Home » Corsa ai tesori degli abissi

Corsa ai tesori degli abissi

Corsa ai tesori degli abissi

Da qui al 2040 la domanda di materie prime crescerà di 30 volte. Ecco che è partita l’estrazione «di profondità» per ricavare componenti essenziali, per esempio, nella transizione energetica. Un gigantesco affare economico che comporta però anche forti
incognite per l’ambiente.


Ufficialmente lo scopo è nobile: evitare di violentare i territori con miniere ad alto impatto ambientale, spostando nelle profondità marine le estrazioni minerarie necessarie per la transizione ecologica. Ma non mancano le incognite. Pur volendo fare bene al pianeta, si potrebbe scatenare una sorta di saccheggio dei mari con gravi ripercussioni per l’ambiente. D’altronde, dietro la bandiera ambientalista, si sono accodati interessi economici importanti.

Di cosa stiamo parlando? Le nuove tecnologie protagoniste della svolta verde, fotovoltaico, pannelli solari, auto elettriche, elettrodomestici a basso consumo, computer, insomma tutti i prodotti che contengono molta elettronica, hanno bisogno, per funzionare, di minerali specifici. Oro e argento sono usati nei circuiti elettronici, il rame nei cavi, cobalto, nichel, manganese e zinco servono per le batterie elettriche. I materiali, estratti dalle miniere tradizionali, sono molto richiesti e lo sviluppo tecnologico procede così velocemente che presto potrebbe esserci difficoltà a coprire il fabbisogno.

L’International energy agency (Iea) ha stimato che la domanda di materie prime per le batterie dei veicoli elettrici crescerà almeno di 30 volte entro il 2040. I giacimenti potrebbero presto esaurirsi. C’è poi un altro aspetto: i processi di queste lavorazioni sono molto inquinanti. Le cave di rame a cielo aperto nel Nord e Sud dell’America sono l’emblema dell’impatto ambientale dell’estrazione mineraria legata all’alta tecnologia. La ricerca di giacimenti alternativi di metalli preziosi ha spostato l’interesse verso le potenzialità offerte dagli oceani. Si è fatta largo la convinzione che ricavare minerali dai fondali sia un modo green e pulito per sostenere lo sviluppo e, dunque, la transizione energetica. È quello che viene definito il «Deep sea mining».

Gli abissi, d’altra parte, sono una vera cassaforte dove l’attività vulcanica, nel corso dei millenni, ha depositato miliardi di tonnellate di minerali. Angelo Camerlenghi, ricercatore dell’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (Ogs), traccia questo scenario: «Il grande problema, ancora irrisolto, delle fonti rinnovabili è lo stoccaggio di energia. Occorrono batterie sempre più capienti e di maggior durata. Per realizzarle servono materie prime in quantità, presenti solo in alcune zone del pianeta, gestite spesso senza tener conto dei diritti dei lavoratori. Per di più i metodi di estrazione sono inquinanti. La transizione ecologica è appena iniziata e già è chiaro che non disponiamo dei materiali sufficienti per questo sviluppo tumultuoso, pur considerando un auspicabile riuso delle batterie esaurite. Così, o si rallenta il processo tecnologico, ed è impossibile, o si trovano altri giacimenti. E i mari ne sono ricchissimi».

In genere i depositi minerari si trovano a 4-6.000 metri di profondità, concentrati soprattutto vicino ai vulcani sottomarini che punteggiano le dorsali oceaniche. Dalle fratture di queste «catene montuose» afferma lo scienziato, «fuoriescono acque molto calde, fino a 300 gradi, ricche di minerali che entrando a contatto con le correnti fredde dell’oceano si depositano sulle rocce sotto forma di crostoni polimetallici. Contengono rame, zinco, potassio, titanio, bario e altri materiali in forte concentrazione. Dove si estendono pianure abissali di sabbia e fango, per cause ancora sconosciute, si formano anche distese di noduli di manganese».

