenti. Qualcuno lo prendeva in giro sostenendo che «con la brillantina, si faceva degli impacchi». I primi anni di un artista sono comunque complicati perché i lavori d’esordio portano poche soddisfazioni e nessun guadagno. Vittorio De Sica fu costretto a vivere «in aristocratica povertà».
Con la Seconda guerra mondiale le difficoltà non potevano che amplificarsi. La violenza dei soldati non risparmiò le famiglie e si accanì sulle donne. I combattimenti furono senza quartiere e il salvare la pelle diventò un impegno cui sacrificare anche le proprie convinzioni. Non pochi ufficiali barattarono la fuga con l’onore e qualche furfante si sentì obbligato dalle circostanze a diventare un eroe.
Dopo, con l’armistizio, fu la fame a farla da padrona e la ricerca del cibo per mettere insieme il pranzo con la cena costrinse ad adattarsi a lavori anche umilianti come lucidare le scarpe degli americani o rubare gli attrezzi che permettevano di lavorare. Per questo, davanti allo schermo, gli spettatori si appassionarono al Generale Della Rovere, quasi identificandosi. E poi: La Ciociara, il Ladro di biciclette o quel ragazzino che andava elemosinando una moneta americana. Sciuscià: posso lustrarti gli scarponi? Sofia Loren e Gina Lollobrigida entrarono nell’immaginario collettivo degli italiani attraverso quelle pellicole. Ma ognuno dei personaggi di De Sica - come, in tempi più recenti, quelli di Alberto Sordi e Carlo Verdone - vengono dalla strada e raccontano la vita quotidiana di piccoli imbroglioni, maniaci inconsapevoli, incrollabili fanatici o tombeur de femmes. E questo: nei panni di contadini, militari, nobili e persino del Papa.
La quotidianità legata all’incertezza spinge ad accettare il rischio - addirittura cercandolo - perché, in quel momento, l’individuo non subisce passivamente la vita ma, con lo sfidare il destino, ha l’impressione, se non proprio di dominarla, di giocarle, almeno, alla pari. Negli anni del dopoguerra i casinò non avevano ancora scopiazzato la moda delle slot machine in arrivo da Las Vegas. Per gli uomini, lo smoking era di rigore e le signore si presentavano in abito lungo. Facile incontrare Gianni Agnelli, Elizabeth Taylor, il re Faruk o l’Aga Khan. Gli amici hanno assicurato che De Sica giocava anche quando era povero. Certo, da più ricco, lasciò una fortuna sui tavoli verdi. Perdeva tutto ciò che guadagnava. Sembrava correre in un circuito senza sbocchi: lavorare per giocare, pagare i debiti e continuare a giocare.
Hanno raccontato che una notte, a Montecarlo, Aristotele Onassis che era il proprietario della Casa da Gioco si sentì in dovere di ringraziarlo. «Con quanto ha perso» gli batté indulgente una mano sulla spalla, «rifaremo le aiuole intorno al palazzo». Eppure, anche da «spennato», lasciava il tavolo sorridendo, con l’eleganza sorniona di un cavaliere rinascimentale che aveva sfidato l’avversario a singolar tenzone. Si congedava con un baciamano per le signore che conosceva e lasciava, comunque, le due ultime fiches ai «croupier». Quasi facendo la parodia di Marcel Proust che, afflitto dalla stessa mania per il gioco e condannato a perdere anche l’ultima moneta, rientrando in albergo, si faceva anticipare dal portiere di notte una discreta somma per lasciargliela di mancia (con il tacito impegno a restituirgli il prestito per il giorno dopo). Solo a Venezia - sembra - De Sica accennò a lamentarsi: «Questi lampadari monumentali li hanno fatti tutti con i miei soldi». Per recriminare: «Dovrebbero mettere almeno una targa per ricordarlo». Allora, il casinò non lo accontentò ma, nel 2008, finanziò il restauro di alcune sue pellicole. I suoi capolavori non andarono perduti.
L’azzardo - ovviamente - lo portò sullo schermo dove recitò nel ruolo del perdente. Nell’Oro di Napoli, De Sica, nella parte di un nobile, giocava a carte con il figlio del portinaio e perdeva sempre, sbottando contro la sfortuna sua e imprecando per la fortuna sfacciata dell’avversario. Nella finzione scenica - non troppo diversa dalla realtà effettiva - perse anche gli abiti che indossava.
