Chiusi nelle residenze assistenziali, gli anziani oggi non muoiono di Covid. Piuttosto di solitudine e lontananza forzata dai propri cari. Un purgatorio intollerabile, nonostante varie ordinanze ministeriali permettano le visite quotidiane. Ma poche strutture le rispettano.
C’è chi non ha visto la madre per un anno, chi non ha potuto sentire il padre neppure per telefono. C’è chi ha visto la compagna spegnersi giorno dopo giorno, senza poter far niente. In tempo di pandemia le Rsa, le Residenze sanitarie assistenziali – che in Italia sono 4.629, spesso gestite da gruppi privati – hanno mostrato la loro intrinseca fragilità, chiudendosi al mondo e portando i pazienti spesso a spegnersi per sempre.
«Oggi l’unica nota positiva da quando è cominciata la pandemia è che non ci sono più morti per Covid grazie alla campagna vaccinale, per il resto non ci sono buone notizie: non è cambiato nulla dal tempo del primo lockdown» esordisce Alessandro Azzoni, presidente del comitato di familiari Felicita (nato per iniziativa dei familiari del Pio Albergo Trivulzio di Milano), che ha deciso di battersi in prima persona anche per sua madre. La donna, dopo essersi ammalata di Covid nel marzo 2020, è rimasta isolata per mesi. «Da quel momento non è più la stessa. Sopravvive in uno stato catatonico, mangia con il sondino e io non posso starle vicino. Avrebbe bisogno di contatto e di affetto. Non so quanto potrà resistere in questa vita, che non è vita».
Vita che non è vita. È questa l’essenza di ciò che i familiari raccontano dell’odissea che dal 2019 affrontano quotidianamente. I prigionieri delle Rsa non sono solo gli ospiti, ma anche i loro parenti, che si aggrappano a videochiamate e agli sparuti incontri in presenza. Secondo una stima, parliamo di 2,5 milioni di italiani, finiti in un purgatorio che non sembra trovare via d’uscita. E questo nonostante si siano susseguite ben quattro ordinanze – l’ultima datata 10 settembre – con cui il ministero della Salute autorizza – ovviamente ai parenti muniti di green pass – visite fino a 45 minuti, anche tutti i giorni. Ma sono poche le strutture che seguono le regole: «Gli incontri o non vengono tenuti o possono durare al massimo 15-20 minuti, in condizioni profondamente contingentate: all’aperto o in stanze adibite ad hoc» prosegue Azzoni.
Il risultato, però, è che i tanti ospiti allettati o gravemente malati «vivono murati, senza vedere da mesi e mesi i propri parenti». Insomma, quelli che per tutti sono ospiti delle Rsa, aggiunge Azzoni, «noi li chiamiamo sopravvissuti. Sono esseri umani stremati dopo due anni di vera e propria reclusione. Le segnalazioni dei nostri associati ci parlano di disagio e di profonde regressioni cognitive. Abbiamo anche denunce che indicano dosaggi profondamente aumentati per quanto riguarda calmanti e psicofarmaci. Nel silenzio più assoluto stiamo assistendo a un’evidente sospensione del diritto alla cura e a una vita degna. Gli anziani sono abbandonati e ridotti a scarto della società». Come reclusi, che nelle gravi condizioni di salute in cui si trovano non riescono a far valere i loro diritti.
«Abbiamo ricevuto decine di segnalazioni da parte di familiari che hanno scritto alle dirigenze delle Rsa lamentando che ci si stava muovendo fuori legge non garantendo le visite ai familiari. In molti casi le strutture hanno risposto con lettere ufficiali in cui spiegavano come, poiché era venuto meno il rapporto fiduciario, sarebbe stato meglio cambiare struttura e specificando che, se questo non fosse accaduto nel giro di pochi giorni, la retta sarebbe raddoppiata. Parliamo di compensi importanti che sono passati da 2-3.000 euro al mese a 5-6.000».
Resta tuttavia la domanda: perché non obbedire alle prescrizioni normative e muoversi nell’illegalità? La causa è rintracciabile in un cortocircuito che si è venuto a creare durante la pandemia: «Diverse inchieste vedono indagati i direttori sanitari per via dei contagi e delle tante morti all’interno delle Rsa. Per questa ragione numerose strutture, anche per paura di finire sotto indagine, preferiscono disobbedire alla legge evitando che possano esserci assembramenti e dunque altri contagi» conclude Azzoni.