Un tesoro inestimabile tutto da scoprire. Uno dei depositi più ricchi è la Clarion-Clipperton Zone, 4,5 milioni di chilometri quadrati compresi tra le isole Hawaii e la costa occidentale del Nord America. Pare ci sia una concentrazione di manganese, rame, nichel e cobalto pari a 21 miliardi di tonnellate. Alcune stime affermano che con i minerali custoditi dai fondali marini, individuati finora, si potrebbero realizzare batterie per 140-240 milioni di auto elettriche che abbatterebbero in modo significativo le emissioni di CO2.

Se questi sono i numeri, sembrerebbe risolto, almeno nei decenni a venire, il problema delle risorse minerarie. Anche perché, come spiega Camerlenghi, «le tecnologie per l’estrazione ci sono». Però, secondo molti esperti ed ecologisti, tra i quali lo stesso Camerlenghi, i rischi potrebbero essere superiori ai potenziali benefici. Una ricerca della rivista Science sull’impatto a lungo termine del Deep see mining sostiene che i danni possano perdurare anche oltre 30 anni.

L’incognita da sciogliere è la mancanza di una regolamentazione legislativa a tutela dell’ecosistema sottomarino. Sicché la «fame» di materie prime rischia di creare una sorta di Far West degli abissi. «I mari hanno una giurisdizione di competenza dello Stato costiero circoscritta alla piattaforma continentale che, mediamente, è lunga 200 miglia nautiche, quasi 400 chilometri. Però ci sono distese immense oltre questa piattaforma continentale. Senza una legislazione che metta vincoli ambientali come succede per l’attività mineraria tradizionale, si può andare nel Pacifico ed estrarre minerali e nessuno può eccepire nulla» aggiunge Camerlenghi.

Il caso si è verificato quando un piccolo Stato della Micronesia, Nauru, ha chiesto all’Isa, l’International seabed authority (organismo delle Nazioni Unite per il monitoraggio delle attività legate ai minerali dei fondali marini) di cominciare le trivellazioni dei fondali. L’Isa a giugno scorso ha promesso un accordo globale entro due anni. Gli scienziati sostengono che la scadenza è troppo ravvicinata per regolamentare una materia così complessa, c’è il pericolo di un’intesa pasticciata e poco vincolante. Ma le società premono. Alcune hanno cominciato a estrarre minerali dalle acque territoriali di diversi Paesi come il De Beers group in Namibia e la Nautilus minerals in Papua Nuova Guinea.

«Il dragaggio del fondale marino mette in sospensione molta argilla che forma pennacchi torbidi dannosi alla vita marina. Le conseguenze di un’attività estrattiva dissennata potrebbe essere importanti. Tutto andrebbe monitorato con attenzione» mette in guardia Camerlenghi. L’Unione internazionale per la conservazione della natura aggiunge altri motivi di allarme: l’inquinamento acustico e luminoso può disturbare la fauna oceanica; per non parlare delle possibili perdite di materiali inquinanti dalle attrezzature.

Finora l’Isa ha rilasciato un trentina licenze di esplorazione per gli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano e le società stanno raccogliendo cifre astronomiche per avviare le operazioni, in attesa del via libera all’estrazione commerciale. Come si muove l’Europa? La Norvegia intende autorizzare le operazioni minerarie marine già nel 2023. Il governo di Oslo sostiene, guarda caso, che sarebbero utili ad accelerare la transizione ecologica.

In Italia Fincantieri e Saipem hanno firmato un memorandum per vagliare le potenzialità del Deep sea mining in compatibilità con l’ambiente. Fincantieri sottolinea che «i minerali presenti nei giacimenti sottomarini si riveleranno imprescindibili nel passaggio da un’economia basata sui combustibili fossili a quella verde». Senza spingersi nel mezzo degli oceani, anche nel Tirreno meridionale ci sono piccoli giacimenti situati attorno a vulcani sottomarini.

Gli scienziati, dal canto loro, sostengono che possono essere usati come laboratori per studiare l’impatto ambientale, per microsimulazioni di recupero degli ecosistemi marini profondi. «Non sono adatti per le estrazioni perché è un’area ecologicamente sensibile» conclude Camerlenghi. Con maggiore o minore cautela, il processo è comunque partito. La domanda a cui dare ora risposta è quale sia il prezzo accettabile per sostenerne lo sviluppo in un futuro che è gia presente.

© Riproduzione Riservata