Negli Stati Uniti, un medico colpito dal morbo si è fatto trapiantare le sue stesse cellule staminali trasformate in neuroni.
E i sintomi sono regrediti. Un caso unico, che però segna un’accelerazione nelle terapie. Per un futuro prossimo dove ci sono
anche anticorpi monoclonali, ultrasuoni e persino la fibra ottica.
Lunedi 8 giugno George Lopez si è alzato dal letto e si è fatto una nuotata nella piscina della sua villa a San Clemente, California. Attività di nessunissima rilevanza, non fosse che fino a un paio di anni fa questo ricco medico americano, oggi 69enne, non riusciva neanche ad allacciarsi le scarpe. A segnare il confine tra il prima e il dopo è stato un trapianto unico al mondo: Lopez si è fatto prelevare una manciata di cellule staminali dalla pelle, gli scienziati le hanno coltivate in laboratorio fino a farle diventare neuroni «neonati» (le staminali in origine sono capaci di creare qualsiasi tessuto del corpo, poi si differenziano) e, al Weill Cornell Medical Center di New York, le hanno poi reiniettate nel cervello del loro paziente. E tutti, Lopez e l’équipe medica del biologo cellulare Kwang-Soo Kim, hanno incrociato le dita affinchè le nuove cellule si dimostrassero in grado di produrre dopamina: la sostanza che viene e mancare nei malati di Parkinson causando tremori, ridigità dei movimenti, incapacità di svolgere anche le più piccole attività quotidiane.
Il «trapianto» di neuroni di Lopez, forzando il concetto, è stato fatto nel 2017, ma solo ora i ricercatori hanno pubblicato lo studio sul Weill Cornell Medical Center dovevano prima essere sicuri che eventuali risultati non fossero dovuti all’effetto placebo (abbastanza potente da indurre benefici), alla forza di volontà di Lopez (avendo finanziato l’esperimento con un assegno da due milioni di dollari, era assai motivato a vederne anche il più piccolo miglioramento), o non fossero temporanei. E i risultati, a distanza di tre anni, dicono che le staminali di Lopez producono effettivamente dopamina; e lui assicura di aver ripreso a passeggiare, nuotare appunto, guidare l’auto. Non esattamente come quando era sano, ma di sicuro meglio rispetto a prima dell’esperimento.
Certo, si tratta, avvertono gli scienziati, di un solo paziente (senza gruppo di controllo con placebo) e solo il tempo e altri test potranno dire se la tecnica è davvero efficace. I «miracoli» alla Lourdes non hanno cittadinanza nella scienza. Però, nella cura del Parkinson, possiamo tranquillamente parlare di una rivoluzione in corso. Fatta, in futuro, di trapianti di staminali, terapia genica, anticorpi monoclonali, nanoparticelle, optogenetica, correnti ioniche. E, nel presente, neurostimolazione cerebrale profonda, ultrasuoni, farmaci personalizzati.
«Nell’esperimento del paziente californiano, le staminali adulte provenienti dalla sua cute e riprogrammate fino a tornare totipotenti si sono differenziate in neuroni che producono dopamina. In passato si era provato a farlo con staminali fetali, ma davano problemi di compatibilità» spiega Roberto Eleopra, direttore Centro Parkinson e disordini del movimento all’Istituto neurologico Besta di Milano. «In questo caso, per ora singolo, prima di giungere a conclusioni certe bisogna valutare gli effetti a lungo termine, e resta il problema di controllare la produzione cerebrale di dopamina: se i nuovi neuroni ne rilasciano troppa, l’eccesso rischia di essere più invalidante della malattia. Su questa tecnica sono in corso studi sia negli Usa che in Europa».
Lo stesso obiettivo, ossia modificare il decorso della malattia quando è in fase iniziale, è al centro anche della terapia genica: qui lo stratagemma è reinserire nei neuroni dove manca dopamina il Dna corretto che ne induca la produzione. «Per evitare potenziali complicanze, e impedire un eccesso di innesto di Dna dopaminergico, si fa in modo che il virus smetta di agire dopo due/quattro duplicazioni. I neuroni così modificati dovrebbero mantenere la loro attività» precisa l’esperto. «Vedremo poi quanto questo corrisponderà a un reale miglioramento clinico». Anche qui, per valutare la reale efficacia serviranno minimo un paio d’anni, come nell’esperimento del signor Lopez (che, ancora oggi, posta video dei suoi progressi agli scienziati che lo hanno operato).