Per tutelare i diritti dei loro cari, i parenti di ospiti delle Rsa si sono organizzati in associazioni in tutto il Paese. A Crema è nato il Comitato Verità e Giustizia, guidato da Piergiuseppe Bettenzoli che in pandemia ha perso lo zio: «Nei primi mesi 2020, presso le strutture della Fondazione Benefattori Cremaschi sono deceduti circa 140 ospiti. Con il nostro comitato, che coinvolge 25 parenti delle vittime, ci battiamo perché le responsabilità di questa strage siano individuate. Il nostro obiettivo è portare alla luce la verità su ciò che è accaduto ai nostri cari».
A Monza ha visto la luce Orsan, acronimo per Open Rsa Now, nata l’aprile scorso grazie all’impulso di Dario Francolino, l’attuale presidente. «Mia madre» spiega «è ospite di una Rsa di Nova Milanese da tre anni. Le è stata diagnosticata una grave demenza nel 2008, ma fino a qualche tempo fa riconosceva me e i familiari più stretti. La situazione è precipitata l’anno scorso, a febbraio, quando è caduta in struttura e si è rotta il femore. Sono riuscito a incontrarla al pronto soccorso, entrando con un codice bianco datomi da un operatore che aveva capito la situazione. Da allora l’ho vista pochissimo, sempre attraverso il plexiglass. Per lei, che il Covid l’ha avuto e ha anche doppia dose di vaccino, questa situazione è inaccettabile».
Comprendendo come la sua storia non fosse isolata, Francolino ha deciso di fondare Orsan, che in pochi mesi ha raccolto oltre 300 iscritti, e costituire un Osservatorio nazionale Rsa. «Attraverso le segnalazioni abbiamo registrato un comportamento anarchico nell’80% delle strutture. La situazione in cui versano i nostri parenti è allarmante. L’assenza o l’estremo diradarsi delle visite ha portato a una situazione gravissima: alcuni si sono lasciati morire di inedia, di depressione e hanno perso la speranza di rivederci».
La questione psicologica si è rivelata centrale. Lo sa bene Livio Dal Bosco, direttore di alcune strutture in Trentino: «A seguito dell’apertura alle visite delle nostre Rsa ad aprile, con due mesi di anticipo rispetto al resto d’Italia, abbiamo condotto una ricerca scientifica che ha evidenziato un miglioramento dello stato psicofisico dei nostri ospiti, ma anche dei loro familiari. Si è registrata una netta diminuzione dei disturbi d’ansia, del sonno e dei disturbi psicosomatici, nonché un calo dei consumi di ansiolitici e antipsicotici».
Lo studio ha mostrato con chiarezza come il disagio psicologico abbia colpito duramente sia gli anziani sia i loro familiari, e come ciò abbia trovato attenuazione solo quando è tornato possibile l’incontro in presenza. «Eppure la maggior parte delle Rsa sono tutt’ora chiuse e fuori legge» puntualizza Azzoni, evidenziando come un altro problema sia la carenza di organico. Il personale in molte strutture era già ridotto prima delle pandemia, e l’aiuto di volontari e parenti si dimostrava fondamentale nella routine. Ma oggi questi ultimi non possono più entrare con regolarità.
«L’assenza dei familiari» insiste Francolino «che svolgevano un ruolo centrale e suppletivo di assistenza, e la fuga di massa di operatori verso gli ospedali pubblici e privati, ha ridotto all’osso il personale. Quel poco che è presente deve abusare di strumenti di contenzione per necessità di vigilare ospiti con gravi disabilità mentali». Ma non è tutto. «Sono sparite le attività ludiche e ricreative. Gli animatori vigilano sugli incontri, con grave limitazione della privacy. La verità è che le carenze sono evidenti. Adesso servono risposte».
Delle risposte che i familiari, forti anche delle rette mensili che devono corrispondere (dai 2.500 ai 4.000 euro), richiedono a gran voce. E che sarebbero potute arrivare anche dai lauti finanziamenti del Recovery fund. Purtroppo, però, nella parte del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), relativa alla Sanità («missione 6») non c’è un solo passaggio che si riferisca alle Rsa in termini di nuovi standard organizzativi, strutturali o tecnologici, come denunciato in una recente interrogazione dal deputato della Lega Giuseppe Paolin. Anzi, «in contraddizione con tali esigenze, riconosciute come prioritarie dall’Istituto superiore di sanità, il Pnrr prevede che la linea di attività più corposa del progetto (oltre 300 milioni) sia finalizzata a finanziare la conversione della Rsa e delle case di riposo per gli anziani in gruppi di appartamenti autonomi, dotati delle attrezzature e dei servizi attualmente presenti nel contesto istituzionalizzato». Incredibile. Ma vero.