Grazie a carte ora rese pubbliche, una nuova verità sulla strage del Dc9 Itavia esploso il 27 giugno 1980 passa da Beirut. E da una precisa pista palestinese…
Nell’Archivio centrale dello Stato, a Roma, il governo di Mario Draghi ha appena depositato un fascicolo che potrebbe cambiare la storia d’Italia. Nel raccoglitore, sotto il titolo «Ustica», sono contenuti 32 documenti fin qui classificati «segretissimi», che svelano le possibili, vere cause della strage che il 27 giugno 1980, sul mare attorno all’isola siciliana, costò la vita alle 81 persone imbarcate sul Dc9 Itavia in volo da Bologna a Palermo. Era stata una delle promesse mancate di Matteo Renzi: «Cancelleremo il segreto di Stato su tutte le stragi che hanno macchiato la storia repubblicana», aveva garantito nel 2014 l’allora premier. Negli ultimi otto anni, però, non s’era fatto un solo passo avanti, tant’è che nell’agosto 2020 il governo giallo-rosso di Giuseppe Conte ha potuto negare alla presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime di Ustica, Giuliana Cavazza, l’accesso a una serie di documenti «segretissimi», sostenendo che la loro divulgazione «avrebbe arrecato grave pregiudizio agli interessi della Repubblica».
Le carte ora declassificate da Draghi sono tante, 200-300 documenti. Sotto il titolo «Ustica» sono raccolti anche i cablogrammi spediti a Roma dalla nostra ambasciata in Libano tra il novembre 1979 e il giugno 1980. Il mittente è il colonnello Stefano Giovannone, nome in codice «Maestro», dal 1972 capocentro a Beirut del Sid e poi del Sismi, i servizi segreti militari. Giovannone è stato a lungo il terminale dell’intelligence nella galassia rivoluzionaria palestinese. Carlo Giovanardi è tra i pochissimi ad avere già avuto accesso ai suoi messaggi, sepolti negli archivi del Sismi, quando era membro della commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro. Era il 2016. Da allora, l’ex ministro ha sempre denunciato che quei cablogrammi contengono una verità sconvolgente su Ustica, ma gli è sempre stato impedito di divulgarne il contenuto. Ora la sua battaglia ha un’arma in più. «Adesso», dice Giovanardi a Panorama, «posso finalmente rendere pubblici gli appunti che ho preso».
Tema centrale dei messaggi di Giovannone è il sequestro di due missili terra-aria Sam 7 di fabbricazione sovietica, avvenuto nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979 a Ortona, vicino a Chieti. I carabinieri fermano i tre militanti di Autonomia operaia che li trasportano, e il 13 novembre arrestano anche il destinatario dei missili: è un palestinese residente a Bologna, Abu Anzeh Saleh, che si finge studente universitario ma in realtà è il capo in Italia del Fronte popolare per la liberazione della Palestina.
Da Beirut, Giovannone inizia a segnalare che l’arresto di Saleh e dei suoi compagni comporta gravi rischi per l’Italia. Il 16 novembre descrive la preoccupazione di Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e vicino al FplP, il quale «ha compreso che l’episodio di Ortona costituisce la prova, sino ad allora mancante, della collusione tra palestinesi e terrorismo internazionale, che potrebbe coinvolgerli in corresponsabilità per operazioni più efferate degli anni precedenti». Tra le righe, Giovannone più volte fa riferimento agli «accordi» e agli «impegni» che dal 1973 legano l’Italia alle sigle del terrorismo palestinese (si veda il box a destra). Accenna, qua e là, a quella che si percepisce come un’intesa inconfessabile, lo scambio tra l’impunità garantita a quei terroristi in transito per il nostro Paese e uno stop agli attentati in Italia da parte loro.
È stato denominato «Lodo Moro» dal nome di Aldo Moro, il democristiano che tra il 1968 e il 1974, quasi ininterrottamente, è stato ministro degli Esteri e ha sempre usato Giovannone come suo «ambasciatore» nel mondo arabo. Sull’esistenza del «Lodo», fin qui, la politica si è divisa. La magistratura ha deciso che nessun accordo di quel genere sia mai esistito, negando che le stragi di Ustica e anche quella successiva alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, possano essere state la mostruosa ritorsione del Fplp per il sequestro dei missili di Ortona e per il processo aperto contro il suo capo in Italia. Ora, grazie alla desecretazione decisa da Draghi, qualcosa finalmente potrebbe e dovrebbe cambiare.
Ma torniamo al 1979. Rispetto ai governi filo-arabi degli anni di Moro, la politica italiana ha appena fatto un’inversione di 180 gradi. Da agosto, a Palazzo Chigi siede Francesco Cossiga, filoamericano e filoisraeliano, nemico dichiarato di ogni cedimento alla causa palestinese. Anche i servizi segreti non sono più tanto ricettivi nei confronti dei suggerimenti che arrivano dal «Maestro» di Beirut. In questo nuovo scenario, a metà dicembre, Saleh e i tre compagni di Autonomia operaia vanno a processo per direttissima, imputati d’introduzione clandestina, trasporto e detenzione illegale di armi da guerra. Il 18 dicembre 1979, Giovannone telegrafa da Beirut che «l’interlocutore Taisir Quuba (il «ministro degli Esteri» del FplP, ndr) habet minacciato immediata azione dura rappresaglia nel momento in cui venisse a conoscenza del rifiuto aut non-rispetto dell’impegno richiesto». Accenna alla richiesta di «passi urgenti, idonei a ridimensionare la gravità delle imputazioni addebitate agli autonomi incriminati».
A Chieti, invece, il processo va avanti. Il 10 gennaio 1980 gli avvocati degli imputati producono un surreale documento del FplP, che rivendica la proprietà dei missili sequestrati e ne chiede la restituzione, sostenendo che i Sam 7 in Italia «stavano solo transitando e non c’è mai stata l’intenzione di usarli», con l’aggiunta velenosa che il governo di Roma era stato «informato di tutto». Non serve. Il 25 gennaio arrivano le condanne: sette anni di reclusione per tutti e quattro gli imputati. Da Beirut, Giovannone continua a spedire messaggi sempre più allarmanti. Il 12 maggio annuncia che sei giorni dopo scadrà «l’ultimatum» per la risposta alle richieste dei palestinesi, e aggiunge che «in caso di risposta negativa» il FplP «intende riprendere – dopo sette anni – la propria libertà di azione nei confronti dell’Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi, con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti».
Cinque giorni prima dell’inizio del giudizio d’appello, alle 10 di mattina del 27 giugno 1980, Giovannone avverte Roma che il FplP ha deciso «di riprendere totale libertà di azione, senza dare corso ulteriori contatti, a seguito mancato accoglimento sollecito spostamento processo». Dice che si attende «reazioni particolarmente gravi», in quanto il Fronte popolare «ritiene di essere stato ingannato». Undici ore dopo – alle 20 e 59 – il Dc9 Itavia esce per sempre dai radar.