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Piero Amara e la giostra delle verità

Piero Amara e la giostra delle verità

ESCLUSIVO. Piero Amara il collaboratore di giustizia più ambito d’Italia, poco prima del suo recentissimo arresto ha parlato a lungo con Panorama. E, tra reticenze e «sue» verità, racconta manovre, fa nomi eccellenti e rivela retroscena di politici, magistrati e affaristi italiani.


Tre lustri fa nel carcere di Potenza aveva soggiornato il principe Vittorio Emanuele di Savoia. Un anno dopo aveva assaggiato il rancio della casa circondariale Fabrizio Corona, che dell’ex galeotto dal sangue blu ricordava malignamente la caduta dal letto a castello per cui era diventato «una barzelletta per tutti». Erano i tempi di Henry John Woodcock e delle sue inchieste mediatiche. Ma adesso che in Lucania è sbarcato un vecchio amico del pm anglo-italiano come Francesco Curcio, nella prigione potentina è arrivato un altro vip, Piero Amara, che sperava di aver chiuso i suoi conti con la cella nel 2020, quando a causa della cosiddetta legge Spazzacorrotti si ritrovò in gattabuia per 12 giorni. Uno spiacevole imprevisto dal momento che dall’aprile 2018 (anno in cui soggiornò nelle patrie galere per tre mesi) aveva iniziato un percorso di collaborazione con la giustizia fortemente sponsorizzato dagli allora vertici della Procura di Roma.

Ma per i magistrati potentini quel ravvedimento non sarebbe stato sincero e il nostro avrebbe continuato a delinquere almeno sino al luglio 2019 per sistemare i processi dell’Ilva a Taranto, città dove grazie alla sua rete di contatti aveva piazzato il procuratore Carlo Capristo.

Nello stesso periodo, però, Amara, cinquantaduenne avvocato originario di Augusta (Siracusa), avrebbe riempito centinaia di pagine di verbali in giro per l’Italia. Addirittura tra fine 2019 e inizio 2020 sarebbe stato interrogato dieci volte dai pm di Milano Francesco Greco, Laura Pedio e Paolo Storari. In Lombardia ha svelato i segreti della cosiddetta loggia Ungheria, presunta associazione segreta nata in Sicilia, ma diramatasi con i suoi tentacoli in diverse città italiane. Una piccola piovra composta, giura il pentito, da magistrati, politici, imprenditori e lobbisti con ipotetici disegni eversivi.

Tutti i nomi che Amara ha indicato come «fratelli» nei verbali hanno smentito la sua ricostruzione, compresi quelli che citeremo in questo articolo. Ma lui, da tempo, fa sapere in giro di avere le prove di quello che dice, almeno per alcuni profili, grazie a «registrazioni audio e video» realizzate «per dimostrare che dico la verità». Nei suoi flussi di coscienza Amara si è, però, sempre ben guardato dal soffermarsi sui propri affari con il petrolio iraniano o sulle ricche consulenze che l’Ilva gli pagava per i suoi servigi.

Insomma, è difficile separare il grano dal loglio quando parla questo controverso avvocato. Ed è una premessa indispensabile per chiunque voglia confrontarsi con le sue dichiarazioni. Detto ciò, tra il 10 maggio e il 3 giugno abbiamo avuto un lungo dialogo a puntate con Amara di cui questo articolo è il sintetico diario.

La nostra caccia ai segreti dell’avvocato siciliano è cominciata quasi per caso. Ad aprile è scoppiato il caso della loggia Ungheria e sulle chat delle toghe ha iniziato a girare il messaggio di Sebastiano Neri, già giudice e parlamentare: «Per meglio comprendere sarebbe interessante scorrere la lista degli invitati a una mega cena organizzata nella primavera del 2015 (in realtà 2014, ndr), quando l’astro di Amara godeva del massimo splendore, tanto in Sicilia quanto a Roma».

Neri ricordava che molti dei presenti appartenevano a Magistratura indipendente (Mi), ma erano poi diventati i suoi «più velenosi avversari». Il riferimento era, per esempio, ad Alessandro Pepe, passato da Mi ad Autonomia e indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo. «Avendo casualmente appreso della cena organizzata dall’avvocato Amara, personaggio a me noto per essere io originario della provincia di Siracusa, mi premurai di consigliare a Pepe di non partecipare a quella cena. Appresi poi dallo stesso Pepe che, nonostante i miei avvertimenti, era andato lo stesso. Seppi anche che alla serata avrebbero dovuto partecipare tra gli altri Giuseppe Pignatone (ex procuratore di Roma, ndr), Gianni Tinebra (ex capo del Dap, il Dipartimento di amministazione penitenzaria, ndr) e qualche parlamentare. Tuttavia non so chi poi abbia effettivamente presenziato alla serata» continua Neri.

