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Pandemia: due anni di errori e bugie

Pandemia: due anni di errori e bugie

Siamo stati travolti, sin dall’inizio, da una valanga di informazioni smentite dai fatti, dati infondati, retromarce, contraddizioni. Su tutto: farmaci, vaccini, tamponi, green pass… E, troppo spesso, la propaganda ministeriale (e quella dei tanti esperti da talk show) è servita a camuffare decisioni sbagliate e formidabili cantonate strategiche.


Se è vero – come ci viene ripetuto allo sfinimento – che la scienza procede per tentativi ed errori, allora in questi ultimi due anni deve aver fatto passi da gigante, vista la mole impressionante di sbagli, bufale, errori, contraddizioni, smentite, retromarce. Un diluvio di informazioni approssimative o inesatte, troppo spesso propagandate come verità di fede. Dalla prima topica («è poco più di un’influenza», credit la microbiologa Maria Rita Gismondo e il virologo Roberto Burioni) alla fake news più recente, ossia «è la pandemia dei non vaccinati».

Che sia la pandemia di tutti, lo dimostrano i dati. Se in Italia quasi l’80 per cento della popolazione è ormai immunizzata con due dosi, e i contagi quotidiani – mentre scriviamo – sono sui 36 mila (e in continuo aumento), allora è chiaro che l’infezione corre tra chi ha fatto due dosi, una, nessuna. E parlare di ondata pandemica che colpisce, o è colpa di, no-vax o scettici del vaccino, è fuorviante quando non in malafede.

I vaccini, nessuno lo mette in dubbio, sono una buona assicurazione contro le forme gravi della malattia, il ricovero in terapia intensiva e il decesso. Non è poco, ma all’inizio dovevano essere uno strepitoso scudo anticontagio. Ricordate le percentuali trionfanti delle multinazionali di un anno fa? Oltre il 95 per cento di «prevenzione dall’infezione» per quelli a mRna (New England Journal of Medicine), poco sotto quelli ad adenovirus. Ora sembrano giubbotti anti-proiettili pieni di buchi: dopo 5 mesi dalla seconda dose la loro efficacia anti contagio – complici le varianti Delta e Omicron – crolla dal 73 al 35 per cento per Pfizer, addirittura a zero per AstraZeneca.

«Non ci aspettavamo che la protezione si abbassasse così tanto con il tempo» ha ammesso sul Corriere Carlo Signorelli, docente di Igiene e medicina preventiva del San Raffaele di Milano. «È un dato peggiore di quanto pensassimo all’inizio». Oops. Urge terza dose, è l’appello unanime. Incrociando le dita.

«La discussione sulla pandemia, terapie e vaccini si è trasformata in un confronto tra tifoserie, mentre il metodo scientifico avanza poco alla volta» afferma Vittorio Agnoletto, medico, docente di Globalizzazione e Politiche della salute all’Università di Milano, responsabile scientifico dell’Osservatorio Coronavirus, e membro del direttivo nazionale di Medicina democratica. «La scienza deve dare informazioni dividendole tra certezze e ipotesi oggetto di ricerca. Poi la politica fa le sue scelte. Ma se la scienza dice quello che la politica, di volta in volta, vuole sentirsi dire è chiaro che perde la fiducia del cittadino».

La scienza ha i suoi tempi, d’accordo. Ma la furia di affermare tutto e il suo contrario in questo caso ha prevalso. In 24 mesi ci siamo sentiti dire, facendo un veloce riepilogo, che morivano solo anziani e immunodepressi, che gli asintomatici non erano contagiosi, che per la maggior parte dei pazienti bastavano gli antifebbrili (magari…), che tra le cure più efficaci per i malati gravi c’era il plasma degli immuni (sarebbe stato bello…).

Alla ridda di ipotesi campate per aria e spacciate per certezze da virologi, epidemiologi, infettivologi, ministri della Salute, non si è sottratta neppure la «massima» autorità sanitaria mondiale. L’Oms passerà alla storia di questa pandemia per una serie di affermazioni poi smentite dai fatti. Due su tutte: le mascherine sono utili solo ai malati e ai medici; e i guanti proteggono dall’infezione.

