Le guerre di religione, pur cruente, sono nulla rispetto a quelle disputate intorno al panino. Qual è il migliore? Quale non risente delle mode ma punta soltanto sulla qualità? Ahimè, ci mettiamo in un bel ginepraio, a scriverne. Intanto, restringiamo il campo. Ci interessa il panino italiano, non le millanta declinazioni degli hamburger commerciali, che hanno invaso da tempo l’Italia, fin dal primo Burghy a Milano, nel 1981. Quando non a caso impazzavano i paninari, cui si ispirarono moda, televisione, cinema, costume.
Due anni prima, nel 1979, era nato Panino Giusto, in uno stretto locale di corso Garibaldi, sempre a Milano. Fu una rivoluzione: panini veramente imbottiti, succulenti come mai era successo. Quel format si è sviluppato in una catena presente in tutta Italia, su cui più avanti torneremo. Non prima di invitarvi a leggere un libro appena uscito, Storia del panino italiano, di Alberto Capatti (Slow Food, 140 pagine, 16,50 euro). Parte da un tozzo di pane e cipolla, ancora in auge nell’Italia delle migrazioni interne, nel dopoguerra. Capatti, storico e antropologo, rintraccia gli esordi del panino nelle abitudini popolari e nei prestiti dall’anglosfera, quali il sandwich; o nei «quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra», opera della Fata Turchina, in un capitolo del best seller Pinocchio. Negli anni Trenta il sandwich venne ribattezzato dai futuristi «traidue» (nome ripreso dallo chef Claudio Sadler per una ricetta destinata a Panino Giusto), poi «tramezzino» da Gabriele d’Annunzio, termine tuttora in uso.
Di panino in panino, Capatti imbottisce le pagine di gustose osservazioni, passando dai mercati fiorentini (pane gravido, dicono in Toscana, di lampredotto) a Palermo (pani ca’ meusa, con la milza), dalla michetta e mortadella dei muratori lombardi a quella con la frittata o il salame per le gite dei bambini. La storia del panino proletario, scrive lo studioso, è lunga quanto la fame che tormentò per decenni l’Italia unita. Ma ora il panino italiano è tutt’altro. Oltre a essere difeso nella sua autenticità da un’Accademia, con sede a Milano, significa gioia del palato, golosità da mordere in compagnia, ricerca gastronomica, cibo di strada ma chic, bizzarrie sul web, lunghe code di studenti e turisti.
Il panino Made in Italy si è fatto conoscere nel mondo. A Londra uno costa addirittura 250 sterline: è «Il Miliardario», proposto dal giovane chef ferrarese Andrea Zagatti, che ha lavorato per Massimo Bottura e Gordon Ramsay. È avvolto in una foglia d’oro (commestibile) e viene consegnato a domicilio non da sfruttati ragazzi in bicicletta, ma da un autista con guanti bianchi e Mercedes. Chapeau! Più vivace l’atmosfera nei locali «Con Mollica o Senza», panini inventati dal napoletano Donato De Caprio, salumiere tiktoker con tre milioni di seguaci in Rete. Si è fatto da solo: lavorava come banconista al mercato, poi si è messo in proprio, forte della domanda urlata a squarciagola e diventata brand: «lo vuoi con mollica o senza?». Suo socio, anzi di più visto che lo ha spinto all’avventura, è il giovane imprenditore (discoteche et similia) Steven Basalari. Napoli, Roma, Milano: i panini di Donato creano code da concerto rock. Se passate da Milano, andate in piazza Diaz e mettetevi in paziente attesa. Il premio, con 10 euro, saranno Pino Daniele (crudo, tarallo sbriciolato, stracciatella di bufala), Vesuvio Erutta (capocollo e pomodori secchi), Maradona (porchetta e burrata) e altri panini di stampo partenopeo.



C’è invece lo spirito della Firenze più pop nei locali «Antico Vinaio», format messo a punto da Tommaso Mazzanti (anch’egli potentissimo su TikTok), con il grido di battaglia «bada come la fuma!» (la schiacciata, focaccia farcita in modo esorbitante di salumi e formaggi). In oltre 20 locali – da Firenze a New York e Los Angeles, passando per Milano, Torino, Roma, Bergamo, Forte dei Marmi -, la fuma che è una meraviglia, farcita di finocchiona, lardo, mortadella, crema di tartufo, pecorino, melanzane piccanti e chi più ne chiede più ne ha. Anche qui code «da paura» e prezzi abbordabili. Ma per i turisti che si avventurano in auto nel Belpaese, l’Italia resta il regno del panino Camogli: focaccia all’olio, prosciutto cotto, Emmental. Chi non lo ha mai mangiato (borbottando per il costo) durante una sosta in Autogrill?
Torniamo al brand pioniere dei panini di qualità: Panino Giusto, 27 locali in Italia, dal 2010 proprietà di Antonio Civita (anche ceo) con la moglie Elena Riva. I clienti continuano a ordinare i panini-bandiera: Diplomatico, Prosciutto di Praga, Giusto e quelli semplici, con abbondante affettato. Panino Giusto è dal 2020 la prima «B Corp» della ristorazione italiana, certificata per l’impegno nella sostenibilità e responsabilità sociale. Milano è la nostra Londra tascabile, dove tutto succede prima. Così nella pulsante Chinatown meneghina ha aperto da poco La Cristalleria, format ideato da Andrea Cantisani, patron a Magenta del ristorante L’Incontro. Nell’insegna, senza finta modestia, una scritta orgogliosa: «Il panino più buono del mondo». Le classifiche sono sempre ingannevoli, ma qui – rubiamo l’espressione all’immaginifico Cruciani – siamo al top. A partire dal pane, il «pan de cristal» catalano, introvabile in Italia (viene prodotto a Barcellona e finito di cuocere a Milano), sottile e croccante, perfetto per avvolgere patanegra Joselito, pastrami di manzo, acciuga San Filippo, coscia d’anatra stufata, salmone selvaggio rosso e altre leccornie, anche vegetali. Prezzi adeguati, perché la qualità si paga.
Sicuri di aver fatto un torto a tanti bravi «paninai», per forza di spazio non citati, chiudiamo con la formula del panino perfetto. Che è la seguente: lo spessore della farcitura, equilibrata tra parti grasse e umide, dev’essere sempre almeno pari o maggiore delle due fette di pane. Ricordiamolo, quando in bar e chioschi ci propinano, i furfanti, due fette di prosciutto e un velo di formaggio rinsecchito, imprigionati in pane molliccio o bruciacchiato.