Da spontanee manifestazioni in sostegno dei diritti gay, a «industria» macina-soldi. Tra sponsorizzazioni, oboli e marketing, organizzare gli eventi arcobaleno è diventato molto conveniente e attira sempre più aziende. Ma qualcuno inizia a obiettare: che «libertà» è se dipende dal portafogli…
Rimini, 8 agosto 2023. Manca solo qualche giorno. Anche nella capitale tricolore del divertimento estivo sfilerà la parata arcobaleno. L’hanno chiamato Summer Pride. Ed è «il più romantico d’Italia, al tramonto sul lungomare». Inizialmente i cortei dell’orgoglio omosessuale erano organizzati a giugno, mese dei moti di Stonewall, solo nelle più importanti città italiane. Adesso si contano più di 50 pride all’anno, da Bolzano a Favignana. Due mesi fa, assicurano gli organizzatori, a Roma c’erano un milione di persone. A Milano, oltre trecentomila.
Non si sono moltiplicati solo eventi e partecipanti. Le marce, insinuano intransigenti organizzatori di cortei antagonisti, avrebbero venduto l’anima al diavolo. Ovvero ai generosissimi sponsor, che versano cifre ragguardevoli, in cambio di ottima pubblicità progressista, più che mai utile ai fatturati. E magari, in qualche caso, pure di una risciacquatina alla reputazione societaria.
Gli sdegnati nostalgici delle origini lo chiamano «rainbow washing». Alcune multinazionali si costruirebbero così una tartufesca immagine fluida, senza però far nulla per diritti e inclusione. O addirittura calpestando, aumma aumma, imprescindibili valori. Tra i variopinti slogan spuntano allora loghi aziendali e carri pubblicitari. Il più orientato al business, ovviamente, è il Milano Pride, celebrato lo scorso giugno nella capitale italiana dei danè. Dunque, robusti assegni e indefessa vicinanza. Talvolta da parte di società non proprio celebri per la tutela di deboli e vessati.
Chi pensava di allestire un carro con gli amici per rivendicare nobili urgenze sarà rimasto deluso. Il sito della parata meneghina sembra più agguerrito di un e-commerce. A ingenui e ruspanti viene chiarito subito chi comanda: il Dio danaro. Quindi, si legge: «La partecipazione con un veicolo è necessariamente legata a una forma di sponsorizzazione». Non una qualunque, tra l’altro. Solo chi sgancia di più sarà ammesso nel gaio olimpo: quello che concede il diritto al mega carro super brandizzato. I plebei arcobaleno, invece, si sono dovuti accontentare di procedere a piedi. Gambe in spalla e pedalare sotto il sole. Modalità di partecipazione che, misericordiosamente, «è sempre gratuita e può essere organizzata in autonomia».
A differenza dei politici, ovviamente. Ogni partito di centro sinistra, oltre all’immancabile Cgil, aveva un suo carro: Cinque stelle, +Europa, Sinistra italiana. E Pd, come no: in primissima linea con la segretaria Elly Schlein, «bisessuale, femminista e progressista». Non a caso, durante la manifestazione, abbondavano bambinesche arguzie e lunari dileggi contro il governo e la premier, Giorgia Meloni.
Ma quanto sborsano i sostenitori? Mistero. Non c’è nessun rendiconto. Tra chi paga, però, c’è chi sgancia di più. Sono i quattro, visibilissimi, «sponsor gold» dell’ultima edizione. La mitica Coca-Cola. Poi Deloitte: enorme società di servizi di consulenza e revisione. Segue Indeed: piattaforma di annunci di lavoro. Infine, PayPal: colosso dei pagamenti elettronici. I contributori «silver» sono invece una ventina: banche, assicurazioni, multinazionali. Insomma, aziende che in attigue manifestazioni radicali e antisistema verrebbero contestate. In maniera pretestuosa, probabilmente.
Un gradino sotto, nell’elencone degli «ambassador», c’è pure McKinsey & Company, che si occupa di consulenza globale. Tra i suoi clienti, in passato, ci sono stati capi di stato che non spiccano per la loro bendisposizione verso la causa: dal principe saudita Mohammed bin Salman al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. E se ci addentriamo nel settore alimentare le rimostranze, rilanciate spesso dalla sinistra militante, potrebbero moltiplicarsi nei confronti di alcuni «ambassador» del Milano Pride. Greenpeace ha contestato a Nestlé di aver usato fornitori di olio di palma distruggendo una foresta pluviale.
Simili gli addebiti per Mondelez, l’impero dello snack. Kraft Heinz, dice il Wall Street Journal, avrebbe chiuso gli occhi davanti alla repressione dei musulmani in Cina. Tutte esagerazioni, magari. Di cui però i massimalisti progressisti, gli stessi che si sgolano nei Pride contro i fascisti immaginari, amano abbeverarsi.
