Panorama
Una vasta operazione coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Firenze ha portato all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal Giudice per le indagini preliminari, a carico di 23 persone ritenute parte di un’organizzazione criminale dedita al traffico internazionale di sostanze stupefacenti. L’operazione, condotta nella giornata odierna, rappresenta un colpo significativo contro il narcotraffico con ramificazioni in Italia e all’estero.
L’ordinanza è stata eseguita dai Finanzieri del Comando Provinciale di Pisa, in collaborazione con il Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata (SCICO) e la Stazione Navale di Livorno, coinvolgendo 200 unità della Guardia di Finanza e l’impiego di unità cinofile. Le attività hanno interessato diverse regioni italiane, tra cui Toscana, Calabria, Lazio, Puglia, Campania, Lombardia, Veneto e Liguria, e hanno coinvolto anche nazioni straniere come Albania, Francia, Spagna e Romania. Diverse perquisizioni sono ancora in corso, compreso il controllo di strutture ricettive a Firenze legate agli indagati albanesi.
L’indagine, durata mesi e diretta in sinergia con le autorità internazionali, ha permesso di svelare un articolato sistema di importazione di cocaina dal Sudamerica. La droga veniva acquistata in Colombia e spedita in Ecuador, per poi arrivare nei porti italiani di Livorno, Genova e Savona, oltre a diversi scali europei, come Barcellona, Anversa e Rotterdam. Una complessa rete criminale, che coinvolgeva la 'ndrangheta e la camorra, gestiva l’importazione e la distribuzione della droga, con operazioni di recupero e occultamento nei container, spesso mascherati da carichi di frutta esotica.
Durante l’inchiesta sono stati sequestrati oltre 2 tonnellate di cocaina, 45 kg di hashish e 20 kg di marijuana, per un valore stimato di 70 milioni di euro. Le autorità hanno anche arrestato in flagranza tre persone. La collaborazione con le agenzie internazionali Eurojust ed Europol e l’aiuto della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga hanno garantito il successo dell’operazione, mentre la Direzione Nazionale Antimafia ha coordinato le attività con gli altri uffici antimafia italiani.
Le indagini, condotte in collaborazione con le autorità di Ecuador e Albania, hanno dimostrato la pericolosità della rete criminale, che utilizzava dispositivi di radiolocalizzazione per agevolare il recupero della droga. Nonostante i risultati rilevanti, il procedimento penale è ancora nella fase preliminare, e per il principio di non colpevolezza, la responsabilità degli indagati sarà confermata solo con una sentenza definitiva.
La Procura di Firenze ha espresso gratitudine per l'impegno della Guardia di Finanza, delle autorità estere e delle organizzazioni internazionali coinvolte, rimarcando l’importanza della cooperazione transnazionale nella lotta al narcotraffico.
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Il primo ministro inglese, ricordato per la lotta contro la follia nazifascista durante la Seconda guerra mondiale, in realtà era stato tutt’altro che ostile ai regimi italiano e tedesco. Per Hitler e Mussolini esprimeva parole di ammirazione, poi in fretta cancellate.
Ce lo aveva annunciato del resto lui stesso: «La storia sarà gentile con me: poiché intendo scriverla io». E in effetti bisogna riconoscere che Winston Churchill ha compiuto il suo più grande capolavoro nell’alterare la realtà dei fatti, divenendo egli stesso fonte ingannevole di una narrazione avvelenata, con la sua monumentale storia della Seconda guerra mondiale che gli valse il Nobel per la letteratura. La versione dei fatti scritta dai vincitori ci ha tramandato una certa immagine dello statista britannico. L’uomo che promette alla sua nazione sudore, lacrime e sangue per fermare Hitler e che pronuncia, nel 1940, parole rimaste scolpite nella memoria collettiva: «Combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei luoghi di sbarco, combatteremo sui campi e sulle strade, combatteremo sulle colline; noi non ci arrenderemo mai».
Però esiste anche un secondo Churchill. Quello che, negli anni precedenti, non nascondeva la sua ammirazione per Benito Mussolini, sviolinava Adolf Hitler e, nella guerra civile spagnola, benché formalmente neutrale, simpatizzava in realtà per i falangisti di Francisco Franco. È severamente vietato guardare dentro questa storia, nessuno la ricorda né se ne parla. Eppure non è meno vera delle parole sulla resistenza a oltranza contro il «mostro» nazista e fascista. Alcune delle più sconcertanti dichiarazioni di Churchill risalgono al 17 febbraio 1933, quando tenne un discorso sul «pericolo rosso», a Londra, alla Queen’s Hall, in occasione delle pompose celebrazioni del venticinquennale dell’Unione anticomunista e antisocialista. L’uomo col sigaro definì Mussolini come «il più grande legislatore vivente», aggiungendo che egli aveva «stabilito un centro di riferimento nel mondo, nella storia del mondo, attraverso cui le comunità disperate alle prese con il bolscevismo non esiteranno a lasciarsi guidare». Poi partì con una filippica contro i debosciati rampolli delle élite britanniche, gli universitari di Oxford, i quali avevano da pochi giorni pronunciato un solenne giuramento che suonava come una vera e propria forma disonorevole di diserzione preventiva di fronte al dovere di combattere in armi per la difesa della Patria aggredita. L’Unione di Oxford, il consesso dove si svolgevano i celebri duelli oratori tra gli studenti, aveva approvato, con 275 voti contro 153, una mozione che affermava: «Questa istituzione rifiuta in qualunque circostanza di combattere per il re e per la nazione». Churchill definì «abietto» tale giuramento, aggiungendo: «Ci è stato detto di non prendere molto sul serio questo fatto. Il quotidiano The Times ha scritto un articolo, L’ora dei bambini, ma io disapprovo, e penso che noi dovremmo prendere la cosa molto sul serio. Io credo che sia il sintomo di qualcosa di inquietante e insieme di disgustoso».
Si lanciò quindi in un’apologia dello spirito regnante in Germania, dove Hitler era da poco asceso al potere, e in Italia, governata dal «genio romano» del suo novello Cesare. «La mia mente si rivolge alle ristrette acque del Canale e del Mare del Nord, dove grandi nazioni sono fermamente determinate a difendere i loro interessi, la loro gloria nazionale e la loro esistenza, insieme con le loro stesse vite». Ecco le parole incredibili e sconvolgenti che uscirono dalla sua bocca: «Penso alla Germania, con i suoi splendidi giovani, dagli occhi azzurri, che marciano uniti per tutte le strade del Reich, cantando i loro antichi inni, domandando di essere arruolati in un esercito, cercando con impazienza le armi della guerra e bruciando dal desiderio di patire e di morire per la loro Patria». L’ardore della gioventù hitleriana, purtroppo, non era degno di essere additato per esempio, in quanto, nel volgere di pochissimi anni, la storia si sarebbe incaricata di dimostrare che molti di quei «guerrieri ariani» sarebbero stati autori di una delle più abominevoli combinazioni di crudeltà personale e di efferatezza ideologica che la storia abbia registrato, sotto il folle disegno della supremazia razziale.
Poi aggiunse: «Penso all’Italia con i suoi ardenti fascisti, schierati con il loro grande Capo, e colmi di senso della fierezza patriottica e del senso del dovere nazionale». Sono molti, e mai, o quasi mai, ricordati, i discorsi e le prese di posizione in cui Churchill tessé le lodi dei due alleati di Berlino e Roma, Hitler e Mussolini, almeno fino al 1938-39. Il 17 settembre 1937, riprendendo un sentire comune tra la popolazione britannica, che corrispondeva anche ai suoi convincimenti, definì la Germania una grande nazione «legata a noi da tanti vincoli di storia e di razza». Poi, negando di essere «ostile al governo tedesco», vaticinò, appellandosi al Führer come allo statista «della pace»: «Quando un uomo è impegnato in una lotta disperata, è costretto talvolta a digrignare i denti mentre i suoi occhi lampeggiano d’ira. Ira e odio rendono ancora più efficaci le armi per la lotta. Ma il successo dovrebbe invece rendere lieto e sereno lo spirito per custodire e consolidare, con uno stato d’animo adatto alle nuove circostanze, con tolleranza e comprensione tutto ciò che nella lotta si è riusciti a ottenere». Parole gettate nel vuoto, che però avevano il potere di influenzare l’opinione pubblica, per la statura della personalità che tali espressioni pronunciava, rafforzando quel clima di appeasement, cioè di pacificazione con i dittatori, che era in pieno svolgimento nella Gran Bretagna d’allora.