L’attore padroneggiava la scena con un’autorevolezza che migliorava quelli che gli stavano accanto. Era celebrato perché - sempre per la testimonianza degli amici del tempo - era in grado di far recitare anche i cani e, subito dopo (o subito prima) per le sue conquiste femminili. Il figlio Christian, attore versatile, per qualità - evidentemente - ereditate dal padre, intervistato da Maurizio Costanzo, non si schermì: «la famiglia in cui ha vissuto era piuttosto una cooperativa». Delle sue «fidanzate» si è perso il conto. Certo, i matrimoni furono due: con Giuditta Rissone e con Maria Mercader. Per un periodo lungo, le due storie andarono avanti in parallelo in un rapporto complesso - persino intricato - che, oggi, con una legislazione sul divorzio, sembra paradossale. Vittorio De Sica si trovò costretto a sdoppiarsi per stare dietro a due famiglie. «Mai» assicura Christian «ci ha fatto mancare il suo affetto». Aggiungendo che «quando già eravamo grandicelli abbiamo saputo che papà aveva escogitato il trucco di mettere indietro la lancette dell’orologio in modo da fare colazione insieme e farci credere di aver dormito in casa». Comportandosi nella vita come se seguisse la partitura di un copione.
Pane, amore e fantasia, al contrario, portò nello schermo la galanteria briccona che mostrava fuori dallo schermo. Capelli meno ribelli e già spruzzati di quel bianco che sembra argento. Identico atteggiamento che lasciava intendere il falso come vero e trasformava il vero in commedia.
In un paese immaginario dell’Abruzzo (Stagliena) furono ambientate le passioni (e gli equivoci) cui dettero vita il Vittorio in divisa da maresciallo (Antonio Carotenuto) la «bersagliera» Lollobrigida, il carabiniere Stelluti (Roberto Risso) e la levatrice Annarella (Marisa Merlini). Commedia recitata che ispira la vita o quotidianità che diventa spettacolo? «Un giorno» parola del figlio Christian, in un’altra circostanza, ma sempre a Maurizio Costanzo, «ricevo la telefonata di una ragazza che si presenta come mia sorella. Non la conoscevo e non ero al corrente della sua esistenza. In quel momento mio padre era lì e mi venne naturale chiedergliene conto». Il racconto prese il tono della parodia. «Splendida attrice» rispose Vittorio, «grande temperamento e forza interpretativa». «Sì», la replica, «ma questa dice che è tua figlia e che io sono suo fratello...». E lui, come fosse stato in un film, con le spalle leggermente piegate in avanti e le braccia tenute staccate dai fianchi, nell’atteggiamento dell’imputato in cerca di giustificazioni. «Eh... capita...».
Continua a leggereRiduci
I diritti delle piante devono venire prima di quelli degli umani, che sono una sparuta minoranza sulla Terra? Per il botanico Stefano Mancuso i vegetali hanno un’intelligenza collettiva che la nostra specie si sogna. Ma non è che per salvare la natura dobbiamo annullarci... A quello provvede già l’intelligenza artificiale.
Abbassa la cresta, Uomo. Non solo sei un puntino disperso in una briciola trascurabile dell’Universo denominata Terra. Ma anche sulla terra, tra i viventi, oltre a essere un parvenu, sei solo un infinitesimo esemplare rispetto a tutti gli esseri viventi. Se la democrazia fosse estesa a tutto il pianeta, l’umanità sarebbe una trascurabile ultraminoranza rispetto al mondo delle piante: noi umani siamo sulla terra appena lo 0,01 per cento degli esseri viventi, mentre le piante sono l’87 per cento. I funghi, da soli, ci surclassano, sono assai più numerosi di noi umani; a essere giusti non dovrebbero essere gli uomini ad andare a funghi, ma i funghi ad andare a uomini, cogliendo quelli non velenosi. Gli animali sono già più numerosi di noi, gli insetti non ne parliamo; ma anche loro rispetto alle piante sono veramente una sparuta minoranza sulla terra.