Salvo poi (con calma) ricredersi e raccomandare mascherine a tutti, persino all’aperto quando le cose buttano proprio male; e (sempre con calma, ossia sei mesi dopo) sul proprio sito avvertiva poi che l’uso dei guanti può «aumentare il rischio e portare alla auto-contaminazione o alla trasmissione ad altri quando si toccano le superfici infette e poi il viso».

Oggi, mentre The Economist ci elogia per la buona gestione della pandemia (quale onore, un filo interessato…) ci siamo già dimenticati che l’Italia nei primi 20 mesi della pandemia ha avuto un tasso di mortalità da Covid più elevato di tutti gli altri Paesi: 100 morti per milione di abitanti nel marzo 2020 (10 volte la Francia e il doppio della Spagna, per dire). Era il tempo dei «medici e infermieri eroi», ma la verità era che il nostro servizio sanitario era totalmente impreparato perché, negli ultimi 25 anni, medicina preventiva, epidemiologia e servizi territoriali erano stati ridotti ai minimi termini.

E mentre gli ospedali diventavano lazzaretti, il comma I della sezione C della circolare del ministero della Sanità n. 15280 del 2 maggio 2020 dava indicazione di non eseguire le autopsie sulle persone decedute per Covid (se non strettamente necessario) ritardando così la comprensione dei meccanismi patogenetici della malattia. Che cosa provocava esattamente il virus nell’organismo? L’abbiamo scoperto solo perché alcuni medici di Bergamo, infischiandosene delle indicazioni ministeriali, hanno fatto l’autopsia.

«La cosa più grave, più o meno in buona fede, è non aver capito subito che gli asintomatici fossero contagiosi e che quindi le misure di distanziamento e di tracciamento dovevano essere applicate anche a loro» afferma Elena Bignami, professore di Anestesia e Rianimazione all’Università di Parma e direttore della seconda Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale. Ma l’Italia era impreparata anche nei tracciamenti degli infetti. Non solo mancavano i tamponi, il nostro Paese non ha investito nella loro diffusione e applicazione fino all’autunno 2020, quando sono stati assunti circa due mila sanitari, ora spostati a fare altri lavori. Ma il meglio del peggio, quanto a «bugie» (magari non intenzionali, ma se poi si sono dimostrate informazioni false, quello erano) è stato raggiunto con la comunicazione sui vaccini. La conferenza stampa di Giuseppe Conte, a fine novembre 2020, ne è un caso eclatante.

L’ex premier dichiarava con disinvoltura che i vaccini in arrivo ci avrebbero portato all’immunità di gregge. Traguardo previsto: settembre 2021. Anche qui, i numeri odierni sono la migliore smentita. E far credere agli italiani che due punture fossero garanzia di non contagio è stato un inganno: ha giustificato una caccia alle streghe ai no vax e nel contempo ha abbassato il livello di guardia degli immunizzati che, forti del green pass (oggi rafforzato, super, deluxe, limited edition), spesso a volto scoperto e senza fare tamponi, possono portare a spasso il Covid senza saperlo. E ora che i loro anticorpi scendono ogni giorno un po’ di più, distinguere i «buoni» (immunizzati) dai «cattivi» (non vaccinati) ha sempre meno senso.

«È assurda questa caccia ai no-vax» ha detto in un’intervista televisiva il microbiologo Andrea Crisanti. «Non devono diventare la foglia di fico per coprire errori di strategia e di decisione». Crisanti è anche francamente inorridito dal puzzle di vaccini diversi. «Gli altri Paesi non hanno fatto questo pasticcio. Oltre a non aver eseguito nessuna analisi in Italia per capire quali erano i vaccini che davano più protezione, ne abbiamo usati quattro diversi per la prima dose, poi abbiamo fatto la seconda dose mischiata, creando 24 tipi diversi di immunizzazione. Adesso si dà la possibilità di fare la terza dose con Pfizer o Moderna, così abbiamo 48 regimi di immunizzazione».

Qualsiasi considerazione sugli stratosferici affari di Big Pharma è più che lecita. Rincara la dose Bignami: «I regimi vaccinali potrebbero anche aumentare, sono convinta che la terza dose altro non sarà che la prima di un richiamo annuale». Inoltre, sottolinea Crisanti, non è neppure normale che a tutti gli italiani cui è stato somministrato AstraZeneca non sia stato spiegato perché quel vaccino è stato tolto di mezzo (il contratto è stato rescisso per ritardi della consegna delle dosi). Era comunque un ottimo farmaco, sostiene il virologo, e chi lo ha ricevuto ha diritto di sapere perché non c’è più.

