La direttrice artistica del Teatro Franco Parenti racconta in anteprima a Panorama il tema e gli appuntamenti delle celebrazioni per il mezzo secolo della storica istituzione milanese. Un esempio da seguire per tutta la cultura italiana.
Se un’intervista è un furto di parole, Andrée Ruth Shammah è un forziere spalancato, sguarnito, generoso di lingotti di memoria. Resta quasi senza voce dopo un inesausto saltellare in avanti e all’indietro nel tempo, tra ricordi e progetti, le origini e gli orizzonti del Teatro Franco Parenti.
Si chiamava Salone Pier Lombardo al momento della fondazione: era il 1972, saranno cinquant’anni tra pochi giorni. Dai suoi palcoscenici, perché della pluralità degli angoli espressivi ne ha fatto una bandiera, sono passati Eduardo De Filippo, Peter Brook, Robert Wilson e altri titani delle scene. O Isabella Ferrari, Antonio Albanese, Gioele Dix.
Poi il sipario si è allargato, si è aperto a corsi, dibattiti, laboratori, presentazioni, musica e danza, un distretto dedicato al design. Ha recuperato una piscina in abbandono, proprio lì accanto al troncone principale, trasformandola in una spiaggia cittadina d’estate, una pista di pattinaggio sul ghiaccio in inverno, un altro proscenio all’aria aperta: il teatro diffuso, oltre se stesso, sempre punto di riferimento e d’incontro, anima viva e creativa. Come la sua direttrice artistica, talentuosa regista, instancabile tessitrice d’incanti e possibilità.
Il percorso del Teatro Franco Parenti si sovrappone alla sua vita. Di fronte al mezzo secolo teme un abbandono alla nostalgia?
Celebrare ha senso solo perché si ripercorrono delle strade e si verificano le loro capacità di creare germogli. Perennemente tutti fanno quella che chiamano contemporaneità, che spesso appassisce prima ancora di essere nata. Cercare di essere così presenti, rende tutto vecchio. In queste ore, invece, sto pensando al passato: è uno dei temi sul quale vorrei ci si confrontasse. Intendo riproporre classici come Molière. O L’Ambleto di Giovanni Testori, che sarà affidato a un giovane regista. Continuare a lanciare attori, scenografi, talenti, è un compito che ci sentiamo in obbligo di mantenere.
Cosa pensa vi abbia reso unici?
Quello che tutti ci hanno copiato, o era nell’aria e ci siamo arrivati solo in anticipo, è che una sede può avere più spazi per drammaturgie diverse, per autori differenti. Non per accumulo, per offrire tanti spettacoli in una sera, ma perché le sale sono scelte in rapporto alla teatralità di ciascuna rappresentazione.
Perché la piscina?
È il rifugio che lasciamo alla mente per potersi dare del tempo libero. Una necessità importante per rigenerare i pensieri in una cornice di bellezza, dove nessuno strappa i fiori o fa delle scritte: la bellezza crea educazione.
Come ha avuto l’idea di sposare acqua e terra, altezze e profondità?
È venuto tutto in modo naturale: non abbiamo mai avuto l’ingordigia di allargarci o espanderci. Avevamo accanto questi spazi vuoti, che erano stati mutilati, offesi, divisi. La piscina era lì, oltre un muretto. Non ho fatto altro che seguire l’anima di questo posto: chiedeva di ridiventare quello che è stato.
Ma chi era Franco Parenti?
Un attore che, con tanto studio e molta cultura, si è inventato un modo per essere unico. Un anticonvenzionale, contro la retorica, con suo pensiero personale.
Cosa ha immaginato per celebrarne lo spirito e i cinquant’anni del teatro che lo omaggia?
Innanzitutto, andare avanti con le iniziative fino al 2023, perché l’apertura ufficiale è stata il 16 gennaio del 1973, ma abbiamo cominciato a pensare a quello che avremmo dovuto fare da un anno prima. Tutto il progetto sarà caratterizzato da riflessioni sulla grande età.
Si spieghi meglio.
La pandemia ha dato la percezione che gli anziani siano fragili, invece a esserlo sono gli adolescenti. Il Paese è in mano a un signore che ha 74 anni, ci sono ballerine in grado di volare a 60 o 80, James Hillman diceva che a un certo traguardo anagrafico, finalmente, il carattere si è fatto. Non è l’anticamera della morte, bensì il momento della pienezza. L’anziano non va aiutato con pannoloni o badanti, ma spingendolo a credere nella sua forza.
Come tradurrete il concetto a livello artistico?
Gioele Dix avrà un ciclo di serate sui vecchi della Bibbia, ci saranno incontri, una mostra fotografica, bambini che racconteranno storie e ne discuteranno con i più grandi. Poi una rappresentazione all’aperto, che si chiamerà «Verso il futuro», perché festeggiare una storia che ha saputo guardare avanti vuol dire buttare un seme su come può proseguire. Farò uno spettacolo itinerante, con il pubblico che camminerà in ogni luogo, troverà frammenti di film con al centro la vitalità di un anziano. Per me, potrebbe essere anche la fine.
Non dica così.
Il cinquantesimo mi ha messo molto in malinconia. Sto scrivendo un libro sulla mia vita, che inizia con una battuta: «Certo che al mio funerale, se ci fossi stata, l’avrei fatto meglio». La morte è come una rigenerazione. Questo mezzo secolo lo devo considerare come se fossi defunta, così posso far rinascere ancora meglio il Parenti.
Non sembra un tipo che si arrende. Non l’ha bloccata nemmeno la pandemia.
Siamo l’unico teatro che non si è mai fermato. Abbiamo persino pagato delle comparse per simulare il pubblico, registrare alcuni spettacoli, regalare all’esterno un’immagine di normalità. Il mio rammarico è che quando le rappresentazioni erano ferme, il tema sembrava: «Ah poveri attori, non recitano, è una categoria umiliata».
Invece?
I teatri chiusi venivano tolti agli spettatori. Riaprirli non era lasciar sfogare il bisogno di esprimersi degli artisti, ma restituire al pubblico un’emozione. Un piacere, che non può essere sostituito da nient’altro.
Le sue parole non cadono nel vuoto. Ha ricevuto numerosi premi in Italia, la Legion d’onore in Francia…
Lo dico senza voler sembrare antipatica: li vivo come se fossero un risarcimento danni. Si è detto che lavoravo perché pagava mio padre, perché ero socialista o la donna di Franco Parenti. Ho avuto una storia con lui, è durata sei mesi, poi siamo rimasti amici e abbiamo aperto un teatro insieme. Ci sono state tante etichette e pregiudizi nei miei confronti. Ho 73 anni, lavoro da quando ne avevo 18. Ogni premio dato a me, è un premio al progetto del quale sono parte, che ho contribuito a far crescere. Io sono un pesciolino di quest’acqua qua.