È l’ennesimo paradosso nazionale, di quelli cruciali per la nostra sopravvivenza: siamo un Paese ricco di risorse idriche, ma le dissipiamo. Abbiamo poche e vecchie infrastrutture, non accumuliamo negli invasi, usiamo a potabile per innaffiare, le condutture perdono quasi la metà di quel che vi scorre, si investe il minimo. E adesso che siamo in (prevedibile) emergenza, servono soluzioni urgenti.
«Risulta indispensabile considerare le evidenze relative alla maggiore probabilità di eventi estremi legati alla siccità, all’aumentata frequenza di condizioni di stress idrico e minore certezza di disponibilità della risorsa. Pertanto appare indispensabile che, a fronte delle misure immediate assunte nel corso dell’emergenza, si mettano a punto interventi di medio e lungo termine per affrontare il tema della scarsità idrica». Sembrano parole scritte oggi, ma risalgono al 2017, quando l’Italia fu colpita dall’ennesima, gravissima siccità e fu condotta un’indagine conoscitiva da parte della Camera dei deputati sull’emergenza idrica. Ma nonostante l’aggettivo «indispensabile» si ripeta spesso nelle conclusioni dell’indagine e il termine «emergenza» addirittura 87 volte, in questi cinque anni non si è fatto abbastanza e siamo piombati in una crisi ancora peggiore: se nel 2017 la pioggia cumulata fino a maggio era inferiore di circa il 25 per cento rispetto alla media del periodo 1991-2020, quest’anno eravamo alla metà. E in giugno la situazione non è migliorata. «Era un’emergenza prevedibile» commenta Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente, «perché già in inverno ha piovuto molto poco».
Il paradosso è che l’Italia, di norma, è un Paese ricco di acqua. Tanto ricco che la fa pagare poco, non la raccoglie, la spreca usando quella potabile per bagnare i giardini e svuotare i wc. E quando piove un po’ più del normale, si affanna a liberarsene al più presto, cacciandola nei fiumi o in mare. Per poi trovarsi nei guai quando i torrenti sono in secca. Nel libro Acque d’Italia (Giunti Editore) il suo autore Erasmo D’Angelis, tra i massimi esperti di acque e delle sue problematiche ambientali e climatiche, ricorda che abbiamo più corsi d’acqua di ogni altro Paese europeo: 7.596, di cui 1.242 sono fiumi. A cui si aggiungono 342 laghi, 526 grandi dighe, circa 20 mila piccoli invasi. «Abbiamo un cumulato di pioggia elevato, anche perché due terzi dell’Italia è costituito da colline e montagne e sui rilievi piove tanto. Non ce ne accorgiamo, perché viviamo tutti in pianura, ma abbiamo piogge medie l’anno per 302 miliardi di metri cubi».
Il problema è che non siamo abituati a risparmiare l’acqua e siamo poverissimi d’infrastrutture idriche. In Italia il consumo pro capite di quella potabile resta molto alto, si attesta sui 215 litri per abitante al giorno, contro la media europea di 125 litri. «Preleviamo circa 33-34 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno» spiega Minutolo. «Di questi, 25 miliardi vengono utilizzati in agricoltura e dall’industria, il resto per usi civili». Dei 9 miliardi di metri cubi destinati agli usi civili, ne vengono consumati solo 5, il resto si perde per strada. Colpa di condutture che hanno ormai più di 60-70 anni: le perdite non riguardano tanto i grandi acquedotti, che sono controllati, ma il sistema secondario di condutture che portano la risorsa fino alle abitazioni.
Altro punto dolente è quello della depurazione, dove l’Italia ha ricevuto quattro procedure di infrazione dall’Europa: due milioni di italiani residenti in 379 comuni non hanno le fognature o il servizio pubblico di depurazione. E nel frattempo immagazziniamo meno acqua perché gli invasi delle dighe, a corto di manutenzione, si riempiono di detriti e sono più piccoli: 50 anni fa raccoglievano il 15 per cento dell’acqua piovana, oggi l’11,3 per cento.
Come uscirne? Tagliando gli sprechi e facendo gli investimenti necessari. Per ridurre i consumi, l’agricoltura per esempio non dovrebbe innaffiare a pioggia ma applicare sistemi di irrigazione più puntuale. E creare bacini di raccolta dell’acqua piovana vicino alle coltivazioni, da usare quando ci sono periodi di siccità come quello attuale. «E bisognerebbe anche sfruttare quelle reflue, cioè depurate, per irrigare i campi invece di gettarle nei fiumi e in mare» aggiunge il responsabile scientifico di Legambiente. «Sono ricche di sostanze organiche ed eviterebbero il consumo di fertilizzanti chimici, che a loro volta inquinano le falde». Anche il settore industriale dovrebbe cambiare approccio, cercando di riutilizzare il più possibile l’acqua prelevata dai pozzi prima di immetterla nei sistemi fognari. Occorre ripensare anche la rete idrica delle città, per usare le acque depurate ma non potabili per irrigare almeno i giardini pubblici e lavare le strade.
Fin qui i tagli ai consumi. E gli investimenti? Le aziende del settore non potrebbero fare di più, visto che i cittadini le finanziano attraverso le bollette? Giordano Colarullo, direttore generale di Utilitalia, la federazione che riunisce le imprese operanti nei servizi pubblici dell’acqua, dell’ambiente, dell’energia elettrica e del gas, replica che gli investimenti sono passati dal miliardo di euro del 2012 ai 4 del 2022. Ma ammette che dovrebbero salire ad almeno 6 miliardi all’anno. Uno degli ostacoli è rappresentato dalla burocrazia: «Gli investimenti strutturali richiedono tempo e dalla richiesta di un intervento alla sua messa a terra possono trascorrere anche 2-3 anni a causa delle attese per i permessi». La situazione è più grave al Sud dove spesso l’acqua è una risorsa gestita a livello comunale e non da grandi aziende, quindi con pochi mezzi a disposizione.
Gli investimenti in Italia nel settore sono pari a 49 euro annui per abitante, un dato in crescita del 22 per cento rispetto al 2017 ma ancora lontano dalla media europea che è di circa 100 euro. E nelle regioni dove gli enti locali si occupano direttamente del servizio idrico gli investimenti crollano a 8 euro per abitante. Il risultato è che le infrastrutture restano in stato di abbandono da anni. Una mano potrà darla il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che destina 1,5 miliardi di euro per migliorare depurazione e acquedotti e 2 miliardi per i grandi invasi. A questi 3,5 miliardi si potranno aggiungere altri fondi riservati al Mezzogiorno per arrivare a oltre 4 miliardi. Soldi utili ma insufficienti per mettere in sicurezza la rete.
A questo punto non può non venire il dubbio: ai cittadini verrà richiesto di pagare l’acqua un po’ di più? Oggi la tariffa è determinata dall’autorità per l’energia, reti e ambienti Arera ed è tra le più basse d’Europa: nel 2017 (dati Global Water Intelligence) a Milano si attestava sui 76 centesimi per metro cubo, a Roma viaggiava a 1,49 euro mentre a Parigi sale a 3,48 euro (quattro volte e mezza la tariffa milanese), a Francoforte a 4,23 euro, a Copenaghen addirittura a 5,46 euro. Dal 2017 le tariffe sono aumentate, ma nuovi rincari saranno probabilmente inevitabili.