Aggiunge Agnoletto: «Credo che, in generale, non abbiano detto tutta la verità pensando che la popolazione non fosse abbastanza adulta per capire come comportarsi. Bisognava ammettere che i vaccini da soli non sono sufficienti, è sempre necessario il distanziamento e il contact tracing. E hanno taciuto, oltretutto, sul fatto che possono provocare effetti collaterali. Così chi ne ha tende a evitare il richiamo e a condizionare gli altri». Ecco, vogliamo parlare degli effetti collaterali? Di quando, in pieno bufera AstraZeneca, governo, autorità sanitarie (e la multinazionale, ma questo non stupisce) smentivano categoricamente che quegli strani casi di trombosi segnalati fossero correlati alla somministrazione del vaccino, e che la sospensione delle dosi era solo in via cautelare?

Poi si scoprì che gli eventi avversi di trombosi venosa profonda, soprattutto nelle giovani donne, erano davvero legati all’iniezione; la campagna vaccinale proseguì sulla popolazione oltre i 60 anni, con polemiche, proteste e diffidenze, finché il vaccino AstraZeneca è sparito, appunto, dalla circolazione. Anche oggi, nella campagna vaccinale infantile fra 5 e 11 anni, si tace sui rischi di miocardite. O meglio, si dice che nei trial clinici della Pfizer non sono stati segnalati eventi avversi di questo tipo, peccato che i test presentati della multinazionale per ottenere l’approvazione siano stati fatti su circa 3 mila bambini e i rischi potenziali di miocardite (proprio perché rari) potranno emergere solo quando saranno stati immunizzati milioni di piccoli in tutto il mondo.

Uno degli argomenti impugnati dai fautori assoluti del vaccino è poi che l’immunità indotta da questi ultimi protegge più di quella «naturale» data dalla malattia. Illusione svanita dai risultati di uno studio israeliano che indica come l’immunità dopo il recupero da Covid sia circa 13 volte più forte che dopo due dosi Pfizer. Altro mito infranto, il green pass. Contagi e focolai sono aumentati da quando è stato introdotto il lasciapassare verde, anche perché ci siamo resi conto che la sua durata (9 mesi) è superiore alla protezione immunologica (5 o 6), tanto che ora si parla di ridurla sensibilmente. Peraltro, la variante Omicron, 30 volte più contagiosa della Delta, ha buon gioco soprattutto tra gli «immuni». Secondo il virologo tedesco Alexander S. Kekulé, su 10 vaccinati con doppia dose, da tre a cinque possono infettarsi e contagiare.

Inaffidabile è spesso anche il tampone da farmacia, che rileva la contagiosità solo quando la carica virale è alta e dà il 30 per cento di falsi negativi. Fare l’antigenico e il salivare è come tirare una monetina sull’esito. In Austria, non a caso, è scattato l’obbligo del tampone molecolare. Nel frattempo, sull’idea di imporre il tampone anche ai vaccinati per l’accesso a determinati eventi o luoghi pubblici, gli esperti litigano, discutono, polemizzano. Come sempre.

Intanto, chi oggi si ammala di Covid, come viene curato? In attesa dei nuovi anti-virali (in via di approvazione da parte dell’Aifa), «la realtà è che in questo momento nessun farmaco uccide il virus» sostiene Bignami. «Abbiamo provato con tocilizumab, idrossiclorochina, plasma degli immuni, antibiotici ad ampio spettro. Forse l’eparina, oggetto di uno studio tra il nostro ospedale di Parma e lo Spallanzani, è potenzialmente efficace».

Dolente, e controverso, è anche il capitolo «cure domiciliari». Le indicazioni del ministro Roberto Speranza (datate 30 novembre 2020) parlano di «paracetamolo e vigile attesa nelle forme lievi», da poco smontate dalle conclusioni di uno studio italiano delle Università di Pavia e di Verona (sul Basic Clinical Pharmacology and Toxicology) che avvertono come il paracetamolo nelle fasi iniziali potrebbe essere controindicato, soprattutto negli anziani. «Serve per abbassare la febbre ma non blocca l’evoluzione della malattia, anzi può favorirne il peggioramento» dichiara Sergio Pandolfi, neurochirurgo e uno degli autori dello studio (l’altro è Giovanni Ricevuti di Pavia). «È da escludere e la terapia deve essere precoce, entro 3 giorni dai sintomi, per bloccare l’evoluzione immuno-trombotica del Covid-19».