Indomiti fustigatori. Stile Schlein. Accanto alla segretaria, sul carro piddino che ha sfilato a Milano, c’era l’inseparabile Alessandro Zan: deputato dem, estensore dell’omonimo e sfortunato disegno di legge contro l’omotransfobia, nonché espertissimo di manifestazioni a tema. Lui è padovano. E nel capoluogo veneto, oltre alla parata tradizionale, ogni estate c’è il Pride village, il più grande festival LGBTQ+ italiano. Dura tre mesi: dal 9 giugno al 9 settembre. E anche quest’anno sarà organizzato nella fiera di Padova da Be Proud: una srl fondata nell’aprile 2015 proprio da Zan, allora onorevole al primo mandato.
Il vessillifero arcobaleno è amministratore unico «senza compenso». Detiene comunque il 52 per cento della società, attiva nell’«organizzazione di convegni e fiere». Modesto il capitale iniziale: 3 mila euro. Nel 2019 Be Proud vantava comunque un florido fatturato in crescita: un milione e 48 mila euro, con un piccolo utile. I bilanci successivi, come quelli di tutte le aziende di eventi, sono stati invece funestati dalla pandemia. Nel 2020 il fatturato scende a poco meno di 334 mila euro, con un perdita di quasi 120 mila euro. Fino ad arrivare ai 148 mila euro di ricavi nel 2021, compensati però da un sontuoso utile: 117.401 euro. Qual è l’arcano? Panorama ha compulsato l’ultimo bilancio. Quell’anno, dettaglia la nota integrativa, «la società attesta di aver beneficiato dei seguenti aiuti». Segue elenco, tra cui spiccano due contributi a fondo perduto del ministero del Turismo, erogati come «rimedio a un grave turbamento dell’economia». La pandemia, dunque. Il più cospicuo, concesso a dicembre 2021, ammonta a 118.444 euro. Il secondo, a settembre dello stesso anno, è di 47.468 euro. Totale: quasi 166 mila euro di aiuti pubblici.
Il bilancio 2022 non è ancora disponibile, ma il fatturato di Be Proud dovrebbe lievitare vista la fine delle restrizioni. Nonché la squisita logica commerciale. Il festival patavino, chiarisce il sito della manifestazione, «è un evento inclusivo che accetta tutt, tranne gli omofobi». A patto che elargiscano, s’intende: l’ingresso è gratuito, bontà loro, solo per minorenni accompagnati. Gli altri, dopo le 9 di sera, devono pagare l’ingresso, che può arrivare anche a 20 euro. In cambio, potranno assistere a concerti e spettacoli di variegati artisti: dalla cantante Noemi alla mitica Sandra Milo.
Il festival organizzato dalla società di Zan non è ricco solo di eventi, pure di sostenitori. Come s’intende già dal titolo della manifestazione: Pride village Virgo, dove l’ultimo nome identifica una linea di cosmetici milanese. Che ha già sponsorizzato, con speculare operazione di marketing, il Virgo village Sanremo, allestito durante il festival della canzone italiana.
Tra i partner minori ci sono anche marchi planetari, come Coca-Cola o Campari. Ma pure Red Bull, considerata in Thailandia simbolo di impunità, dopo che il nipote del fondatore ha scansato una condanna per aver travolto un poliziotto con la sua Ferrari. La bevanda energetica «che ti mette le ali» contribuisce anche al Roma pride, assieme ad altre multinazionali. Vedi Heineken, che in passato ha dovuto ritirare uno spot ritenuto offensivo per i clienti neri. O la la Walt Disney. Ha cambiato il magico mondo dei cartoni animati, ma nella sua lunga storia è stata accusata di razzismo e protervia sindacale. E l’omonimo fondatore venne bollato come sessista: per anni si rifiutò di assumere animatrici donne, convinto che non avessero abbastanza talento.
A contestare gli arcobaleni logati sono soprattutto gli ormai numerosi cortei antagonisti. C’è la Marciona di Milano. O il Priot di Roma, che si batte per riportare il pride alle origini, «ricordandoci quello che potremmo aver perso per strada, tra un rainbow washing e l’altro». O il Free-k pride a Torino, che contesta un modello «istituzionalizzato, ripulito, sponsorizzato e recintato». Vuole piuttosto «un pride alternativo, critico, senza sponsor, anticapitalista, transfemminista e dissidente».
Poi ci sono gli Stati Genderali, «l’alleanza sociale e politica per un’alternativa dal basso». E ancora gli anticapitalisti del Laguna pride di Venezia: «Tanti sono influenzati da multinazionali e piattaforme che rendono il pride un target da vendere a futuri acquirenti» svelenano.
Tutti, insomma, rievocano con nostalgia il passato rivoltoso. Sono solo autarchici che tentano di differenziarsi dai differenti? Declinazioni arcobaleno, quindi, dell’indimenticabile motto di Pietro Nenni? «A fare a gara a fare i puri, c’è sempre qualcuno più puro che ti epura» diceva il leader socialista. Invece, no. In molti paesi, a partire dagli Usa, si dibatte su queste marce per la liberazione diventate domeniche al luna park. Ossia, la deriva consumistica e cinica delle parate. Tanto che a Ginevra, da quest’anno, hanno deciso di rinunciare agli sponsor privati per non snaturare la manifestazione. Che ottusi moralisti, questi elvetici. Sul suolo italico, invece, continuano ad assecondare l’inscalfibile motto cinematografico del Dogui, il bauscia nazionale: «Lavoro, guadagno, pago, pretendo».