Dopo qualche verifica abbiamo scoperto che l’evento si svolse, organizzato nello scenario esclusivo di Casina Valadier, a Roma. Sia Pepe che un altro ex consigliere del Csm, l’indipendente Paolo Corder, hanno però ricordi vaghissimi del banchetto e rammentano solo di essersi trattenuti poco. «Era tutta gente grande di età che era lì per certi motivi, relazioni, collegamenti… andammo via subito» chiosa Pepe.

Il 10 maggio inviamo questo messaggio ad Amara: «Stiamo cercando conferma alla notizia di una cena avvenuta alla Casina Valadier nella primavera 2014, cui avrebbero preso parte magistrati e politici. È vero che fu organizzata da lei, sponsorizzata dal’Eni e che tra gli invitati c’erano i fratelli Pignatone, Tinebra, i consiglieri Pepe e Corder, l’imprenditore Fabrizio Centofanti (arrestato con Amara nel febbraio del 2018, ndr), l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti e altri? Che tipo di cena era? Mi può dare qualche informazione ulteriore sull’evento?». La risposta arriva un po’ inaspettata: «Le confermo la cena. Le confermo l’invito alle persone da lei citate e credo la presenza. Sull’organizzazione era un po’ più complessa la situazione. Ne parliamo in un altro momento».

Di fronte alla nostra insistenza promette un aggiornamento per il giorno successivo. L’11 maggio ci risponde con questo sms: «Non ho foto o altro. La cena ricordo di averla pagata io. Però non so con quale società o conto». Il giorno dopo aggiunge un particolare: «Posso dirle che era invitata mezza Magistratura indipendente». Però Pignatone non era più in Mi, giusto? «Giusto».

Gli ricordiamo altri magistrati con cui ha dichiarato di essere in stretti rapporti: «Neanche Luigi De Ficchy e Lucia Lotti erano di Mi, ma di Magistratura democratica. E neppure Corder…». Replica di Amara: «Ma quest’ultimo era stato invitato. Lo si voleva “cooptare”. In effetti, comunque, non rileva il riferimento a Mi». Poi spiega che oltre a Pignatone era stato invitato anche il fratello, «ma non il prof», ovvero Roberto, il docente di Economia, bensì «l’altro, Avvocatura distrettuale dello Stato». Domandiamo se quella alla Casina Valadier fosse una cena di Ungheria. Replica: «Più complesso: c’erano tanti amici di Ungheria e spesso in questo modo si cercava di rinsaldare e creare occasioni di incontro con altri magistrati o uomini di Stato. Ma non c’erano reati».

Ricordiamo ad Amara che Pepe ci ha riferito di essere stato invitato dall’allora numero 2 del Csm, Vietti. «È possibile perché Vietti era uno degli organizzatori. Di fatto gli organizzatori eravamo io, Filippo Paradiso (poliziotto e lobbista arrestato con Amara l’8 giugno, ndr), Vietti e Centofanti».

Contattiamo i diretti interessati e poi informiamo Amara del risultato del giro di telefonate: «Paradiso ci ha detto: “Io non ho rapporti con l’avvocato Amara” e non ricorda la cena. Anche Vietti nega tutto. Centofanti non risponde». Amara replica con una lunga fila di smile e poi ci invia un messaggio per Vietti: «Gli dica che dal pc dell’avvocato Amara risulta una cena a Torino a casa sua; presenti lui, la moglie e Amara. Dica anche che due collaboratori di Amara la confermano e la descrivono come una normale serata». Su Vietti non vuole aggiungere altro: «Mi scusi, ma è uno di quei profili per cui commetterei un illecito se ne parlassi più di tanto. Le confermo, però, se lo vuole utilizzare, che lo conosco perfettamente, ho lavorato con suoi collaboratori, li ho anche pagati bene […] saranno le indagini a dimostrare se lo conoscevo oppure se sto mentendo». E la cena di Casina Valadier? «C’erano almeno 45 persone […] francamente pensavo gliela confermassero un po’ tutti». Amara è colpito dalle smentite e dai «non ricordo» dei suoi presunti vecchi sodali, Paradiso in primis: «Non ci sarebbe nemmeno nulla di male a confermarla. Il fatto che la smentiscano depone malissimo… denota preoccupazione generale».