Meglio, scrivono Pandolfi e Ricevuti in una lettera al Journal of Medical Virology, usare farmaci anti-infiammatori non steroidei: «Seicento mg di brufen mattina e sera o indometacina, gastroprotezione, omeprazolo 30 mg la mattina, fluomicil 100 mg bustine, antibiotico se ci sono sintomi polmonari, tosse e gola secca, cardiospirina 100 mg. Controllo della saturazione di ossigeno con il saturimetro» precisa Pandolfi.

Già dall’inizio dell’estate, sosteneva (più o meno inascoltato) l’importanza degli antinfiammatori anche Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, in un lavoro pubblicato su un giornale del prestigioso gruppo The Lancet. «Tuttavia» prosegue Pandolfi «tanti medici di famiglia continuano a prescrivere paracetamolo seguendo le draconiane direttive ministeriali. Poi accade che un gruppo di medici fa ricorso al Tar, porta una mozione al ministro della Salute in Senato per cambiare protocollo e si insabbia tutto con una sentenza del Consiglio di Stato. In seguito quel documento è stato cambiato, integrando anche i farmaci antinfiammatori in fase precoce. Peccato che, alla data del 26 aprile 2021, si citi ancora l’imbarazzante opzione paracetamolo. Che, insieme alla vigile attesa, rischia di portare in ospedale ancora troppi pazienti in condizioni gravi».

La quarta ondata delle panzane politiche

Secondo anno di Covid e siamo ancora in ballo con contagi, emergenze, restrizioni. E soprattutto, con i facili entusiasmi e le misure roboanti di ministri e politici assortiti. «Sarà un Natale normalissimo» dicevano fino a poco tempo fa. Come no.

di Antonio Rossitto

Le alacri case farmaceutiche lavorano per adeguare i vaccini alla variante Omicron. A noi, più modestamente, tocca aggiornare il catalogo delle panzane. Ministri, tecnici, professoroni: negli ultimi mesi hanno quasi eguagliato i tormentati esordi. L’immunità di gregge? Vicinissima. Il certificato verde? Formidabile. Gli anticorpi? Tenaci come tardigradi. Invece, sta per scoccare il secondo anno della lotta al Covid. E siamo sempre lì: tramortiti da profluvi di parole, vaticini e contraddizioni.

Persino Mario Draghi, il più composto e meno loquace di tutti, è stato preda di facili entusiasmi. Il 22 luglio 2021 il premier assicura: «Il green pass è una misura che permette ai cittadini di continuare a svolgere attività, con la garanzia di ritrovarsi tra persone non contagiose». Solo che, già a cinque mesi dalla seconda dose, la copertura crolla sotto il 40 per cento. E appena un terzo degli italiani ha ricevuto il richiamo.

Dunque milioni di persone, armati di lasciapassare, possono infettarsi e infettare. Elementare, Watson. Il più elettrizzato resta però il fido Renato Brunetta. Accecato d’amore, non s’è contenuto. Il green pass è «la più grande manovra di politica economica del governo». Come dimostrano gli oltre 10 miliardi persi nel turismo solo a Natale. «È una misura geniale». Vedi i tamponi chiesti spesso ai vaccinati. «Grazie al certificato, boom di immunizzati». Ma lo zoccolo duro dei non vaccinati, ancora 6 milioni, è stato appena scalfito.

Vabbè: dalla lotta al fannullonismo in poi, il ministro forzista alla Pubblica amministrazione ha sempre adorato l’iperbole. Che dire però dell’austero Francesco Paolo Figliuolo, commissario straordinario all’emergenza? Sempre sia lodato, per carità. Vi sovviene il suo predecessore? Arcuri Domenico da Melito Porto Salvo, boiardo dalemiano diventato comandante della battaglia al virus nel governo Giuseppi. Banchi a rotelle, mascherine farlocche, primule appassite. Dio ci conservi Figliuolo. Ma pure il generale d’armata ha mostrato indole marinaresca. Il 30 marzo 2021 giura: con l’80 per cento dei vaccinati, avremo l’agognata immunità di gregge entro fine settembre. Tre mesi dopo, ospite di Domenica in, reitera: «Sono assolutamente convinto che raggiungeremo questo obiettivo». Con ammirabile coerenza, il 7 settembre scorso suggella. Ci siamo. Manca solo un cicinin: il traguardo «è vicinissimo».