Un plateale e colossale endorsement filofascista fu quello messo a segno da Churchill, dieci anni prima, davanti alla stampa italiana, al termine dei suoi colloqui romani con il Duce: era il gennaio del 1927. Al tempo, l’uomo politico d’Oltremanica era cancelliere dello Scacchiere. «Non ho potuto non rimanere affascinato» esordì «come tante altre persone, dal cortese e semplice portamento dell’onorevole Mussolini e dal suo contegno calmo e sereno, malgrado tanti pesi e tanti pericoli. Secondariamente, è stato facile accorgersi che l’unico suo pensiero è il benessere durevole del popolo italiano, così come egli lo intuisce, e che qualunque altro interesse di minor portata non ha per lui la minima importanza». Così proseguì, negli incensamenti: «Sul piano della vostra politica interna, ho sentito molte cose intorno alla vostra legge sulle corporazioni, che, mi si dice, associa direttamente venti milioni di operosi cittadini allo Stato, e obbliga lo Stato ad assumere a loro riguardo e verso i loro dipendenti delle responsabilità molto dirette. Questo movimento è del massimo interesse e il risultato di esso sarà attentamente seguito in ogni Paese». Ancora: «Certamente, esso richiede la maggior buona volontà e cooperazione da parte di tutto il popolo; come anche una guida chiara e sapiente da parte dello Stato. Ma, ad ogni modo, di fronte a un tale sistema accettato con ardore, è perfettamente assurdo dichiarare che il governo italiano non poggi su una base popolare, e che non sia sorretto dal consenso attivo e pratico delle grandi masse». E concluse: «Se fossi stato italiano sono sicuro che sarei stato interamente con voi dal principio alla fine della vostra lotta vittoriosa contro i bestiali appetiti e le passioni del leninismo».
Anche come editore di giornale, Mussolini aveva più di una ragione di ricevere questo panegirico dall’ospite straniero. Churchill era stato gratificato da una collaborazione d’oro con Il Popolo d’Italia, il quotidiano fascista, che pubblicò, in numerosi articoli, usciti con grande evidenza in prima pagina, le sue memorie sulla Prima guerra mondiale.
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Nel 2023 LA spesa militare globale ha toccato i 2.443 miliardi di dollari. E Ad armarsi non sono solo le superpotenze: tutti i paesi investono enormi risorse per forniture belliche sempre più sofisticate richieste dall’attuale «ordine mondiale». dove, dopo ucraina e medio oriente, i conflitti sono diventati un’opzione politica.
Il video delle forze aeree israeliane, pubblicato su X, riprende i cacciabombardieri che il 27 settembre hanno sepolto per sempre il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, nel quartier generale a Beirut. Otto F-15, che sono decollati con almeno 16 bombe da mille chili. Sotto la pancia del velivolo si notano anche le Blu-109 americane, ordigno teleguidato anti bunker che penetra nei rifugi in cemento armato prima di esplodere con tremende conseguenze. In maggio la Casa Bianca ne aveva bloccato l’invio a Israele, ma evidentemente restava ancora qualcosa negli arsenali delle precedenti forniture Usa. Solo un tassello del mosaico, che dimostra il vorticoso giro di armi per la guerra in Medio Oriente. La corsa agli armamenti provocata dai conflitti che ci circondano, da Israele all’Ucraina e quello che potrebbe scoppiare in Estremo Oriente, ha subito un’accelerazione senza precedenti. Nel 2023 la spesa militare globale ha raggiunto la vetta di 2.433 miliardi di dollari, secondo i dati dell’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri). Il più forte aumento negli ultimi 14 anni, che per la prima volta dal 2009, registra un’impennata in tutte e cinque la macro-regioni del globo dall’Africa all’Asia. Un «si armi chi può» mondiale radiografato da Panorama. «Tutti si armano non per fare, ma evitare la Terza guerra mondiale» osserva Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa. «Il problema è che l’aumento della produzione bellica richiede investimenti elevati e personale specializzato. E c’è bisogno di una pianificazione pluriennale. Siamo certi che si potranno trovare le risorse?».
La parte del leone spetta sempre agli Stati Uniti, con una spesa di 916 miliardi di dollari seguiti da Cina e Russia. L’Europa, allarmata dal conflitto ucraino, ha registrato un’impennata del 16 per cento e anche l’Italia, dopo anni di stretta, aumenta gli investimenti militari. «Numeri importanti, per un totale di 9,3 miliardi di euro» afferma Giovanni Martinelli, che ogni anno passa ai raggi X il bilancio della Difesa. «La tendenza è rafforzare l’esercito che ha subito tagli negli ultimi anni e stanno partendo programmi innovativi su droni e munizioni circuitanti» ovvero velivoli kamikaze senza pilota. Il nostro Paese si doterà di 132 carri armati sviluppando il Panther assieme alla tedesca Rheinmetall. Per la fanteria la Difesa vuole acquistare 570 nuovi mezzi di combattimento. Nel complesso i due programmi hanno un valore, spalmato negli anni, di 23 miliardi di euro. Acquisteremo anche 21 Himars, i missili a lungo raggio americani diventati famosi in Ucraina, per 960 milioni. «La questione più spinosa riguarda i tempi» osserva ancora Gaiani. «Se oggi si ordinano carri armati si avranno fra dieci anni. Ci sarà ancora l’esigenza di combattere i russi?». Il muro del Donbass rischia di essere più alto di quello di Berlino, ma un altro fattore è la «fretta da riarmo». «Va a vantaggio dell’industria americana, che ha la capacità di produrre qualsiasi cosa e velocemente per poi vendere la armi all’Europa. Se il Vecchio continente fa incetta di F-35 ed F-16, caccia a stelle e strisce, dov’è la difesa Ue?».
Il «Documento programmatico pluriennale 2024-2026» prevede cinque F-35 per la Marina militare, che si aggiungono ai 19 già in acquisizione. All’Aeronautica arriveranno 24 velivoli da combattimento Eurofighter Typhoon (7,4 miliardi di euro) a partire da quest’anno. La scommessa da vincere, però, è il programma per il caccia di sesta generazione (Global Combat Air Programme), già Tempest. Per la ricerca e sviluppo saranno spesi 7,7 miliardi. Alla Marina arriveranno le due Fremm Evo, unità da guerra avveniristiche (1,5 miliardi) e nave Olterra per operazioni subacquee speciali. Nonostante gli sforzi, siamo ancora indietro rispetto all’obiettivo del 2 per cento del Prodotto interno lordo per la Difesa, strappato nel 2014 dagli americani, a differenza dei 23 Paesi alleati che quest’anno dovrebbero rispettare l’impegno. «Se in ambito Nato devi raggiungere il 2 per cento del Pil e per l’Unione europea non puoi superare un deficit del 3 per cento è ovvio che i due criteri contrastano» osserva Stefano Pontecorvo, presidente di Leonardo. «Parte della soluzione è defalcare le spese della Difesa dalla soglia Ue. E finanziare almeno gli investimenti per la ricerca in questo campo con gli Eurobond». La Polonia, che nel 2025 spenderà per la Difesa 43 miliardi di euro arrivando al 4,7 per cento del Pil, sta diventando la Prussia d’Europa. Non solo: il presidente, Andrzej Duda, ha rivelato che sono in corso trattative con Washington per installare armi nucleari americane in territorio polacco. Il 12 agosto scorso è stato firmato il contratto per produrre nello stabilimento Stalowa Wola 48 batterie per i missili Patriot. Non è un caso che l’ambasciatore Usa a Varsavia sia Mark Brzezinski, figlio di Zbignew, consigliere per la sicurezza nazionale di origini polacche, con il presidente Jimmy Carter, fu uno degli artefici del collasso dell’Urss. «Fatevi un giro per la Polonia. Si sentono già in prima linea contro i russi» spiega chi è coinvolto nel riarmo in Italia. Il 13 agosto è stato annunciato l’acquisto di 96 elicotteri d’attacco Apache per 10 miliardi di dollari. La Polonia ha ordinato dalla Corea del Sud 48 caccia leggeri, 280 lanciarazzi campali K239 Chunmoo, 600 obici semoventi da 155 mm K9 Thunder e mille carri armati K2.