Partendo da queste considerazioni, un famoso e assai seguito studioso della vegetazione, Stefano Mancuso, critica la pretesa di definire l’uomo misura di tutte le cose. Ma che unità di misura siamo, il millimetro?, visto che apparteniamo a una ridicola ultraminoranza. Vero è che il filosofo sofista Protagora aggiungeva che siamo misura di tutte le cose che sono in quanto sono e di quelle che non sono per ciò che non sono; dunque stabiliva una cernita intelligente che difficilmente un fungo o una foglia sarebbero in grado di fare. Ma agli occhi dei botanici integralisti l’antropocentrismo è la pretesa arrogante di essere al centro dell’universo mentre siamo solo una virgola nell’immenso libro del creato. Anche il nostro modello di organizzazione, piramidale, gerarchico, rispondente a una pretesa razionalità, è uno spocchioso, fallimentare schemino di gran lunga inferiore rispetto ai sistemi organizzativi delle piante. Spesso siamo inconsapevoli imitatori dei sistemi vegetali; per esempio internet, sostiene Mancuso, somiglia a una rete vegetale più che a un modello antropocentrico. Le piante hanno un sistema organizzativo molto più resistente, efficace, innovativo, rivoluzionario rispetto a noi obsoleti tromboni umanocentrici. Non avranno nervi né cervello, non sanno cosa sia l’intelligenza di tipo umano, ma il loro sistema organizzativo è ben più evoluto, oltre che naturalmente ecosostenibile, del «nostro». Con una capacità di adattamento che noi uomini e bestie ce la sogniamo.
Da qui l’idea, all’apparenza bislacca, di battersi per i diritti delle piante e di riconoscere dignità alle piante. Già l’età dei diritti umani fu superata con l’estensione dei diritti agli animali. Ora è maturo il tempo di riconoscere i diritti del regno vegetale. A quando l’allargamento dei diritti al regno minerale? Sarebbe una «pietra miliare» per una nuova civiltà giuridica che parifica uomini, bestie, piante e sassi e riconosce pari dignità alle persone come alle foglie e alle rocce. Mancuso cerca il consenso degli stessi umani, rilevando che noi dobbiamo la nostra vita alle piante, grazie all’ossigeno, al cibo e alle fibre biodegradabili di cui ci riforniscono. Quindi passare dalla parte delle piante non è un modo per piantare l’uomo ma fa anche l’interesse degli stessi uomini che vivono grazie alle piante. Nella sua esagerazione l’apologia botanica ha tuttavia qualcosa di buono e perfino di utile: genera una maggiore sensibilità nei confronti del pianeta, dell’aria, dell’ambiente, del verde e dunque una conseguente attenzione nei confronti del loro e del nostro ecosistema.
Ma come sappiamo, tutta questa campagna in favore delle piante si inserisce nel nuovo spirito apocalittico della nostra epoca, che partendo dallo sconvolgimento climatico e dall’alterazione dell’ambiente, attribuito all’inquinamento prodotto dall’uomo e allo sviluppo industriale, consumistico e moderno, si spinge a considerare l’uomo il nemico principale del pianeta. E dunque la priorità, l’emergenza è salvare il pianeta dall’uomo, che è l’agente distruttore. L’utopia dei «plantocrati» è che il pianeta può salvarsi solo se l’uomo viene neutralizzato, disarmato, reso innocuo e subalterno. È possibile sognare un mondo migliore disabitato dagli uomini, salvato dalla nefasta presenza umana? Ma soprattutto è possibile per noi uomini ragionare a scapito dell’umanità? Siamo uomini, non teste di rapa…
Dal nostro piccolo, piccolissimo punto di vista umano non riusciamo a non considerare prioritaria la vita e l’intelligenza umane. Homo sum nihil a me alienum puto, diceva Publio Terenzio Afro, ossia «Sono un essere umano, e niente di ciò ch’è umano reputo estraneo a me». La commedia di Terenzio s’intitolava non a caso Heautontimorùmenos ovvero «Il punitore di sé stesso». E l’idea che l’uomo debba mettersi nei panni delle piante, ragionare e organizzarsi come loro, prendendo a modello il regno vegetale, tanto da rinunciare al punto di vista antropocentrico, è autopunitiva, autodistruttiva, e in definitiva antiumana. Chiedeteci di piantare più alberi in città, di rispettare le piante, amarle e studiarle, come ci insegnavano Goethe e Jünger, e da noi Ulisse Aldovrandi e Federico Cesi; ma non chiedeteci di piantare l’umanità e la sua intelligenza per mimetizzarci da vegetali. L’umanità con la sua intelligenza è schiacciata tra l’incudine dell’intelligenza artificiale e il martello dell’intelligenza vegetale. Pover’uomo, soffocato nella morsa tra la pianta e il robot.
