Si sono guadagnati l’immortalità combattendo senza paura, rischiando ogni volta di perdere la vita. Popolano ancora l’immaginario collettivo grazie a film, serie televisive e mostre che li celebrano. L’ultima, ospitata nei sotterranei del Colosseo, diventerà un libro ricco di aneddoti inaspettati. A raccontarli è Claudio Togna, grande conoscitore di storie e leggende romane.
Russell Crowe ha 59 anni suonati e decisamente non più il physique du rôle, ma sarà per sempre l’indomito ruggente Massimo Decimo Meridio, per tutti soltanto «Il gladiatore» dell’omonimo film. Kirk Douglas è una delle stelle più luminose della storia del cinema, ma in Spartacus, diretto da quel gigante di Stanley Kubrick, ha brillato ancora di più. E ha lasciato una scia: il kolossal degli anni Sessanta ha ispirato una serie televisiva dal seguito nutrito e le recensioni entusiastiche. Sottotitolo: Sabbia e sangue. Ed era subito aria d’arena.
Al centro, sul piccolo come sul grande schermo, c’è lo stesso universo con i suoi straordinari personaggi: i gladiatori. Figure mitiche, non mitologiche, capaci di diventare immortali sfidando la morte, accettando il destino più crudele: «L’eroe dura attraverso la gloria. La morte eroica, cioè la morte violenta, risulta creatrice: continua la vita, anzi l’accresce, mentre una morte naturale non fa altro che concludere ciò che era già consumato» racconta con precisione e passione Claudio Togna, notaio, giornalista, esperto di storia e storie romane. Fa parte del consiglio di amministrazione del Parco archeologico del Colosseo, dove si è appena conclusa una mostra che ha ospitato elmi, armature, scudi e altre tracce ricche di memorie di questi combattenti davanti a un pubblico esultante. L’evento è stato un successo, si lascia dietro un’installazione multimediale permanente, diventerà un libro con il contributo dello stesso Togna. È chiaro che l’interesse attorno all’epopea dei gladiatori non si spegne, trova vigore inedito in riferimenti e rimandi nella cultura pop: «È merito dell’archetipo del duello, che fu l’elemento fondante del ciclo dei cavalieri della tavola rotonda, dei grandi poemi rinascimentali, delle saghe di Tolkien fino a Guerre Stellari. I gladiatori avevano anticipato tutto».
L’hanno fatto con un’etica portata all’esasperazione: «Nel loro tirocinio venivano educati all’accettazione della sconfitta, all’impassibilità di fronte alla morte. Se necessario, dovevano facilitare il compito di ucciderli a chi li aveva appena battuti». Tanto rischio era ben remunerato: si guadagnavano il fulgore di divinità terrene, erano una sorta di calciatori e divi di Hollywood ante-litteram, il mezzo per soddisfare «la passione popolare e viscerale di Roma per i giochi», in un’era in cui non esistevano Netflix né lo scrollare inebetito sui social network. Togna è andato oltre l’ovvio, oltre il patrimonio di deferenza riservato a queste figure. Ne ha indagato lo status giuridico, scoprendone il lato oscuro, l’altro risvolto della medaglia. Potevano sì prestare la loro opera a pagamento, come i Ronaldo o i Djokovic dell’epoca, oppure dovevano assoggettarsi a un impresario, il cosiddetto lanista, pronunciando una tremenda formula solenne: «Giuro di sopportare di essere bruciato, legato, frustato con le verghe e ucciso con la spada e qualsiasi altra cosa ordinerai, anche contro la mia volontà». Era il caso degli «auctorati», i vincolati a vita o a termine. S’infliggevano tale esagerazione perché non riuscivano a garantirsi la stessa autonomia nella preparazione e nella gestione professionale degli uomini liberi. Quasi s’incatenavano alla dura disciplina di una scuola, in cambio della promessa di denaro e onori. A patto, certo, di riuscire a conquistarseli.
«Per superare situazioni d’indigenza o difficoltà, affrontavano rischi che potevano essere fatali. In compenso, entravano in una famiglia, in un circuito di protezione e colleganza» commenta il notaio, che giustifica tale istituto oltremodo assurdo per la nostra sensibilità (il totale, volontario asservimento di un uomo a un altro) con la mentalità tipica romana: «Un mondo che distingueva tra liberi e schiavi. La schiavitù non era razzismo, ma rappresentava un fatto economico. Ricordo che ci si poteva assoggettare a un’altra persona anche per pagare i propri debiti. Lo schiavo rimane una macchina umana, una cosa, una merce». I gladiatori erano dunque sospesi tra gloria e infamia, quest’ultima nel senso di una capacità giuridica azzoppata, diminuita. Eppure, erano una categoria a cui si permettevano insospettabili slanci d’uguaglianza: a combattere, con le stesse regole dei loro colleghi maschi, c’erano le donne. Specie in età imperiale, quando si affermò il gusto dell’esotismo, dell’eccezionale, del mai visto prima: «Il pubblico» ricorda Togna «le considerava uno spettacolo inedito, dato non poco rilevante agli occhi dell’imperatore». L’effetto, a ripensarci oggi, è stato dirompente: «Possiamo considerare l’arena il primo esempio di parità di genere».
Né si possono raccontare i gladiatori isolandoli dal luogo dei combattimenti, dove avveniva un curioso ribaltamento, l’ennesima bizzarria: «L’arena era l’elemento di rottura per eccellenza. Chi aveva il potere, sedeva in basso; chi occupava il posto più infimo nella scala sociale, gli schiavi, per una volta stava in alto». Il Colosseo era l’apoteosi, il punto estremo di tale dicotomia: «Fu concepito, realizzato e utilizzato» osserva Togna «come il più grande mattatoio di uomini dell’antichità. Ma con la sua aura sublime di testimonianza storica, finisce per condividere la stessa dialettica dei suoi protagonisti per eccellenza: i gladiatori». Anche nel Colosseo, in sintesi, convivono fama e infamia: «In quell’aura monumentale risulta oggettivizzato il più drammatico e totale assoggettamento di un essere umano a un altro essere umano». Ricordarlo oggi restituisce al passato un ruolo quasi urgente, un compito di grande attualità: «Parlare dei gladiatori e del luogo in cui essi morirono significa ammonire affinché tale asservimento, sia pur in altre forme, non si ripeta mai più».