In Germania è aspro il dibattito sul dispiegamento dal 2026 di nuovi missili americani Tomahawk. Il cancellerie tedesco, Olaf Scholz, lo aveva discretamente concordato con il presidente Joe Biden in luglio, ma l’opposizione di estrema destra (AfD) e sinistra (Bsw), che sta crescendo, è fortemente contraria. Tim Thies dell’Istituto per la ricerca sulla pace e la politica di sicurezza di Amburgo non ha dubbi: «Stiamo andando verso una nuova e pesante corsa agli armamenti». La Germania è già fra i primi cinque esportatori al mondo nel campo della Difesa dietro a Stati Uniti, Francia, Russia e Cina. La guerra in Europa ha inevitabilmente alimentato il riarmo: la spesa militare nel 2023 è aumentata in 39 dei 43 Stati del continente. Il picco è stato raggiunto dall’Ucraina, in gran parte con soldi occidentali (+51 per cento) e dalla Russia (+24). Il 27 settembre scorso il governo di Kiev ha presentato un disegno di legge per destinare il 60 per cento del bilancio 2025 ai settori difesa e sicurezza (48,3 miliardi di euro, ma saranno 12 al netto degli aiuti alleati). La Russia vuole investire il 30 per cento in più nella Difesa (130 miliardi di euro) e ha appena richiamato alla leva autunnale 133 mila uomini. Vladimir Putin ha annunciato il 27 settembre la nuova dottrina nucleare: «L’aggressione contro la Russia da parte di qualsiasi Stato non nucleare, ma con partecipazione o sostegno di uno Stato nucleare, si considererà un attacco congiunto (…), che stabilirebbe chiaramente le condizioni affinché la Russia possa passare all’uso delle armi nucleari». Il riferimento è alle pressanti richieste ucraine di utilizzare i missili occidentali per colpire in profondità il territorio nemico. Nonostante le sanzioni la Russia è favorita rispetto all’Europa nei costi dello sforzo bellico. «Per produrre armi e munizioni c’è bisogno di materie prime, che non abbiamo e costano sempre di più» spiega Gianandrea Gaiani. «Serve pure l’energia, che in Ue ha i prezzi più alti al mondo. Il risultato è che un proiettile di artiglieria classico costa dai 500 ai mille euro in Russia e a noi dai quattromila agli ottomila».
Un anno dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele si sta svenando nel conflitto che si è allargato a livello regionale con Hezbollah in Libano e l’Iran. Il governo di Benjamin Netanyahu ha in programma di aumentare il debito di 60 miliardi di dollari. Solo il costo della guerra a Gaza è stimato tra i 67 e i 120 miliardi di dollari. Stati Uniti e Germania sono i principali fornitori di armamenti a Israele. In agosto il Dipartimento di Stato Usa ha approvato la vendita per oltre 20 miliardi di dollari di forniture belliche compresi 50 aerei da combattimento F-15. L’Iran, che il primo ottobre ha lanciato 181 missili balistici contro Israele, è il quarto Paese del Medio Oriente per spesa in armamenti (10,3 miliardi di dollari nel 2023). Dal 2019 il budget per i Guardiani della rivoluzione, l’ossatura militare del regime, è aumentato dal 27 al 37 per cento. Tutte le nazioni mediorientali si sono riarmate arrivando a un totale di 200 miliardi di dollari, il picco più alto nell’ultimo decennio. L’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, ha dichiarato a Fox news che se gli iraniani faranno la bomba nucleare «anche noi dobbiamo averne una». Le trattative riservate con gli americani per un programma atomico sono in corso, ma «consentire all’Arabia Saudita di acquisire tali capacità potrebbe incoraggiare altri Stati dell’area, come Egitto o Turchia, a perseguire simili capacità nucleari, portando alla proliferazione in un Medio Oriente già volatile» ha scritto Manuel Herrera, ricercatore dell’Istituto affari internazionali.
In Asia il gigante indiano è al quarto posto della spesa militare globale con 83,6 miliardi di dollari, ma la preparazione alla guerra galoppa in Estremo Oriente con l’aumento della tensione fra Cina e Taiwan. Pechino è dietro agli Usa con 296 miliardi, ma in alcuni settori, come l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per scopi bellici, rischia di sorpassare gli americani. «La Cina sta indirizzando gran parte del suo crescente budget militare per aumentare la capacità di reazione dell’Esercito popolare» afferma Xiao Liang, ricercatore del Sipri. «Ciò ha spinto Giappone, Taiwan e altri a rafforzare significativamente le loro capacità militari. Ed è una tendenza che accelererà nei prossimi anni». Il Giappone, preoccupato dell’avvicinamento fra Pechino e Mosca, nel 2023 ha stanziato 50,2 miliardi di dollari per la Difesa e Taiwan l’11 per cento in più rispetto al 2022. Tokyo ha rafforzato la cooperazione militare con l’Italia a partire dal caccia del futuro. Il primo ministro, Fumio Kishida, discute con gli Stati Uniti di rompere il tabù sulle armi nucleari. Il timore riguarda la corsa della Cina, voluta da Xi Jinping, che nel 2035 avrà lo stesso numero di testate atomiche degli Usa. Delle 12.121 armi nucleari stimate a gennaio 2024, il 90 per cento è in mani russe o americane e 2.100 sono pronte al lancio. Ancora il Sipri, ha rivelato che «per la prima volta la Cina ha alcune testate nucleare in allerta operativa massima». La fonte di Panorama in prima linea nel riarmo tuttavia è moderatamente ottimista: «Gli iraniani, nonostante i lanci di missili su Israele, sono “sdentati” dal punto di vista militare. Né vedo Putin che sgancia una bomba atomica e non credo in un conflitto di tipo classico in Estremo Oriente per Taiwan. All’orizzonte non ci dovrebbe essere la Terza guerra mondiale». Almeno per ora.
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La Corte dei conti europea ammonisce gli alti organi comunitari sulla realizzazione del piano Next Gen Eu: se ci sono ritardi è colpa di una cattiva gestione centrale.
C’è un fondo di verità quando si afferma che i fondi europei post-Covid non vengano utilizzati a dovere. Il punto, però, è che la responsabilità non appartiene tanto ai singoli Paesi, quanto all’Europa stessa. A dirlo, in maniera piuttosto nitida, non è nessun cosiddetto «anti-europeista» che potrebbe essere tacciato di complottismo, bensì - udite udite - la Ue. In altre parole, è Bruxelles che si auto-accusa, riconoscendo come più di qualcosa nella gestione dei finanziamenti non funziona a dovere. Leggere per credere: «Nei primi tre anni del dispositivo per la ripresa e la resilienza (Pnrr), istituito dall’Ue con una dotazione di 724 miliardi di euro, si sono osservati ritardi nell’erogazione dei fondi e nell’attuazione dei progetti». Parola della Corte dei conti europea che in una dettagliata relazione sottolinea quali siano i problemi riscontrati nella gestione dei fondi, dato che sono stati trasferiti «solo 213 miliardi di euro dalla Commissione alle casseforti nazionali». Non solo. «Non è detto poi che questi soldi siano arrivati ai destinatari finali, fra cui imprese private, società pubbliche di servizi energetici e scuole. Di fatto, quasi la metà dei fondi erogati [...] non aveva ancora raggiunto i destinatari finali». Ed ecco allora la domanda delle domande: la colpa è davvero dei singoli Stati? Davvero, per quanto riguarda l’Italia, si può dire che tutto il peso della gestione dei fondi sia responsabilità del ministro Raffaele Fitto, peraltro da poco nominato membro della Commissione Ue? Secondo gli euro-magistrati contabili, la risposta è no. La relazione, infatti, si concentra sulla «frequenza dei motivi alla base dei ritardi nel conseguimento dei traguardi e degli obiettivi». Tanto la «complessità delle procedure nazionali» quanto la «capacità amministrativa» occupano l’ultimo posto di questa «classifica» dato che tali due motivi ricorrono «soltanto» nel 23 per cento dei casi.
