Proteste contro il carcere duro 41 bis Alfredo Cospito
(Ansa)
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«In certi casi il 41bis è necessario»

Per Angela Della Bella, giurista della Università Statale di Milano: «Per situazioni gravi, il carcere duro rimane uno strumento utile»

Mentre infuria il dibattito sull’applicazione dell’articolo 41 bis al caso di Alfredo Cospito -detenuto per reati di associazione terroristica- la giurista della Statale di Milano invita alla riflessione: «non è questione di schiararsi a favore o contro il carcere duro, quanto di riconoscere che in alcuni casi è uno strumento che rimane necessario per contrastare la pericolosità di determinati detenuti, ma che deve essere reso compatibile con i principi costituzionali e sovranazionali che caratterizzano uno Stato di diritto».

Panorama.it ha posto alcune domande alla professoressa Angela Della Bella studiosa dell’argomento e autrice per la Giuffrè di un’analisi della disciplina.

Professoressa sarebbe il caso di chiarire i contorni della materia.

«Le origini dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario risalgono agli anni della ‘strategia stragista’ di Cosa Nostra, allorquando lo Stato italiano si vide costretto a fronteggiare l’allarmante moltiplicarsi di eventi criminosi contro magistrati e uomini delle istituzioni con strumenti all’altezza dell’emergenza: si trattò cioè di impedire che, dal carcere, i boss mafiosi – in virtù dei collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza – potessero continuare a progettare ed ordinare gravi delitti».

Uno strumento carcerario del tutto innovativo, ci pare.

«La normativa fu pensata per interrompere ogni forma di collegamento tra il carcere e il mondo esterno, in considerazione della particolare pericolosità dei boss e dei loro gregari. Pericolosità non astratta, ma accertata in concreto in considerazione dell’attualità dei collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza».

A proposito del contenuto normativo...

«Tradizionalmente definita come “carcere duro”, la disciplina rispondeva alla necessità di impermeabilizzare il detenuto per gravi fatti di mafia all’interno dell’istituto detentivo, in una logica antitetica a quella propria dell’ordinamento penitenziario. Se, infatti, l’ordinamento penitenziario – nel disegno della legge 354/1975 che lo regola – è teso a realizzare una progressiva risocializzazione del detenuto, il regime detentivo speciale disciplinato dall’art. 41 bis mira ad impedire per quanto possibile i contatti del detenuto con gli altri detenuti e con l’esterno. E questo obiettivo si realizza di fatto ‘isolandolo’ all’interno del carcere».


Ci interessano i profili applicativi…

«Molto duri, ovviamente, a partire dall’isolamento nei confronti degli altri detenuti. Il sottoposto al 41 bis è collocato all’interno di una camera di pernottamento singola. Ha diritto soltanto a due ore d’aria quotidiane, durante le quali può incontrare un numero molto limitato di detenuti; la sorveglianza costante è assicurata da un reparto speciale della Polizia penitenziaria che continua a ruotare».

Lei ha parlato di impermeabilizzazione del detenuto…

«Per quanto riguarda i rapporti con l’esterno, ovviamente: i colloqui con i familiari sono di un’ora al mese senza contatto fisico grazie ad un vetro a tutta altezza. Il colloquio fisico può essere sostituito, autorizzato dal direttore, da uno telefonico di dieci minuti, mensile, con i familiari, mentre non vi sono limitazioni per i colloqui con i difensori. La posta in uscita e in entrata è severamente controllata, come tutto il materiale autorizzato nelle camere di pernottamento ricevuto dall'esterno».

La interrompiamo: come conciliare rieducazione della pena e carcere duro?

«Certamente questo è un profilo estremamente critico. Bisogna da un lato considerare che l’obiettivo del finalismo rieducativo della pena, sancito dall’art. 27 co. 3 della Costituzione, presuppone un atteggiamento di adesione del condannato ad un progetto rieducativo: un atteggiamento che non si ritrova in chi mantiene un’attualità di collegamenti con la associazione criminale di appartenenza. Dall’altro lato, tuttavia, quello della rieducazione è un principio costituzionale che deve essere rispettato anche nei confronti dei detenuti più pericolosi.

Professoressa, ci perdoni: anche innanzi ad un boss lo Stato come dovrà comportarsi?

«Lo Stato ha, in ogni caso, l’obbligo di tenere aperta l’offerta rieducativa anche nei confronti di condannati che siano sottoposti al regime del carcere duro: questo perché il principio della rieducazione della pena ha rango costituzionale, e come tale non potrà non riguardare anche i boss della mafia che un giorno dovessero manifestare di aver reciso i legami con il clan di appartenenza. In casi del genere, ovviamente, si apriranno tutta una serie di procedure dirette ad accertare la reale rottura dei legami associativi».