Continua a leggereRiduci
Frati di Assisi che - secondo una parte politica - simpatizzano per la propria candidata. E poi le «bufale» su chi appoggerebbe San Francesco... Ormai non si lasciano stare né i santi, né i fanti.
La faccenda dei frati di Assisi che starebbero sostenendo la candidata del Pd alle elezioni regionali lascia quantomeno perplessi. Ma davvero i frati si schierano politicamente? Davvero la Chiesa deve entrare in questioni temporali, polemiche e dibattiti, addirittura, sul voto? Naturalmente i frati hanno smentito la notizia data dal Corriere dell’Umbria sostenendo che la cosa: «Ci fa sorridere». Hanno ribadito che loro sono aperti ai politici di tutti gli orientamenti e hanno così smontato una bufala che la sinistra aveva tentato di far passare come vera cercando di appropriarsi del poverello di Assisi. La sinistra ci prova in tutti i modi.
Avevano già provato a far passare san Francesco come un testimonial della causa Lgbtq+. Lo aveva fatto La Stampa con la regista Liliana Cavani alla quale volevano far dire che il suo Francesco avrebbe preso le parti della legge Zan. E la signora Cavani disse che in tutto il suo cinema ha sempre raccontato la tolleranza, la libertà di pensiero e i delitti che avvengono quando si prevaricano gli altri. La teologa Cavani aveva altresì affermato che il suo Francesco è l’emblema di quanto fede e tolleranza possano e debbano coesistere.
Lo scorso Natale, come ha ricordato Annalisa Terranova su Libero, «Quelli di +Europa hanno fatto gli auguri social con il Presepe arcobaleno» (due Madonne e il Bambino, due San Giuseppe e il Bambino) con una scritta «Il bello delle tradizioni è che possono cambiare». Sarebbe da consigliare la lettura di un volume di un grande teologo del Novecento, Yves Marie-Joseph Congar che, nel suo attualissimo libro La tradizione e le tradizioni (1960-63, 2 voll.), sostiene che la tradizione è tale perché mantiene se stessa nel frattempo che il tempo scorre. Ciò che ha sostenuto sempre anche il teologo, poi Papa, Benedetto XVI, e cioè che il nucleo essenziale della fede cristiana doveva essere tràdito nel senso del latino tradère cioè trasmettere, consegnare e non tradìre nel senso peggiorativo della tradizione evangelica: Gesù è tradìto da Giuda. Trasmettere e non tradire, questo è il compito della tradizione, non si può utilizzare la figura di San Francesco d’Assisi a piacimento. Occorre rispettarne la figura, il contesto, gli scritti, le biografie, gli innumerevoli studi nonché il nocciolo essenziale del suo pensiero.
Detto questo, non ci meraviglia che la sinistra abbia voluto appropriarsi di San Francesco per battere in Umbria la candidata del centrodestra. Il pesce puzza sempre dalla testa e qui la testa è la Chiesa cattolica italiana che, per esempio, attraverso il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, spesso è intervenuta su temi politici in modo esplicito, come sull’autonomia differenziata o sulla Costituzione e la riforma sul premierato, sostenendo che ci sarebbe voluta «molta attenzione» nel toccare gli equilibri individuati dalla Carta del 1948.
Che strano mondo: vent’anni fa il cardinale Camillo Ruini venne accusato di ingerenza negli affari dello Stato quando parlava di bioetica, oggi è normale che il presidente dei vescovi italiani, un giorno sì e l’altro pure, si occupi di questioni squisitamente politiche entrando nel merito come se fosse un opinionista qualsiasi, mentre dovrebbe rappresentare tutti i vescovi della Chiesa italiana. Il suo cognome, sia pure al plurale, ci ricorda l’accezione peggiore del termine zuppa, come dice la Treccani: «Un miscuglio disordinato e prolisso di argomenti eterogenei e poco coerenti». Le sue uscite sulla politica non sono neanche una zuppa ma al massimo una zuppetta, uno zuppone, talora una zuppaccia.