Quali sono allora le principali motivazioni alla base dei ritardi? Nell’81 per cento dei casi la responsabilità è legata al «mutare delle circostanze esterne». Un esempio su tutti? Semplice. La guerra in Ucraina in corso dal febbraio 2022, che ha causato in Europa un’impennata dell’inflazione e prezzi record dell’energia. Questo ha fatto sì che alcuni progetti abbiano via via perso di interesse. E Bruxelles fa un esempio che riguarda proprio il nostro Paese: è stato rinviato l’appalto per la costruzione di 2.500 stazioni di ricarica rapida per veicoli elettrici, proprio perché nessun soggetto ha presentato domanda per una parte della misura. La ragione? Carenza di materie prime. Torniamo, però, alle ragioni che determinano ritardi nella gestione e assegnazione dei finanziamenti europei. Nel 77 per cento dei casi si riscontra una «sottovalutazione del tempo necessario per attuare le riforme». Cosa vuol dire questo? Che da una parte Bruxelles ha chiesto progetti innovativi per accedere ai fondi, e dall’altra non ha concesso poi i margini temporali per attuare quei progetti stessi. Sembra assurdo, ma è tutto vero. E c’è anche dell’altro.
«Le autorità nazionali - scrivono ancora i magistrati - hanno dichiarato che le informazioni o il livello di dettaglio da includere nei rispettivi Pnrr sulla maturità dei progetti nella riserva non erano chiari, in quanto non erano specificati negli orientamenti della Commissione». Insomma, tempi sottostimati e indicazioni piuttosto generiche. Finita qui? Certo che no. Perché, secondo la Corte, i ritardi dipendono da altri due fattori piuttosto curiosi: nel 54 per cento dei casi si riscontrano «problematiche inerenti gli appalti pubblici» e 4,2 volte su dieci tutto dipende dalla «applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato». In altre parole, sono le stesse normative europee che stanno determinando i grossi problemi del Pnrr. Parola ai magistrati contabili: nel regolamento per l’accesso ai fondi Ue, «si ricorda che sono applicate le norme generali a tale riguardo e che gli Stati membri devono far sì che tutte le riforme e gli investimenti inclusi nei Pnrr siano conformi alle norme dell’Europa in materia di aiuti di Stato e seguano tutte le procedure in proposito». Peccato che «la definizione e l’ottenimento dell’approvazione dei regimi di aiuti di Stato hanno richiesto molto tempo». Tra gli esempi più eclatanti di cui si fa cenno nella relazione, riguarda la Romania, dove si prevedeva un investimento per la creazione di impianti per la produzione, l’assemblaggio e il riciclaggio di batterie nonché di celle e pannelli fotovoltaici. Ebbene, «il primo traguardo, di cui il piano prevedeva il conseguimento nel terzo trimestre del 2022, era la firma dei relativi contratti d’appalto. Tuttavia, è stato raggiunto solo con un ritardo di oltre otto mesi». Otto mesi per una firma.
Non solo. Le autorità rumene sono andate avanti, avviando la procedura di notifica preventiva nel maggio 2022 per il regime di aiuti di Stato (prassi usuale in questi casi). Tale processo di mera notifica, però, è durato sette mesi. Pertanto, nel gennaio 2023, in Romania è stato comunque pubblicato l’invito a presentare proposte per l’investimento, che comprendeva una clausola sospensiva dal momento che il regime di aiuti di Stato non era ancora in vigore e dato che Bruxelles ancora non dava il suo via libera. Tale regime, infatti, è stato approvato solo nel febbraio 2023. Tempi biblici, dunque, per obbedire alle regole Ue. E i risultati dopo tutta questa attesa? Modestissimi. «Dai colloqui intrattenuti con le autorità rumene è emerso che l’incertezza circa la validità del regime di aiuti di Stato aveva comportato un modesto tasso di risposta». Ed ecco il cortocircuito: da una parte l’Europa chiede tempi celeri sottovalutando quanto invece occorrerebbe per dare concretezza a progetti innovativi, dall’altra le regole stesse a cui bisogna sottostare sono arzigogolate e macchinose. E il risultato è che se ci si muove velocemente derogando e rinviando eventuali via libera della Commissione (ad esempio sugli aiuti di Stato) nessuno - o quasi - risponde agli appalti dato che, in ultima istanza, non ci si fida poi tanto dell’Europa.
Ma siccome al peggio non c’è fine, a riprova di quanto la gestione dei fondi Ue da parte della presidente Ursula von der Leyen, sia piuttosto ballerina, ecco il capitolo specifico per la transizione ecologica. Secondo le conclusioni di una nuova relazione della Corte dei conti europea, il contributo del dispositivo per la ripresa e la resilienza all’azione per il clima e alla transizione verde, «non è chiaro». E per quale ragione, visto che ben il 37 per cento dei fondi europei è stato riservato all’azione per il clima? A oggi, infatti, neanche la metà di questo pacchetto è stato speso (siamo intorno al 42 per cento), circa 275 miliardi. Secondo la Corte, poi, questi contributi potrebbero essere sovrastimati di almeno 34,5 miliardi di euro. In altre parole, sono stati dati soldi per progetti «green» senza che questi stessi progetti siano effettivamente «verdi». Qualche esempio? In Grecia si vuole costruire una nuova centrale idroelettrica ad accumulazione con pompaggio, per godere di un’energia a più alta gamma di potenza e di una maggiore durata di vita rispetto alle batterie e ai sistemi di stoccaggio dell’idrogeno. Peccato però che il progetto sia come minimo poco sostenibile dal punto di vista ambientale, dato che contribuisce alla perdita di biodiversità nella vita acquatica. A Bruxelles nessuno ci aveva pensato.
Esattamente come accaduto in Portogallo, dove è stato assegnato un coefficiente del 100 per cento - il massimo punteggio per accedere ai fondi «green» - per un progetto forestale di adattamento ai cambiamenti climatici. Ma che cosa prevede in soldoni? Lavori architettonici e di ristrutturazione per centri di protezione civile in zone rurali, per i quali risulta ingiustificabile il coefficiente massimo. In Croazia, ancora, punteggio del 100 per cento a una misura contrassegnata come «trasporto urbano pulito». Peccato preveda semplicemente una digitalizzazione del sistema. Insomma, quel che sembra è che tutto sia stato strutturato con superficialità. Qualcuno da quelle parti direbbe «all’italiana». Ma stavolta è lì che bisogna bussare, a Bruxelles, per chiedere spiegazioni. Magari proprio alla porta della presidente della Commissione.
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Il successore di Stalin, rimasto al vertice dell’Unione Sovietica dal 1953 al 1964, segnò alcuni dei momenti più importanti della Guerra fredda. Che però gli costò il posto. Un ritratto di Kruscev a sessant’anni dalle sue dimissioni.
Rientrando dal mar Nero, dopo qualche giorno di vacanza (15 ottobre 1964) Nikita Kruscev, plenipotenziario (fino a quel momento) del Partito comunista sovietico, seppe di aver dato le dimissioni per «motivi di salute» dei quali non era a conoscenza. E gli andò anche bene. In Russia, informazioni del genere venivano tipicamente comunicate quando l’interessato si trovava già sul treno, diretto in qualche gulag della Siberia o - in casi non isolati - direttamente di fronte al plotone d’esecuzione. Ma, certo, con il numero uno della nomenclatura, sembrava appropriato ricorrere a una procedura più morbida. La congiura degli apparatcik comunisti - avviata fra perplessità ed esitazioni - prese consistenza quando la primavera aveva già iniziato a farsi sentire.