Altro bersaglio da colpire è la sinucleina: proteina anomala e tossica nel Parkinson, espressa dalle cellule nervose dei malati, che danneggia quelle vicine come in una sorta di «contagio». Di recente i ricercatori hanno messo a punto anticorpi in grado di bloccarla. «Sono partiti “trial” clinici internazionali, in cui siamo coinvolti anche noi del Besta, con volontari cui somministrare ogni mese gli anticorpi monoclonali che penetrano nel sistema nervoso» continua Eleopra. I test avrebero dovuto cominciare agli inizi del 2020, poi l’emergenza Covid ha fermato tutto. Saranno verosimilmente avviati entro fine anno. E se tutto andrà bene, gli anticorpi potrebbero arrivare sul mercato nel giro di un paio d’anni.
Oggi per i malati di Parkinson esiste anche la stimolazione cerebrale profonda. I pazienti non devono però avere più di 70 anni ed essere in buone condizioni generali e cerebrali, dal momento che si tratta di un intervento neurochirurgico: si fanno penetrare nel cervello degli elettrodi che, connessi per via sottocutanea a un pacemaker impiantato nel torace, stimolano elettricamente i neuroni, modificandone la funzione e permettendo il controllo completo di tremore, rigidità e lentezza nei movimenti.
Un video su internet (man-who-received-deep-brain-stimulation-surgery-for-parkinsons-disease-turns-off-his-neurostimulator), ne mostra l’impressionante efficacia. L’uomo che lo usa parla veloce, mostra movimenti quasi acrobatici delle mani. Poi, con il telecomando, spegne il suo pacemaker. Immediatamente la voce si rompe, le mani si smarriscono in tremori incontrollabili, lui si fa di colpo rigido. Dopo qualche secondo, preme di nuovo il pulsante «on». E tutti i sintomi scompaiono. È spaventoso perché lo fa sembrare un burattino. Ma è fantastico perché mostra di cosa la scienza oggi è capace.
Altra tecnica di neurochirurgia per il Parkinson, più recente e meno invasiva (non ha limiti di età, non c’è intervento chirurgico, il paziente è sveglio) è basata ultrasuoni focali ad alto-campo sotto la guida della risonanza magnetica nucleare. Da un casco fissato sulla testa del paziente – simile a quello dei parrucchieri – partono onde sonore che si concentrano con precisione millimetrica in un punto del cervello, riscaldandolo. Il risultato è quello di controllare completamente il tremore. Il limite è che non è altrettanto efficace sugli altri sintomi.
Nel mondo della neurostimolazione, peraltro, molto si sta muovendo. Anche in Italia. Alla Sissa di Trieste, per esempio, nell’ambito di un progetto internazionale studiano come modulare l’attività delle cellule nervose nell’epilessia e, appunto, nel Parkinson. Lo spiega Michele Giugliano, responsabile del progetto In-Fet (dove Fet sta per Future emerging technologies): «Per lavorare, le cellule nervose usano flussi di ioni. Il nostro studio, partito il 21 gennaio, consiste nello stimolare il cervello con correnti ioniche, più naturali rispetto alla stimolazione elettrica o a ultrasuoni: nanoscopiche pompe ioniche, fatte di polimeri intelligenti che agiscono sulla comunicazione fra neuroni».
Infine, ad aiutare chi trema per colpa del morbo, sarà anche l’optogenetica. L’idea, precisa Giugliano, è modificare geneticamente i neuroni nell’area colpita dalla malattia (la «substantia nigra»), in modo che possano essere poi riattivati con la fibra ottica, ossia con la luce. Senza elettrodi e neppure polimeri. Già ora, però, chi si ammala può contare su un mondo di terapie efficaci e mirate. Contrariamente all’Alzheimer, dove nulla purtroppo si muove, il Parkinson può essere curato bene e presto, e anche l’attività fisica insieme a una dieta calibrata aiutano a tenere a bada i sintomi. «Oggi, a una diagnosi di Parkinson fatta a 56-60 anni» assicura Eleopra, «si può garantire una qualità della vita buona, con complicazioni ritardate o che neanche compaiono».