In questo clima non stupisce che la sinistra tenda ad appropriarsi di San Francesco allo scopo di vincere le elezioni regionali in Umbria. Povero San Francesco, ora pro nobis. San Francesco si è sempre detto che parlava agli uccelli, quelli del Partito democratico pensano di parlare ai citrulli, ma si sbagliano, perché gli umbri, come gli italiani, generalmente citrulli non sono. E, come accade spesso, è più citrullo chi parla di chi ascolta.
Continua a leggereRiduci
Sono allo studio manovre per «cinturare» la Cina nel Pacifico e nell’Oceano Indiano, e presidiare una vasta area di enorme rilevanza economica, dove l'Imec (India-Middle East-Europe Economic Corridor) svolgerà un ruolo da protagonista.
A convincere Donald Trump della necessità di mettere in campo un contenimento della Cina fu il compianto premier nipponico, Shinzo Abe. Col senno di poi, quest’ultimo ci vide lungo e riuscì a convincere un ostinato bilateralista come Trump della necessità di creare un club di democrazie per «cinturare» la Cina nel Pacifico e nell’Oceano Indiano, e presidiare una vasta area di enorme rilevanza economica.
L’Indo-Pacifico ospita infatti alcune tra le economie maggiori e in più rapida crescita del mondo. Secondo le stime più recenti (2023), l’Indo-Pacifico contribuisce circa dal 40 al 45 per cento del Pil globale. È inoltre un’area-chiave per il commercio globale: passa di qui circa il 35 al 40 per cento di beni e servizi. Oggi Abe non c’è più, ma la sua eredità rimane salda, e nel governo giapponese non manca chi con il neopresidente Usa ha già avuto a che fare e ci ha mantenuto cordiali rapporti. È il caso di Taro Aso, attuale ministro delle Finanze che fu il principale negoziatore tra Stati Uniti e Giappone negli accordi commerciali tra i due Paesi del 2019.
Spostandosi dall’Oceano Indiano al Golfo e al Mediterraneo, Trump punta a valorizzare l’Accordo di Abramo, che venne concluso durante il suo mandato alla Casa Bianca e sancì una normalizzazione nei rapporti tra sauditi e israeliani in chiave anti-Iran. La storica intesa, inoltre, funge da base per recenti ambiziose alleanze, come la piattaforma Imec per la realizzazione di un corridoio logistico-commerciale indo-arabo-europeo che salda Pacifico, Oceano Indiano e Mediterraneo. India, Medio Oriente ed Europa insieme rappresentano una parte significativa del Pil globale – tra il 30 e il 40 per cento - con l’India che contribuisce circa al 4 per cento, il Medio Oriente al 2-3 per cento, e l’Europa circa al 20 per cento. L’attività economica derivante dall’Imec - alimentata da migliori rotte commerciali, investimenti in infrastrutture e una maggiore cooperazione regionale - incrementerà il Pil combinato di queste regioni di alcuni punti percentuali. Con tali premesse, il quadro iniziale della nuova presidenza Trump si direbbe l’opposto di uno schema divide et impera, in cui le aree strategiche sono rigidamente compartimentate anziché fondersi.
Continua a leggereRiduci
La lettura dei giornali è sempre utile, soprattutto di quelli degli anni passati. Infatti, a sfogliare le pagine dei quotidiani vi si trovano chicche insperate, in grado di sorprendere anche chi, come me, ha una buona me-moria. La scoperta in questo caso riguarda il mutato atteggiamento nei confronti della magistratura da parte della stampa progressista.
