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Occhi cinesi sulle Filippine

Occhi cinesi sulle Filippine

Su un atollo semisommerso rivendicato sia da Manila sia da Pechino – il «Banco Thomas» – sempre più spesso il Dragone inscena aggressive manovre navali capaci, per effetto domino, di sconvolgere il mondo. Perché se tra le due flotte il confronto sarebbe impari, dietro lo Stato-arcipelago c’è l’Occidente.


Nel Mar cinese meridionale, 194 chilometri a ovest dalla costa delle Filippine, c’è un isolotto. A scoprirlo nel 1788 fu Thomas Gilbert, comandante del tre alberi britannico Charlotte, che con ben poca fantasia gli donò il suo nome e lo chiamò Thomas Shoal, cioè «Banco Thomas». L’isolotto in effetti è più che altro un atollo corallino semisommerso, e oggi ha altri due nomi, diversi ma entrambi impronunciabili: quello filippino è Buhanginang Ayungin, mentre in cinese suona Renài Jiao. Non ci crederete, ma è su questo inutile isolotto dalla programmatica forma di lacrima, e lungo meno di 10 chilometri, che potrebbe scoppiare la prossima grande guerra. Sul Thomas Shoal, che geograficamente e storicamente appartiene alle Filippine, la Cina accampa pretese territoriali da più di tre decenni. Il punto è che già negli anni Novanta, sotto il vecchio leader Deng Xiaoping, le rivendicazioni di Pechino erano piuttosto brusche, ma nel 1999 a Manila era bastato far incagliare sul suo lembo di territorio un vecchio mezzo da sbarco, il Sierra Madre, per trasformarlo in un efficace avamposto militare contro le incursioni cinesi.

Dal 2012, invece, le Filippine devono fare i conti con la politica ben più muscolare e aggressiva di Xi Jinping, e soprattutto con la principale flotta al mondo. Oggi l’Esercito popolare di liberazione (si veda il riquadro a pag. 48) incrocia nell’area con 370 navi da guerra e con un numero indefinito dei suoi nuovi, grossi mezzi anfibi overcraft classe Zubr, ognuno dei quali capace di trasportare a una velocità superiore ai 100 chilometri orari 500 marines, tre carri armati e decine di veicoli corazzati. Sono imbarcazioni progettate proprio negli ultimi anni, su misura non soltanto per la tante volte minacciata invasione di Taiwan, ma anche per un possibile attacco contro l’arcipelago filippino. La Repubblica popolare fa sempre più paura perché pretende per sé il controllo dei traffici marittimi e dei più piccoli scampoli d’isola contenuti in quello che definisce «il Mare cinese meridionale» e che per Manila è invece «il Mare delle Filippine Occidentali»: un’area, comunque la si definisca, che è strategica a livello globale per gli immensi traffici commerciali e petroliferi che vi transitano, oltre tremila miliardi di dollari all’anno, e per le potenziali risorse sottomarine. Il problema è che oggi, nell’area, la potenza navale di Pechino sovrasta di molte misure non soltanto quella filippina, forte in totale di appena 85 vascelli (mediamente di piccole dimensioni), ma supera agevolmente perfino quella degli Stati Uniti suoi alleati, fermi a 299 navi da guerra dislocate in tutto il globo. È in questo scenario gravemente squilibrato che da mesi le scaramucce attorno all’isolotto Thomas Shoal si stanno facendo sempre più intense e preoccupanti.

Lo scorso marzo, per la prima volta nella storia, un cargo filippino spedito a rifornire la piccola guarnigione asserragliata sull’atollo nel vecchio mezzo da sbarco arrugginito è stato bloccato con i cannoni ad acqua da due guardacoste cinesi, e tre marinai di Manila sono rimasti feriti. Una dura protesta diplomatica non è bastata: la battaglia ad acqua si è ripetuta all’inizio di maggio, e i feriti stavolta sono stati quattro. Tanto che il 27 maggio l’analista militare Derek Grossman ha scritto sulla rivista Foreign Policy che «lo scontro ha portato a una situazione in cui la guerra nel Mar cinese meridionale sembra più probabile che in qualsiasi altro punto nevralgico dell’Indopacifico, compreso lo Stretto di Taiwan». A dargli ragione, quattro giorni dopo, è stato il presidente Ferdinand Marcos Jr, al governo dal giugno 2022: «Se mai un marinaio filippino dovesse essere ucciso per un incidente causato dalla Guardia costiera cinese» ha dichiarato, «noi lo interpreteremmo come il superamento di una sottile linea rossa e cioè come qualcosa di molto vicino a un atto di guerra, e il nostro livello di risposta sarebbe del tutto adeguato». Poi Marcos ha ancora alzato il livello dello scontro ideale: «Il mondo deve sapere che la pace e la stabilità in quest’area non è una questione nostra, perché riguarda la sicurezza del mondo intero».

In effetti la «sottile linea rossa» di cui parla Marcos è in tensione ormai da troppo tempo: già sotto la presidenza del suo predecessore, il più «morbido» e diplomatico Rodrigo Duterte, le navi di Pechino venivano usate mensilmente come strumenti di pressione e minaccia. Sotto Marcos, però, lo stillicidio degli attacchi si va ripetendo più intensamente. Nell’ottobre 2023 due navi da guerra hanno intenzionalmente speronato due guardacoste che Manila aveva posto a difesa dell’atollo di Ayungin, nell’arcipelago delle Isole Spratly che Pechino rivendica al 90 per cento come suo dal 1999, anche se il 12 luglio 2016 la pretesa è stata ufficialmente respinta come «infondata» da una sentenza del Tribunale internazionale dell’Aja. Lo scontro si è poi ripetuto nel dicembre scorso, quando una fregata cinese ha affondato con i suoi cannoni ad acqua un’imbarcazione filippina che tentava di avvicinarsi all’atollo di Scarborough Shoal, anch’esso appartenente a Manila. In quella occasione il governo di Marcos ha lanciato un allarme globale: «La Cina vuole impadronirsi di Scarborough per costruirci una nuove basi militari». Non sarebbe nemmeno la prima volta: l’Esercito popolare di liberazione l’ha già fatto nel 2014 con un altro atollo conteso nel Mar Cinese meridionale, quello di Panganiban. Dopo averlo occupato illegittimamente, in meno di due anni Pechino l’ha trasformato in una mini-base navale militare fortificata, con tanto di una pista d’atterraggio lunga 2.500 metri, nonché protetta da basi missilistiche.

È per questi movimenti a tenaglia se da nove anni le Filippine hanno firmato con gli Stati Uniti un accordo di cooperazione militare che prevede l’intervento americano in caso di un attacco. Visti il recente peggioramento della situazione, le esercitazioni militari congiunte tra i due eserciti sono aumentate, e lo scorso 22 maggio il Pentagono ha installato anche nelle Filippine il Joint Pacific multinational combat training center, con l’obiettivo di rafforzare la strategia di difesa di Manila: il Jpmctc è un «sistema di sistemi» informatici, una specie di quartier generale tattico ad altissima tecnologia che è già stato impiegato dagli alti comandi americani nel quadrante Pacifico – dall’Australia all’Indonesia – per preparare al meglio i Paesi alleati in caso di attacco. Nell’attesa, i marinai asseragliati a Thomas Shoal fanno gli scongiuri. E il mondo con loro.

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