Già, nemmeno il militare tutto d’un pezzo ha saputo rinunciare al sovrappiù. Come l’annuncio, un mese fa, di voler supportare le aziende sanitarie con laboratori di biologia e unità mobili della Difesa per processare tamponi nelle scuole. A mali estremi, estremi rimedi. Arriva la cavalleria. Invece, niente. E i tamponi salivari agli studenti promessi dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi? Boh. E la «messa in sicurezza» degli istituti? Mai pervenuta. E la strombazzata ventilazione meccanica nelle aule? Sostituita dalle finestre aperte in inverno anche a Bolzano, per forgiare fisico e mente dei più smidollati.

A inizio settembre, Bianchi sprizzava ottimismo: «Mai più Dad». Quattro mesi dopo, 10 mila classi sono finite in didattica a distanza. Mentre il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, ipotizza la chiusura delle scuole fino a metà gennaio. È solo l’ultima delle sue intemerate. La più sbalorditiva è del 31 agosto scorso: «Oggi è più facile morire di Covid che di cancro». Tralasciando l’opportunità del paragone, l’evitabile conta smentisce comunque Sileri. Il numero dei decessi oncologici, ogni 12 mesi, si aggira attorno ai 180 mila. E il Covid ha ucciso 136 mila persone in quasi due anni. Bugia a parte, era davvero il caso di stilare la classifica della tragedie?

In onore all’inesorabile logica divisiva dei talk show, Sileri azzanna chiunque osi dissentire. Nella foga, mentre il ciuffo castano gli si scompone davanti agli occhi, capita che faccia cilecca. Due mesi fa, millimetrico, spara: «I contagi non mi preoccupano più di tanto, è una risalita fisiologica che in Italia verrà ben controllata grazie al green pass». Nell’alfabeto delle varianti, il sottosegretario dev’essersi perso la lettera Omicron.

Del resto, già lo scorso ottobre, rintuzza: «Sento dire che i vaccinati si prendono il virus e lo trasmettono. È una falsità, una bugia». Adesso s’è ravveduto: «Uno dei concetti sbagliati che è passato, è che chi è vaccinato contagia zero. Questo non è vero». Quindi, riformula: «Chi è vaccinato e non usa la mascherina e non tiene la distanza ovviamente può far danni». Ovviamente, certo. E come sarà il Natale? «Normale, non ci sono chiusure all’orizzonte». Normalissimo, ci mancherebbe. Difatti, lo stesso sottosegretario ora paventa 100 mila contagi.

Ha augurato buone feste a tutti perfino il più menagramo della compagnia dei televirologi, Gualtiero Ricciardi in arte Walter, inarrestabile consigliere del ministro della Salute, Roberto Speranza: «Sarà un Natale che potremo festeggiare serenamente». Già: cenone con tampone, mascherine all’aperto e regioni multicolore. Ma pure sui vaccini, lo scorso maggio, Ricciardi è fiducioso: «La protezione potrebbe durare anche nove mesi». Ma diviso due, bene che vada. E pure l’onnipresente Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano, l’11 novembre 2021 la butta lì: «La terza dose sarà l’ultima, poi richiamo solo ai fragili». Intanto, Israele annuncia la quarta inoculazione.

Del resto, pure Franco Locatelli, coordinatore del Comitato tecnico scientifico, il 29 settembre scorso proclama stentoreo: «Dico con estrema chiarezza che, per quello che riguarda i soggetti sani e giovani, è tutto fuorché scontato che si debba andare verso una terza dose». Un mese dopo, batte la ritirata: «La terza dose per contrastare anche la variante è necessaria». In compenso, lo scorso 29 novembre, è ottimista sulla Omicron. I cronisti sfruculiano: «Siete preoccupati, professore?». Lui alza un sopracciglio e, con cantilena dottorale, rassicura quel nugolo di buzzurri impegnati a riempire i taccuini: «Preoccupati mi sembra un termine largamente eccessivo». Largamente, ecco.