Da quando è scoppiato il caso del trasferimento dei migranti, la sinistra a testate unificate sostiene che i giudici non possono fare altro che applicare la sentenza della Corte di giustizia europea, disapplicando la legge italiana. lo pensavo che i tribunali in realtà dovessero soltanto attenersi alle norme votate dal Parlamento, perché nella logica della separazione dei poteri tocca alle Camere legiferare, non certo alle toghe attraverso le sentenze. Ma per opinionisti e post comunisti (a volta sono la stessa cosa), i giudici possono sottrarsi all'obbligo di applicare la legge in forza di dispositivi superiori, vale a dire che possono scegliersi le norme che più si confanno al loro orientamento e in questo caso torna comodo la sentenza della Corte di giustizia europea. Ma a questo proposito conviene rileggersi un editoriale pubblicato da Repubblica e firmato dall'uomo che per mezzo secolo o forse più è stato il maitre a penser della sinistra: Eugenio Scalfari. Già il titolo dice tutto: «Sopra i giudici vince la legge». L'opinione prende spunto da una vicenda di cronaca: l'arresto del direttore generale di Banca d'Italia, Mario Sarcinelli, e l'avviso digaranzia al governatore dell'istituto centrale, Paolo Baffi. Sul finire degli anni Settanta, due magistrati in forza presso il tribunale di Roma, Luciano Infelisi e Antonio Alibrandi, aprirono un'inchiesta che coinvolse l'istituzione bancaria nazionale. Scalfari nel suo articolo spiegò che la «confusa e oscura vicenda» avrebbe provocato un inevita-bile conflitto costituzionale tra poteri dello Stato. E auspicò che la questione fosse portata davanti alla Corte costituzionale «affinché giudichi sulle autonome prerogative giudiziarie che la legge bancaria attribuisce all'ispettorato della Banca d'Italia e al governatore che ne è a capo, stabilisca se i mandati di cattura e di comparizione emessi dal giudice istruttore del tribunale di Roma non abbiano violato il principio della divisione dei poteri, che sta alla base del nostro ordinamento costituzionale». Avete capito il Vate della sinistra? Secondo lui, Banca d'Italia era un'istituzione inviolabile, protetta da una sorta di insindacabilità. Anzi, dotata di immunità. «li giudice non può trattare alla stregua di un reato il rispetto del segreto d'ufficio che il governatore e i suoi funzionari hanno osservato anche nei suoi confronti» scrisse il padre della Repubblica. Il quale, rifacendosi a una frase che sarebbe stata pronunciata dagli stessi magistrati («Qui non esistono intoccabili»), commentava: «È vero, lì (in tribunale, ndr) non esistono e non debbono esistere intoccabili. Neppure i giudici dovrebbero esserlo e invece lo sono, poiché nessuno li chiamerà a rispondere dei loro errori». Di più, dopo aver accusato Infelisi e Alibrandi di non conoscere la legge, Scalfari concludeva dicendo che la «tristissima vicenda», oltre ad aver arrecato gravi danni alle istituzioni (bancarie, ovviamente), regalandoci un clamoroso conflitto costituzionale, dimostrava che la procura di Roma e l'ufficio istruzione del tribunale non possedevano la «professionalità indispensabile per esercitare le loro delicatissime funzioni». Perché mi colpisce rileggere a quasi mezzosecolo di di
Continua a leggereRiduci
Un’italiana era felice in Canada. Ma, alla maniera del pesce che risale le correnti, è voluta tornare. Per provare a cambiare il suo Paese.
Ogni tanto viene voglia di arrendersi. Ogni tanto viene voglia di girare la testa dall’altra parte. Perché continuare a denunciare, a lottare, a farsi venire il mal di fegato? Ogni tanto, ammettetelo, anche voi pensate che non ci sia speranza. Che siamo condannati all’eterno ripetersi degli stessi guai, incastrati negli stessi problemi, destinati ad arrotarci all’infinito dentro disastri che nessuno fa niente per evitare, anche quando sarebbe possibile. Ogni tanto viene voglia di fuggire lontano. Di sparire. Di evaporare. Ed è allora, in quel preciso momento, allo zenit della rassegnazione, al culmine dello scoramento, che bisogna prendere in mano la lettera di Chiara. Leggerla e rileggerla. Forse non riuscirà a cambiare questo Paese. Ma sono sicuro che riuscirà a cambiare il vostro umore.
La lettera di Chiara l’ha scovata, in un angolo di Repubblica, il nume tutelare del Grillo, al secolo Mauro Querci, che fra i suoi pregi ha quello di scandagliare con caparbietà da palombaro i fondali delle rubriche dei lettori di tutti i giornali. Quasi sempre riesce a scovarci delle perle preziose, che altrimenti sfuggirebbero ai più. Com’è successo in questo caso. La dottoressa Chiara Tabet, «un’italiana rimpatriata», scrive una lettera breve ed efficace, che vi riporto.