In prima battuta, a tirare le fila per «silurare» Kruscev fu Michail Andreevic Suslov che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, si era trovato a muoversi sulle montagne russe. Premiato e poi punito da Stalin, recuperato e poi deposto da Kruscev che gli tolse anche la presidenza della commissione sull’ortodossia ideologica. Dunque, la sua opposizione alla leadership del partito non si spiega con ragioni esclusivamente politiche. La sua fu, piuttosto, una rivalsa nel tentativo di riprendersi un ruolo nella gerarchia di partito. Del resto, anche chi - strada facendo - lo assecondò, ai motivi di malcontento per l’azione di governo, sovrappose rivendicazioni del tutto personali.
L’establishment sovietico aveva mantenuto un’impronta conservatrice e quelle pur timide spinte di vago sapore progressista avevano messo di cattivo umore i vertici delle forze armate e quelle dei servizi segreti del Kgb. Beninteso: si trattò di aperture liberali più propagandate che concrete. Il discorso (1956) al plenum comunista per denunciare gli eccessi della politica delle «grandi purghe» di Stalin, i colloqui «distesi» con l’allora vicepresidente statunitense Richard Nixon (1959) arrivato a Mosca per inaugurare l’Esposizione americana, o la scarpa brandita nel corso dell’assemblea dell’Onu (1960) per contestare chi lo accusava d’imperialismo, abbagliarono l’opinione pubblica che ne rimase persino affascinata e che non si accorse di quanto il sistema repressivo sovietico non fosse affatto cambiato. Nello stesso 1956 della «destalinizzazione», assecondò l’invasione dell’Ungheria che non rinnegava il comunismo ma riteneva di declinarlo «a misura d’uomo». Nel 1961 lasciò mano libera a Walter Ulbricht per la costruzione del muro di Berlino per separare i quartieri capitalisti da quelli sovietici.
Insomma: contraddizioni e incertezze imbastite con timidi passi in avanti e fulminei ritorni al passato. I falchi del regime accettarono le sue iniziative ma senza condividerle del tutto. E lui, Kruscev, con finta indulgenza sopportò la fronda interna, senza sforzarsi di mediare con gli oppositori alla ricerca di un’azione politica condivisa. Tuttavia, non solo di questioni di politica si trattò. Fra le decisioni da collocare fra le impopolari, figurò quella di annullare le «buste» che, oltre allo stipendio e fuori dal conteggio delle tasse, venivano assicurate ai vertici del partito e ai comandanti militari. Un premio non di poco conto perché arrivava a raddoppiare (quasi) il salario ufficiale. Poi Kruscev propose di eliminare le «cellule di partito» dalle direzioni agricole mettendo in allarme la burocrazia del Pcus che in questa riforma vedeva una perdita di potere e di autorità. Infine, i «vecchi» si sentirono minacciati dal progetto di allargare il «Presidium» per consentire l’ingresso ai giovani, destinati a diventare potenziali avversari nella scalata sociale. Ovvio che non si poteva imbastire un’opposizione sulla preoccupazione di essere scavalcati dalle generazioni a venire, ma la conclusione della crisi dei missili a Cuba - quella sì - poteva diventare una questione spendibile per un regolamento di conti interno.
La vicenda si era trascinata per mesi dal maggio 1962, quando i sovietici immaginarono di attrezzare una base missilistica alla periferia sud-ovest di L’Avana. Il progetto rimase avvolto in una nube di segretezza fino agli inizi di ottobre, quando gli americani, dal monitoraggio di aerei-spia, scoprirono i piani di Mosca. La reazione fu perentoria. Il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, dichiarò che non avrebbe consentito l’attivazione di un arsenale a poche miglia dalla costa della Florida. Praticamente nel cortile di casa. Per qualche momento il mondo rischiò la Terza guerra mondiale. Alla fine, Kruscev rinunciò al braccio di ferro e ordinò alle navi che trasportavano le testate missilistiche di invertire la rotta e tornare indietro. Il mondo elogiò la sua ragionevolezza ma non a Mosca, dove montò il disappunto per una decisione che andava intesa come una sconfitta. L’immagine di potenza dell’Unione Sovietica sarebbe stata offuscata. L’esercito si sentì umiliato da chi - evidentemente spaventato - aveva mollato la presa.
Con queste motivazioni, Suslov - nella congiura contro Kruscev - riuscì a ottenere l’adesione di Aleksandr Shelepin, che fino a pochi mesi prima era stato il direttore dei servizi segreti del Kgb, e di Vladimir Semichastnyj, che gli era subentrato. Il generale Rodion Malinovskij, eroe della Seconda guerra mondiale, comandante in capo delle forze terrestri e ministro della difesa, assicurò il consenso dei vertici militari. L’ultimo della partita fu Leonid Breznev: acquisito con la promessa di subentrare come successore alla carica di segretario del Pcus. La discussione sullo stato di salute di Kruscev, e quindi delle sue dimissioni, avvenne nella sede del Presidium che, oltre ai membri effettivi, fu «rafforzato» dalla presenza dei ministri del governo e di alcuni segretari regionali del partito. La discussione - riferirono - fu accesa ma senza accenti esageratamente tempestosi. Suslov parlò per primo con un intervento che ebbe la struttura di una requisitoria d’accusa. Gli altri si aggiunsero: chi precisando, chi fornendo ulteriori dettagli e chi potenziando gli argomenti d’imputazione. L’unico accenno di difesa venne da Anastas Mikojan, un armeno che dal Caucaso aveva iniziato la sua scalata ai vertici comunisti. Secondo lui, chiedere le dimissioni di Kruscev poteva anche essere accettabile. Ogni periodo - compreso quello delle cariche pubbliche - conosce una fine. Ma perché congedare un «compagno» coprendolo di gratuite villanie?
Kruscev, per temperamento, non era un uomo che rinunciava alla lotta e reagì alle accuse proponendo le sue tesi ed evidenziando che, con il suo governo, l’Unione Sovietica - altro che potenza rinunciataria - era più forte e rispettata. Quella che i suoi detrattori definivano «la brutta figura dei missili a Cuba» andava registrata fra i successi perché la Russia aveva aumentato la sua credibilità. I numeri, tuttavia, non gli lasciavano scampo. Aveva da scegliere se andarsene volontariamente accettando di percorrere la strada delle dimissioni (come suggerito dai congiurati) o affrontare l’umiliazione della destituzione violenta. Si prese una notte per decidere.
Le indiscrezioni «del poi» riferirono che non riuscì a dormire nemmeno un momento, ma che cenò con discreto appetito e a chi stava accanto non parve turbato più del dovuto. Conosceva le regole del gioco sovietico al quale aveva partecipato da protagonista. Lui stesso - installatore di tubi, figlio di contadini - riuscì ad affrancarsi da una condizione di sudditanza, sgomitando al momento opportuno con le persone che, in quel momento, potevano essergli utili. Prima segretario a Kiev, poi nel Politburo e nel Presidium fino a raggiungere il Soviet. Alla morte di Stalin (5 marzo 1953) diventò segretario del Pcus perché la cordata della quale faceva parte, manovrando dietro le quinte, ebbe la meglio sugli avversari. Il favorito alla successione era Lavrentij Berija, che occupava gli incarichi di ministro degli interni e di capo della polizia segreta. Ma Kruscev, accordandosi con gli altri della vecchia guardia - Georgij Malenkov, Lazar Kaganovic, Vjacelav Molotov e Nikolai Bulgarin - lavorò per ribaltare i pronostici. E per non correre il rischio di trovarsi con un oppositore dichiarato nell’ufficio centrale, come primo atto lo fece destituire e imprigionare con l’accusa di essere al soldo di potenze straniere. Il braccio destro di Stalin trovò così il plotone d’esecuzione. Kruscev dunque era stato questo, e nell’ottobre 1964 accettò di andare in pensione. «Sono vecchio e stanco» dichiarò a chi gli chiedeva ragione della sua arrendevolezza «e qualche risultato l’ho ottenuto. Chi avrebbe potuto dire a Stalin che doveva farsi da parte perché non andava più bene? Adesso, per merito mio, è possibile».
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Certe norme negli impieghi pubblici richiedono la figura dell’archeologo. E l’accelerazione la dà il Pnrr, con i cantieri per valorizzare il patrimonio. Una specializzazione affascinante, ma messa ai margini, adesso può offrire importanti sbocchi.