Locatelli s’era però superato poco prima, il 5 novembre 2021, in diretta tv. Per puntellare la traballante teoria dell’epidemia dei no vax, proclama: «Fino ai 59 anni nessun vaccinato è finito in terapia intensiva». Invece, nell’ultimo mese, purtroppo gli ingressi erano già stati 16: Istituto superiore di sanità dixit. Lui non si ravvede. Anzi. Di fronte a un’interrogazione parlamentare sul dato farlocco, controreplica sibillino: «Sulla questione dei ricoveri e dei decessi dei vaccinati è stato chiarito tutto». Davvero? Da chi? Quando? Boh. Metodo collaudato, d’altronde. Chi osa eccepire, diventa: menzognero negazionista e pericoloso nemico pubblico. Meglio sorvolare. O assaltare. Espertoni e migliorissimi pontificano a oltranza. Su ogni media. A qualsiasi ora. Impensabile declinare il milionesimo invito in tv o l’ennesima intervista sui giornali. Un rappresentativo di team di supermediatici ha persino intonato in radio Mangia il panettone e vai a fare l’iniezione sull’aria della natalizia Jingle Bells. Vanità senile mascherata dal supposto dovere di informare. A dire il vero Massimo Galli, principe delle virostar, indispettito dai tanti caproni che osavano frapporgli in diretta, ha provato più volte a dire basta. Richiamato a furor di popolo dagli smarriti telespettatori, non gli è rimasto che rispondere come Giuseppe Garibaldi ad Alfonso La Marmora: «Obbedisco».

A fine luglio anche il servitore della patria, già katanga sessantottino, demolisce così il ricorso alla terza dose: «È un’imposizione burocratica». Peggio, un complottone. Il professore è sconcertato: «Mi pare ne parli molto solo la casa farmaceutica che produce il vaccino, sulla base di un numero molto limitato di dati scientifici». Capito? L’alluso è notevole: alla Pfizer starebbero più a cuore gli affari che la salute del pianeta. Neppure la sbertucciata Commissione dubbio e precauzione di Massimo Cacciari & co. avrebbe osato sfiorare tali vette dietrologiche. Ma Galli, a differenza dei riottosi filosofi, sa il fatto suo. Perbacco.

A settembre, scatenato, tira dritto con gli eufemismi: «In un Paese avanzato lo stile di sanità pubblica che interviene in maniera indiscriminata con una terza dose a tutti mi lascia perplesso». Primo scricchiolio, il 28 novembre 2021: «La terza dose serve ancora di più». Definitiva capitolazione, il giorno seguente: «La soluzione è la terza dose. E già non sappiamo se basterà».

Roberto Burioni, virologo del San Raffaele di Milano, vive lo stesso dramma esistenziale del collega. Pure lui vorrebbe ritirarsi su un eremo a osservare vetrini al microscopio. Invece lo costringono a esporsi per il bene comune. Lui, stoico, non si risparmia. Ospitate a Che tempo che fa, selve di tweet, impareggiabili dileggi. Preso dal senso del dovere, è solito esondare. Sull’immunizzazione dei più piccoli s’è però superato. Il 29 agosto scorso scrive: «Gli unici per cui non ha senso il vaccino sono i bambini sotto i 12 anni». Da appassionato d’opera sa bene che «la donna è mobile». Ma pure il pensiero. Così, l’1 dicembre 2021 spiazza tutti: «Aifa approva vaccino Covid per bimbi 5-11 anni. Evviva!». Il successivo 19 dicembre scolpisce nella pietra dei social la diagnosi finale: «In questo momento in Italia il Covid è un’infezione pediatrica».

Perfino alla prima della Scala, qualche giorno addietro, chiarisce: «Bisogna vaccinare i bambini». Lo vedono zompettare felice da un microfono all’altro, inguainato in un impeccabile smoking. Discetta di Covid, a dispetto della profezia di due anni fa: «Non arriverà in Italia». Elogia l’uso delle mascherine, nonostante il convincimento iniziale: «Inutili». Una delle giornaliste assiepate nel foyer gli domanda velenosetta: «Si sente un vip?». E il televirologo, senza nemmeno arrossire: «Spero di poter tornare presto nell’ombra».

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