«Perché sono tornata. Mi chiedono, alla posta, perché sono tornata. Me lo chiedono al supermercato, al bar, nei rifugi di montagna. Me lo chiedono, anche a scuola, dove lavoro. Un insegnante mi dice che è stato un errore, che il Canada è un Paese bellissimo e che l’Italia, invece, è condannata a morire di una morte lenta e triste. Perché sono tornata? Sono cittadina canadese e italiana. Ho conosciuto Paesi caldi e freddi, ho camminato accanto ai laghi della Norvegia, mi sono sdraiata sulle dune bollenti di Abu Dhabi, conosciuto fino in fondo la scortesia dei parigini, bevuto come una scozzese. Ho sposato un canadese, sciato sulle montagne della British Columbia. Ho lasciato un lavoro meraviglioso, ben pagato, e un appartamento dal quale si vedeva il mare di Vancouver. Perché sono tornata? Perché questo è anche il mio Paese, e perché contro la rassegnazione bisogna lottare».
Confesso che la lettera è così bella e perfetta che lì per lì ho pensato a un falso costruito in redazione. Così, sempre con l’aiuto del nume tutelare, sono andato a verificare. E ho scoperto che invece la dottoressa Chiara Tabet esiste davvero. Nata nel 1978, sposata con un canadese (Darren), proprietaria di un gatto (Gatto), che definisce «il più bello del mondo», si è laureata a Roma, dottorato a Pisa, poi è andata a lavorare all’estero. Da ultimo dirigeva un liceo internazionale a Vancouver. Ha vissuto in Canada, Norvegia, Francia, Inghilterra e Scozia. E ora è tornata a Roma. «Perché questo è anche il mio Paese e perché contro la rassegnazione bisogna lottare», come scrive lei. E meglio non poteva dire.
Ora non so se a Chiara piace la parola «patria», magari no, e magari le dà anche fastidio essere accostata a essa. Ma io in mezzo a tanti che si proclamano a vanvera patrioti non ho visto, ultimamente, un patriota come lei. E in mezzo a tanti sedicenti sovranisti non ha mai visto una sovranista come lei. È cittadina del mondo, ama Oslo e la lingua norvegese, il Canada e la birra scozzese, le dune bollenti di Abu Dhabi e le montagne della British Columbia, ama viaggiare e vivere in tutto il pianeta, e per di più scrive a Repubblica, redazione che fa la macumba ogni volta che sente parlare di «patrioti» e «sovranisti». Però è la più patriota e sovranista di tutti. Nel senso migliore del termine. Anche se forse sentirselo dire le dispiacerà.
Non importa, io voglio farle sapere che l’ammiro. E che vorrei fare leggere la sua lettera nelle scuole. Perché ci vuole un bel coraggio, mentre schiere di ragazzi se ne vanno legittimamente all’estero a cercare salari che non siano da fame, mentre i migliori giovani emigrano perché qui non è possibile far ricerca, mentre medici e infermieri scappano dal nostro Paese e dalla sua Sanità a pezzi, ci vuole un bel coraggio a percorrere la corrente al contrario, come un salmone tinto di tricolore. E ci vuole un bel coraggio, in mezzo ai cori di mugugni, in mezzo alle lamentele perenni, alle autocommiserazioni e ai tafazzismi, in mezzo a tanti egoismi e individualismi, in mezzo a eserciti di italiani che non perdono occasione per vituperare l’Italia, ci vuole un bel coraggio a dire: «Questo è il mio Paese». E io non so se leggere questa lettera ha fatto cambiare l’umore anche a voi, come è successo a me, non so se dopo averla letta avete ritrovato un po’ dell’energia che pensavate perduta per sempre, ma io sentivo di dovervela consegnare. Perché non c’è niente di più importante che lottare contro il grande male che rischia di annichilirci: la rassegnazione. E Chiara ci aiuta in questa lotta. Ci aiuta davvero. A patto che fra due mesi non ci scriva un’altra lettera, magari dall’Australia.
La lettera di Chiara l’ha scovata, in un angolo di Repubblica, il nume tutelare del Grillo, al secolo Mauro Querci, che fra i suoi pregi ha quello di scandagliare con caparbietà da palombaro i fondali delle rubriche dei lettori di tutti i giornali. Quasi sempre riesce a scovarci delle perle preziose, che altrimenti sfuggirebbero ai più. Com’è successo in questo caso. La dottoressa Chiara Tabet, «un’italiana rimpatriata», scrive una lettera breve ed efficace, che vi riporto.