Insomma, il carcere duro come istituto ai limiti dell’ordinamento penitenziario?

«Si, come un istituto che è legittimo nella misura in cui le esigenze di prevenzione daun lato e la necessità di rispettare i principi fondamentali riescono a trovare un giustocontemperamento. In questo senso, è un istituto da usare con estrema parsimonia, solo laddove vi sia una reale ed attuale pericolosità del detenuto».

La cui fisionomia sia sempre coerente con la Costituzione…

«Il 41 bis dovrà essere alleggerito anche da tutti quei contenuti che sono puramente afflittivi, mantenendo solamente quelle restrizioni che siano funzionali ad evitare i collegamenti del detenuto con l’esterno. In questo senso, la Corte costituzionale è intervenuta in più occasioni per eliminare quei divieti che avevano un solo scopo punitivo, ma non una reale funzione di prevenzione: si pensi, per fare un esempio, alla sentenza con cui nel 2018 la Corte ha dichiarato illegittimo il divieto per il detenuto di 41 bis di cuocere cibi all’interno della cella, ritenendo che questo divieto nulla avesse a che fare con gli scopi del regime detentivo speciale».

Intanto il tema è ritornato alla ribalta…

«La discussione si è inasprita non tanto per quanto riguarda l’applicazione ordinaria della normativa quanto per l’ipotesi in cui il detenuto versi in particolari condizioni di salute, al punto che il Cospito è stato trasferito dal carcere di Bancali, a Sassari, a quello di Opera, a Milano, al cui interno è presente una struttura medica specialistica.Il tema è, evidentemente, quello della compatibilità di un regime carcerario duro con le condizioni di salute del detenuto».

La vicenda è interessante dal punto di vista giuridico.«Il difensore ha prodotto reclamo al Tribunale di sorveglianza di Roma control’applicazione del 41bis per il suo assistito (rigettato), a cui ha fatto seguito il ricorsoin Cassazione sul presupposto applicativo. Teniamo a mente che il Cospito risponde di uno dei reati previsto dall’art. 4 bis della normativa (cioè associazione a fini terroristici) e spetterà alla Cassazione, dunque, verificare l’applicabilità nel caso di specie».

Rimane la compatibilità tra carcere duro e condizioni di salute…

«E’ il profilo centrale ed estremamente delicato della disciplina. Il nostroordinamento, infatti, impone allo Stato di tutelare la salute del detenuto all’internodell’istituto penitenziario e vieta la detenzione laddove sia incompatibile con lecondizioni di salute. Con riferimento al 41 bis, erano salite alla ribalta della cronaca le vicende di Bernardo Provenzano e Salvatore Riina».

Nel primo caso la vicenda giudiziaria si trascinò per anni…

«La Cassazione aveva sancito, nell’estate del 2015, la compatibilità del regime carcerario speciale nonostante un aggravamento delle sue condizioni che lo avrebbero condotto alla morte il 13 luglio del 2016 nell’Ospedale S. Paolo di Milano: e due anni dopo la Corte europea dei diritti umani avrebbe condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione che sanziona il trattamento sanitario disumano del detenuto, ormai ridotto all’incoscienza».

In astratto, anche Messina Denaro potrebbe aprire scenari di questo tenore!

«Certo, ed è anche per quest’evenienza che attualmente si trova nel carceredell’Aquila ove opera una struttura medica altamente specializzata anche per lapatologia tumorale da cui l’ex boss è affetto. Anche nel caso di Cospito si è optato per il trasferimento in un centro attrezzato, proprio in considerazione dell’aggravamento delle sue condizioni di salute».

Quindi?

«Fintanto che lo Stato riesca a garantire cure adeguate ai detenuti, anche attraverso la collocazione in strutture penitenziarie attrezzate dal punto di vista medico (come nel caso di Messina Denaro e Cospito), la prosecuzione della detenzione è legittima. La Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, infatti, fondano in capo allo Stato il dovere di apprestare al detenuto cure mediche e di adattare le condizioni di detenzione allo stato di salute del soggetto che vi è ristretto».

Costituzione e Cedu garanti assolute…

«Dalla Carta costituzionale e dalla Cedu deriva pure il dovere dello Stato disospendere l’esecuzione della pena in forma intramuraria, laddove le condizioni disalute dovessero rivelarsi incompatibili con lo stato detentivo».

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Egidio Lorito