C’è l’archeologo «vecchio stampo» che effettua scavi e trova reperti, come accade nella Villa romana di Bibione; c’è chi segue la realizzazione di un tratto ferroviario interessato da ritrovamenti storici; c’è l’esperto impiegato stabilmente in cantieri pubblici e privati; c’è chi magari scopre preziose testimonianze sottomarine. Con varie specializzazioni, i laureati in antichità sono sempre più richiesti. Strano ma vero, per la prima volta questa professione - che fino a inizio 2020 era a dir poco precaria e veniva snobbata anche dagli atenei - oggi vede un incremento di iscritti e, soprattutto, di richieste nel mercato del lavoro. Così la facoltà di Archeologia di Padova, al primo posto nel «ranking» dell’associazione Education Around anche per prospettive occupazionali, registrava 180 iscritti nell’anno accademico 2020-2021, 185 nel ’21-’22, 217 nel ’22-’23. Più 20 per cento in tre anni.
L’inversione di rotta è dovuta soprattutto a un primo riconoscimento giuridico nel 2014, concretizzatosi però con i decreti attuativi di fine 2019, che hanno definito il ruolo dell’archeologo - e gli sbocchi di impiego - in settori in precedenza poco battuti, dove adesso è invece indispensabile il suo coinvolgimento. E poi c’è la grande spinta del Piano nazionale di ripresa e resilienza, nei vari cantieri aperti in tutto il Paese. Secondo una ricerca della Confederazione italiana archeologi (Cia) nel 2014 ne operavano circa 4.500, dei quali oltre 3.500 erano fuori da enti pubblici e meno di un migliaio avevano un inquadramento all’interno di essi. Oggi, pur non disponendo di dati esatti in assenza di un ordine professionale, la stessa Cia ha effettuato un recentissimo censimento. Che stima almeno 4.200 archeologi, di cui il 30 per cento con un contratto a tempo indeterminato, il 56 per cento è «freelance». Se la platea complessiva è ora inferiore, la professione tuttavia è più stabile rispetto a dieci anni fa.
«Questi specialisti sono importantissimi nei comuni per la pianificazione territoriale» spiega Marcella Giorgio, presidente dell’Associazione nazionale archeologi (Ana), che ne raggruppa circa 500. «Molti di loro fanno parte di squadre di progettazione insieme ad architetti e altri esperti: si occupano dei ritrovamenti, dei reperti, li censiscono e disegnano le carte per definire i rischi precisi nella conservazione». Come si diventa archeologi? «Innanzi tutto c’è la laurea triennale, poi quella magistrale, seguono le specializzazioni, indispensabili, come il dottorato, consigliato a chi voglia intraprendere l’attività accademica o il master biennale» aggiunge la Giorgio. Gli esperti della valorizzazione storico-artistica sono poi sempre più presenti nei tribunali in caso di confisca di beni, nelle controversie legali tra le parti. Ma soprattutto nei cantieri. «Le amministrazioni hanno tanti piccoli progetti legati al Pnrr che richiedono competenze archeologiche».
Dice Ghiselda Pennisi, impegnata da quattro anni con i lavori del raddoppio ferroviario Catania-Palermo, che «la presenza di questi professionisti sul campo permette l’elaborazione di una strategia di intervento, già in fase di progettazione dell’impatto per la nuova linea sul patrimonio archeologico. Il rinvenimento di reperti non risulta più un ostacolo da aggirare, ma un’opportunità di conoscenza, ricerca e, possibilmente, valorizzazione». Migliora, finalmente, anche il reddito. Se nel 2011 solo il 12 per cento degli archeologi guadagnava 20 mila euro l’anno e molti riuscivano a lavorare solo sei mesi su dodici, oggi, secondo Ana, almeno il 50 per cento raggiunge tra i 18 e i 24 mila euro annui, e il 38 per cento supera i tremila al mese, arrivando anche a toccare i 4-5 mila euro. «Parliamo ovviamente di professionisti seri ultra-40 o 50enni, che si aggiornano anche sulle nuove tecnologie, come i Gis per esempio (sistema di informazioni geografico), necessari per analizzare i dati in senso spaziale. La stessa Intelligenza artificiale ci permette ricostruzioni integrative che prima si potevano al massino immaginare».
Sarà solo una «fiammata» o la richiesta di questi esperti del patrimonio continuerà? «La nuova normativa ha cominciato a dare i suoi frutti con la ripresa post Covid» conferma Giorgio. «E prevedo che, anche al di là della scadenza del Pnrr, ci sarà richiesta - e a lungo - per le Grandi opere in programma. Nei musei, inoltre, la competenza dell’archeologo guadagna spazio. Pensiamo al museo Egizio di Torino è diretto da un grande egittologo come Christian Greco, mentre Paolo Giulierini è stato fino al 2023 direttore del Mann di Napoli, Museo archeologico nazionale, dando un contributo fondamentale». Più scettico sulla richiesta di archeologi impegnati nel settore privato (sono la maggioranza) alla fine del Pnrr è Jacopo Bonetto, docente ordinario di Archeologia a Padova. «È vero che molte imprese mi hanno chiamato, quasi disperate, per aver segnalazioni di bravi neolaureati o dottorandi disponibili a seguire lavori di collegamenti ferroviari, strade e sottopassi, a Verona, Padova, Vicenza, Cagliari. Ma dopo il 2026, concluso il Piano, credo che ci sarà un contraccolpo. C’è da sperare dunque che l’edilizia vada a gonfie vele, perché è quella che muove davvero questo mercato».
Altro problema, come si accennava, è la mancanza di un albo professionale. L’archeologo subacqueo, per esempio, non ha un inquadramento legislativo. Eppure Teresa Saitta, di Catania, ha fatto parte di un team «che ha svolto indagini sottomarine dirette e ricognizioni strumentali a bordo di navi oceanografiche in progetti del Pnrr sulla transizione energetica effettuati da Terna». Una ricerca, la sua, che ha individuato - grazie all’utilizzo di Rov (sottomarini a comando remoto) - importanti «giacimenti archeologici in alto fondale» (1.500-1.600 metri di profondità), che potrebbero essere relitti di imbarcazioni antiche e moderne, o anche carichi di preziose anfore. Non avremo tutti Indiana Jones, ma la realtà di chi studia il passato è già entrata nel futuro.
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La Turchia ha annunciato l’intenzione di entrare nei «Brics», ristretto circolo di economie dei Paesi capitanato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Ma il suo ingresso potrebbe portare a nuove complessità.
La Turchia ha avviato il processo per l’adesione ai Brics (Brasile, Russia, India e Cina, Sud Africa), e si è premurata di farlo sapere a tutto il mondo. Ankara, abituata a giostrare su molti tavoli, intende aggiungere una nuova freccia al suo arco di strumenti negoziali. Ecco perché. Forte del suo acronimo di notevole richiamo coniato agli inizi di questo secolo da Jim O’Neill di Goldman Sachs, i Brics hanno alimentato copiosa letteratura e fornito argomenti di conversazione a numerosi esperti di economia dello sviluppo, anche in Italia. Meno noto è che, nel 2015, fu proprio Goldman Sachs a chiudere per rendimenti troppo bassi il proprio fondo dedicato ai Brics, che all’epoca non includevano ancora il Sudafrica. La sigla di questo gruppo non designa solo i fondatori del club (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) ma quello che oggi è comunemente considerato il ritrovo del «Sud del mondo».
La mossa di Ankara arriva prima del vertice Brics che avrà luogo in Russia alla fine di ottobre, e impone una riflessione su cosa siano oggi. In una fase dinamica a blocchi - capitalismo democratico contro capitalismo autoritario, come dice il politologo israeliano Azar Gat - molti membri dei Brics si mettono alla finestra per essere corteggiati. I sauditi, per esempio, vogliono il nucleare. Dicono civile, ma arrivare al militare è un attimo. Nemmeno disdegnerebbero, i sauditi, un invito ad aderire al Gcap, la piattaforma aerea di sesta generazione con un vasto sistema informativo integrato con sistemi armi robotizzate, che al momento è un ménage à trois tra inglesi, giapponesi e italiani. Ebbene: stare nei Brics, sebbene al prezzo di una difficile coabitazione con l’Iran, dà ai sauditi maggiore potere negoziale rispetto a queste richieste.