«Perché sono tornata. Mi chiedono, alla posta, perché sono tornata. Me lo chiedono al supermercato, al bar, nei rifugi di montagna. Me lo chiedono, anche a scuola, dove lavoro. Un insegnante mi dice che è stato un errore, che il Canada è un Paese bellissimo e che l’Italia, invece, è condannata a morire di una morte lenta e triste. Perché sono tornata? Sono cittadina canadese e italiana. Ho conosciuto Paesi caldi e freddi, ho camminato accanto ai laghi della Norvegia, mi sono sdraiata sulle dune bollenti di Abu Dhabi, conosciuto fino in fondo la scortesia dei parigini, bevuto come una scozzese. Ho sposato un canadese, sciato sulle montagne della British Columbia. Ho lasciato un lavoro meraviglioso, ben pagato, e un appartamento dal quale si vedeva il mare di Vancouver. Perché sono tornata? Perché questo è anche il mio Paese, e perché contro la rassegnazione bisogna lottare».
Confesso che la lettera è così bella e perfetta che lì per lì ho pensato a un falso costruito in redazione. Così, sempre con l’aiuto del nume tutelare, sono andato a verificare. E ho scoperto che invece la dottoressa Chiara Tabet esiste davvero. Nata nel 1978, sposata con un canadese (Darren), proprietaria di un gatto (Gatto), che definisce «il più bello del mondo», si è laureata a Roma, dottorato a Pisa, poi è andata a lavorare all’estero. Da ultimo dirigeva un liceo internazionale a Vancouver. Ha vissuto in Canada, Norvegia, Francia, Inghilterra e Scozia. E ora è tornata a Roma. «Perché questo è anche il mio Paese e perché contro la rassegnazione bisogna lottare», come scrive lei. E meglio non poteva dire.
Ora non so se a Chiara piace la parola «patria», magari no, e magari le dà anche fastidio essere accostata a essa. Ma io in mezzo a tanti che si proclamano a vanvera patrioti non ho visto, ultimamente, un patriota come lei. E in mezzo a tanti sedicenti sovranisti non ha mai visto una sovranista come lei. È cittadina del mondo, ama Oslo e la lingua norvegese, il Canada e la birra scozzese, le dune bollenti di Abu Dhabi e le montagne della British Columbia, ama viaggiare e vivere in tutto il pianeta, e per di più scrive a Repubblica, redazione che fa la macumba ogni volta che sente parlare di «patrioti» e «sovranisti». Però è la più patriota e sovranista di tutti. Nel senso migliore del termine. Anche se forse sentirselo dire le dispiacerà.
Non importa, io voglio farle sapere che l’ammiro. E che vorrei fare leggere la sua lettera nelle scuole. Perché ci vuole un bel coraggio, mentre schiere di ragazzi se ne vanno legittimamente all’estero a cercare salari che non siano da fame, mentre i migliori giovani emigrano perché qui non è possibile far ricerca, mentre medici e infermieri scappano dal nostro Paese e dalla sua Sanità a pezzi, ci vuole un bel coraggio a percorrere la corrente al contrario, come un salmone tinto di tricolore. E ci vuole un bel coraggio, in mezzo ai cori di mugugni, in mezzo alle lamentele perenni, alle autocommiserazioni e ai tafazzismi, in mezzo a tanti egoismi e individualismi, in mezzo a eserciti di italiani che non perdono occasione per vituperare l’Italia, ci vuole un bel coraggio a dire: «Questo è il mio Paese». E io non so se leggere questa lettera ha fatto cambiare l’umore anche a voi, come è successo a me, non so se dopo averla letta avete ritrovato un po’ dell’energia che pensavate perduta per sempre, ma io sentivo di dovervela consegnare. Perché non c’è niente di più importante che lottare contro il grande male che rischia di annichilirci: la rassegnazione. E Chiara ci aiuta in questa lotta. Ci aiuta davvero. A patto che fra due mesi non ci scriva un’altra lettera, magari dall’Australia.
Continua a leggereRiduci