Spesso considerati come un gruppo coeso in grado di rappresentare un contrappeso alle potenze occidentali, i Brics si sono sempre caratterizzati per profonde tensioni e contraddizioni che ne hanno compromesso il potenziale. Uno dei principali fattori di divisione al loro interno rimane la disparità economica tra i membri. La Cina, con un Pil che supera quello degli altri membri combinati, è di gran lunga il membro più potente del gruppo. Questo dominio economico della Cina ha causato tensioni tra i membri. Gli stessi Brasile, Russia e Sudafrica, grossi beneficiari di investimenti cinesi, non possono accettare ruoli marginali.
Anche se la Russia ha cercato di rafforzare i suoi legami economici con la Cina, questa dipendenza dalla Cina ha messo in evidenza un ulteriore squilibrio all’interno dei Brics. Mosca ha visto ridursi le sue opzioni economiche e politiche a causa della sua progressiva esclusione dall’economia globale, rendendo ancora più difficile per il Paese esercitare una leadership significativa all’interno del gruppo. L’India rappresenta un caso forse unico all’interno dei Brics. Sebbene sia una delle economie in più rapida crescita al mondo, con un mercato interno vasto e dinamico, Nuova Delhi si trova in una posizione geopolitica complessa. Da un lato, vuole mantenere buone relazioni con i Brics e continuare a beneficiare delle opportunità economiche offerte dal gruppo. Dall’altro, è consapevole della crescente rivalità con la Cina, che ha portato a scontri militari lungo il confine himalayano e a tensioni diplomatiche mai rientrate.
Questa rivalità ha spinto l’India a rafforzare i legami con l’Occidente, in particolare attraverso il Quad (l’alleanza che include anche Stati Uniti, Giappone e Australia), per contrastare l’influenza cinese nella regione. L’India si trova quindi a dover bilanciare la sua partecipazione con la necessità di mantenere una posizione strategica di indipendenza dalla Cina, rendendo la cooperazione all’interno del gruppo ancora più difficile.
L’interesse della Turchia di unirsi ai Paesi Brics costituisce un ulteriore elemento di complessità per un’organizzazione già fragile. La sua politica estera, ovvero quella che prende impulso dalla guida del presidente Recep Tayyip Erdogan, si è infatti caratterizzata per il continuo pendolare tra l’Occidente e nuove alleanze con potenze emergenti, tra cui Russia e Cina, entrambe presenti all’interno della compagine dei Brics. A conti fatti, per ora lo status di membro di questa alleanza appare un amplificatore di potenza condizionante, e dunque uno strumento negoziale più che una vera e propria organizzazione con un capo e una coda. n
* Esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar
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I prezzi degli immobili sono ormai fuori controllo, i senzatetto invadono le strade e la caccia a un appartamento è impossibile anche per gli studenti stranieri. Ma il governo non ha soluzioni immediate.
Case, disperatamente, cercansi. Non con la piscina riscaldata o altre amenità. Semplicemente un tetto sulla testa che non sia transitorio, una stanza che non costi un occhio della testa, un posto degno di venir chiamato home. Mai nella sua storia il Regno Unito ha vissuto una crisi abitativa come quella attuale. Il numero dei senzatetto nel Paese ha raggiunto livelli record. Secondo le ultime stime (marzo 2024) del ministero per la Casa, le Comunità e le Autorità locali, solo in Inghilterra sono più di 300 mila le persone che non hanno una dimora fissa e la percentuale di popolazione che passa la notte all’addiaccio è cresciuta dall’1,978 del 2010 al 3,898 del 2024, un incremento del 120 per cento. Tutti calcoli al ribasso. Impossibile misurare esattamente un fenomeno che per definizione sfugge ai conteggi ufficiali, ma più ancora delle cifre parlano le cronache, le manifestazioni degli inquilini sfrattati e quelle degli studenti internazionali che sempre più spesso non riescono a permettersi un alloggio decente.
In agosto, un reportage della Bbc ha diffuso le immagini di una tendopoli sorta nel cuore di Londra: lungo Park Lane, nel lussuoso quartiere di Mayfair, tra Hyde Park e Marble Arch, sullo spazio erboso visibile dalle ville miliardarie di fronte. Quando i giornalisti della televisione sono andati a verificare che cosa succedeva hanno contato 24 tende con gente seduta ai tavolini, che si godeva i pochi sprazzi di sole di un’estate avara. Qualcuno preparava il tè sui fornelli a gas, qualcun altro giocava a carte. C’erano materassi e uno stendino da biancheria appoggiato in un angolo, taniche di acqua fresca per lavarsi conservate nei carrelli della spesa sottratti ai vicini supermercati, cibo per tutti preparato grazie alle donazioni della gente e delle associazioni.
Un campeggio «esclusivo», se si pensa che l’hotel Dorchester, letteralmente a due passi, offre camere da mille euro a notte. Subito dopo il reportage dei media, che ha fatto il giro del mondo, l’Authority per i Trasporti di Londra, incaricata di gestire l’area, ha dichiarato di non essere mai stata a conoscenza della sua esistenza comunicando di aver intrapreso le vie legali per farli sgomberare. Peccato che i primi video sul campo di Park Lane siano presenti su YouTube da almeno tre anni e, a quanto sembra, la tendopoli sia lì da almeno sette anni. Anche se venisse del tutto eliminata per la gioia delle concessionarie di auto di lusso che affollano la via, altre ne esistono già e nuove ne sorgeranno, nella capitale che ha il più alto numero di senzatetto di tutta l’Inghilterra sebbene il sindaco Sadiq Khan abbia fatto costruire, dal 2018 in poi, più del doppio delle abitazioni popolari di tutte le autorità locali messe insieme.
La maggior parte degli occupanti vengono dall’Europa dell’Est, ma non solo e spesso non si tratta di gente abituata a dormire sotto le stelle. Il mondo degli homeless è molto più diversificato di quanto poteva essere alla fine degli anni Novanta, quanto Tony Blair riuscì a ridurre significativamente il problema. Matt Donnie, direttore esecutivo dell’associazione Crisis, fotografa una realtà in cui il 55 per cento di chi dorme per strada non è del Regno Unito, a differenza di trent’anni fa, quando la maggioranza dei senzatetto era inglese o irlandese. «Molti di loro» ha spiegato «sono migranti, schiavi moderni ostaggio dei loro stessi compatrioti, ma anche immigrati che hanno il diritto di rimanere nel Paese ma non sanno dove andare a vivere». La figura del «barbone» di una volta è praticamente in estinzione rispetto al crescente fenomeno di un’umanità vagante, accentuatosi negli anni della pandemia.
Ne fanno parte, seppur in numero minore, persino gli studenti internazionali, venuti a studiare nelle università britanniche prima e dopo il Covid. Nel periodo del lockdown, quando il governo conservatore di Boris Johnson fu costretto a blindare il Paese per uscire da una situazione ormai insostenibile, gli atenei chiusero i battenti e, mentre gli studenti britannici poterono tornare a casa, molti europei, tra cui gli italiani, rimasero senza un tetto sulla testa. Non riuscivano a tornare in Italia, ma non potevano neppure permettersi gli affitti costosissimi di una stanza londinese. E chi non aveva genitori in grado di supportarli finanziariamente finì a vivere sotto una tenda a Trafalgar Square. Una situazione, quella studentesca, che non è migliorata. Gli affitti nella capitale, ma anche in molte cittadine universitarie ormai incapaci di accogliere il numero sempre crescente di studenti internazionali - dopo la Brexit molti atenei alla disperata ricerca di fondi hanno incrementato il numero delle ammissioni - sono saliti alle stelle. A questo, molto spesso si aggiunge la ritrosia dei proprietari di case ad affittare a studenti. E anche quando intendono farlo, magari sono gli stessi regolamenti condominiali a imporre il divieto di accettare i giovani. I quali, come conseguenza, spesso si ritrovano a condividere con i compagni di corso veri e propri tuguri, concessi a prezzi esorbitanti in quartieri come minimo periferici.
La crisi abitativa britannica attuale ha infinite sfumature perché il significato di «senzatetto» si è fatto via via più ampio, dando vita a un vero «scandalo nazionale», come l’ha definito la vice premier laburista Angela Rayner. Sono anni che le associazioni che si occupano del problema come Shelters, o Crisis - tanto per nominarne un paio, ma ce ne sono innumerevoli nel Paese - sostengono che la situazione è ormai fuori controllo. Ancora il ministero per la Casa, le Comunità e le Autorità locali dice che in Inghilterra 117.450 famiglie vivono a spese dei Comuni in case «temporanee» come bed&breakfast e abitazioni private, e con loro più di 150 mila minori. Più di 3.200 bambini, già traumatizzati, rimangono in questi alloggi molto di più del limite legale di sei mesi previsto: lontani da casa, dalla scuola, dai parenti prossimi. Tra i senza casa c’è di tutto: disagiati mentali senza supporto medico né familiare, donne in fuga da mariti violenti, detenuti rilasciati dal carcere che non sanno dove tornare, semplici disoccupati che dopo il lavoro hanno perso la casa. Il governo Starmer ha promesso un sostanzioso pacchetto di riforme per «rimettere in carreggiata la Gran Bretagna», riducendo le dimensioni del problema, ma, denuncia la presidente di Shelters, Polly Neat, proprio quella più importante, la cancellazione dell’articolo 21 che consente lo sfratto senza giusta causa entro due mesi, giace immobile in Parlamento sotto la pressione delle lobby dei proprietari di immobili. «Abbiamo bisogno dell’aiuto governativo per uscirne» ha dichiarato Neate. Perché il pacchetto d’interventi per risolvere la crisi esiste, ma è a lungo termine e al momento non si sa quando verrà avviato concretamente. I senzatetto invece, sono qui e ora e non faranno che aumentare.
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Chi può lascia la metropoli asiatica, oggi del tutto in mano cinese. Un esodo silenzioso che abbatte i prezzi delle case e i corsi azionari in Borsa. Tanto che le ambasciate, senza business, chiudono. Così muore una grande città.
La città che non dorme mai è entrata in coma farmacologico, sedata dal Grande Anestesista della democrazia asiatica, il presidente cinese Xi Jinping. Hong Kong non è più la vitale capitale del divertimento e della finanza d’Oriente, restituita nel 1997 dalla Gran Bretagna al regime comunista di Pechino dietro la promessa di rispettarne, per cinquant’anni, indipendenza, istituzioni e democrazia, secondo la formula: «Un Paese, due sistemi». Oggi è una città cinese come tutte le altre tanto da convincere il Financial Times a titolare un recente reportage: Hong Kong è finita.
In Patria però è vietato parlare di crisi: il giornalismo è stato preso in ostaggio e costretto a trasformarsi in pubblicità a favore dei padroni delle ferriere che abitano sotto la Grande Muraglia. Non ci sono spazi di manovra tanto meno compromessi: chi dissente, va in galera. Com’è capitato a due redattori della rivista Stand News, attualmente chiusa, arrestati nel dicembre 2021 e condannati a inizio settembre: Chung Pui-kuen e Patrick Lam sono stati ritenuti colpevoli di cospirazione e sedizione per aver apertamente criticato il governo locale (espressione diretta, ovviamente, del Celeste Impero) mettendo a repentaglio l’ordine pubblico. Quasi in contemporanea, tre dozzine di reporter non allineati sono stati minacciati con lettere, mail e comunicazioni social per i loro articoli. Un bombardamento che, nelle ultime settimane, si è esteso addirittura ai loro familiari come forma estrema di pressione per convincere i giornalisti ad abbandonare la posizione anti-Pechino. Il gigante del web, Wikipedia, è stato costretto a bannare, a livello mondiale, fatto più unico che raro, un profilo troll che, modificando le pagine dell’enciclopedia online, intimidiva e lanciava «pizzini» ostili nei confronti dei reporter sgraditi fino ad augurarne il licenziamento o addirittura la morte. Non è un caso, dunque, che Hong Kong sia precipitata dalla diciottesima alla centotrentacinquesima posizione nella classifica sulla libertà di stampa nel giro di appena vent’anni. Gli stessi vent’anni che sono serviti al Grande Timoniere cinese per piegare la resistenza dell’ex colonia con leggi liberticide sulla sicurezza, l’educazione patriottica e le elezioni: oltre ai giornali, è stato sciolto addirittura un partito – Demosisto – che coltivava la velleità di poter fare opposizione sul modello occidentale. È stata poi creata una specifica commissione per valutare l’idoneità e i valori patriottici di ogni candidato alle elezioni. Una radiografia che certamente non facilita il pluralismo e la difesa dei principi della rappresentatività.
Nel febbraio 2023 è iniziato il processo a 47 attivisti accusati di sovversione: tra loro ci sono politici, ex parlamentari e intellettuali. A giudicarli sarà un tribunale speciale: la giuria è stata abolita e i giudici sono stati scelti dal governatore John Lee, gradito alla Cina. Già 31 imputati si sono dichiarati colpevoli pur di ottenere uno sconto di pena mentre, dei restanti 16, due sono stati miracolosamente assolti e gli altri 14 rischiano l’ergastolo. Il carcere a vita per un’opinione trattata alla stregua di un tentativo di rivoluzione. Quelli che hanno la possibilità (e i soldi), scappano senza pensarci due volte. Nel 2022 oltre 60 mila cittadini sono andati in cerca di condizioni meno afflittive di vita. Un esodo come mai era accaduto nell’ultimo trentennio.
Nel giro di un lustro, sono stati quasi 150 mila gli honkonghesi che hanno abbandonato casa e lavoro per approdare verso altri lidi, sostituiti da flussi migratori di cinesi provenienti dal continente che ne hanno preso il posto. L’economia non va meglio: la Borsa segna continui record negativi e le multinazionali straniere stanno traslocando dopo le abbuffate del secolo scorso.
Il mercato immobiliare sta precipitando: si moltiplicano di giorno in giorno le svendite di appartamenti e uffici che fino a qualche tempo fa erano quasi inaccessibili per i prezzi alla quasi totalità della popolazione. Interi edifici sono desolatamente vuoti mentre le associazioni di inquilini protestano per gli affitti che, invece, non smettono di crescere nell’indifferenza della politica che non vuole mettersi contro i ricchi e influenti imprenditori del settore. Ce ne sarebbe, insomma, per provare a dimenticare tutti questi guai con un bicchierino, ma pure una pinta di birra o un calice di vino son diventati dei miraggi a queste latitudini. La stessa industria del by night sta subendo colpi pesantissimi: sono lontani i tempi dei rave e delle feste che duravano giorni interi e dei locali affollati a ogni ora della notte.
Si è rivelata una bugia la promessa che l’allora leader cinese Deng Xiaoping, al momento del passaggio di consegne tra Londra e Pechino, fece ai cittadini di Hong Kong per rassicuararli che nulla sarebbe cambiato sotto il nuovo padrone: «I cavalli continueranno a correre, le azioni continueranno a sfrigolare e i ballerini continueranno a ballare». Nei primi sei mesi del 2023, i bar hanno incassato il 18 per cento in meno rispetto al 2019 (89 milioni contro 108,5) a dimostrazione che il motto: «Tutto è concesso» ormai non vale più.
Hong Kong ha perso il tocco magico se addirittura rischiano di chiudere per mancanza d’affari le tre «ambasciate» in terra americana: a Washington, New York e San Francisco. Né sembra baciata dal successo l’iniziativa di trasformare la regione in un hub globale per le criptovalute: finora ci sono solo due piattaforme autorizzate. Troppo poco per tentare di lanciare l’assalto a un mercato mondiale in continua evoluzione. Con l’economia legale che arretra, quella malavitosa si fa baldanzosamente avanti: aumentano i reati finanziari e predatori. Poche settimane fa, la polizia ha sequestrato il più grande quantitativo di metanfetamina mai transitato per il territorio di Hong Kong: un «tesoro» da 25 milioni di euro che sarebbe andato ad arricchire la Triade cinese. Triste è il destino di quel Paese che teme la libertà più del crimine. n
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