Ma Pignatone c’era o è stato solo invitato? «Io ricordo che venne per un saluto. Ma sono passati sette anni. Il fratello c’era sicuramente». Altri invitati presenti? «Il generale Vincenzo Delle Femmine della Guardia di finanza. Matteo Piantedosi, attuale prefetto di Roma ed ex vicecapo della Polizia. Credo ci fosse anche Carlo Capristo. E poi c’era uno dei due magistrati che hanno arrestato in Puglia… Michele Nardi». Altri? «Tommaso Virga, un ex consigliere del Csm. Ricordo che era presente anche De Ficchy». Quest’ultimo faceva parte dell’associazione? «Sì, certo, alla grandissima».

Questa affermazione Amara l’ha messa a verbale anche a Milano. È bene ricordare che De Ficchy è il procuratore di Perugia che ha coordinato le indagini su Luca Palamara, così come su Amara, sul suo collega di studio Giuseppe Calafiore e su Centofanti. Adesso la Procura di Firenze sta indagando sui rapporti tra De Ficchy e Centofanti, ma è curioso che l’inchiesta sulla loggia di cui avrebbe fatto parte De Ficchy sia rimasta a Perugia, dove il magistrato è stato procuratore sino al giugno 2019.

Pallino di Amara è pure un’altra toga di Magistratura democratica, l’aggiunto di Roma Lucia Lotti che è stata procuratore di Gela, l’ufficio giudiziario che istruiva i procedimenti sulla raffineria dell’Eni, società di cui Amara era consulente legale. La Procura di Gela era per l’Eni quello che la Procura di Taranto era per l’Ilva. Racconta Amara: «È certo che lei si rivolge a me affinché andassi da Saverio Romano e Totò Cuffaro per farle avere il voto di Ugo Bergamo, laico dell’Udc al Csm. Adesso dice che a Gela non ci voleva andare nessuno, ma non è vero». In effetti il voto al Plenum finì 13 a 9 e per la Lotti: la sostennero le correnti e i laici di sinistra, più Bergamo. Prosegue l’avvocato: «La Lotti è stata anche a casa mia… era totalmente al servizio di quello che si doveva fare. A lei pare normale che un magistrato di Md si rivolga al mio fraterno amico Saverio Romano e a Cuffaro per avere il voto di Bergamo? E lui l’ha votata perché è brava o perché è stata raccomandata? Se lo avesse fatto un concorrente del concorso per i vigili urbani non l’avrebbero arrestato?».

Nelle chiacchiere con Amara escono altri nomi eclatanti tra i presunti appartenenti alla «loggia Ungheria». Come Antonello Montante, ex presidente dei confindustriali siciliani, condannato in primo grado a 14 anni di carcere per corruzione. I nomi sulle agende di Montante e Amara spesso si sovrapponevano: «In Sicilia aveva rapporti importanti con i magistrati anche per ragioni sue» assicura l’avvocato finito in manette. E il chiacchierato lobbista Luigi Bisignani? «È un amico, anche lui faceva parte di Ungheria. Luigi si è già difeso, negando. Mi dispiace perché dal momento che ne ho dovuto parlare, ho dovuto inserirlo, però, mi creda, ho grande stima di questa persona, con me sempre bene si è comportato».

Ma che cos’era Ungheria? «Era una cosa molto fluida. Capitava magari che uno cooptasse una persona all’interno e che questi non sapesse neanche chi c’era a Torino o a Siracusa. La simmetria con i riti di un’associazione massonica fatta sui giornali è una gran c…, anche se c’era chi in concreto sapeva che, col tempo, era diventata un potere deviato, sebbene il fine fosse, a mio avviso, più personalistico che di controllo dello Stato. Il fatto che molti fossero massoni non significa che l’associazione fosse massonica. È Storari che ha voluto verbalizzare a tutti i costi la definizione di loggia».

Da dove si deduceva la sua segretezza? «Inizialmente perché veniva rappresentata con quelle frasi che si usano in certi ambienti, “circolo più ristretto” e così via. Poi mi venne detto in modo chiaro che non era riconosciuta né conosciuta e che facevo parte di un gruppo di persone che non dico si dessero mutuo soccorso, ma si riconoscevano in determinati ideali, a partire da quelli del garantismo. Però, parlando sinceramente, era un luogo dove sostanzialmente c’era uno scambio di favori».

Ungheria sarebbe stata una specie di emanazione dell’Opco, l’Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata: «È stato ideato da Giovanni Tinebra e da un certo Ghezzi, un professore massone dichiarato». Giovanni Tinebra e Morris Lorenzo Ghezzi sono morti nel 2017 a distanza di due settimane l’uno dall’altro. Ghezzi, milanese, è stato giurista, sociologo, filosofo, avvocato e accademico italiano oltre che gran maestro del Grande Oriente d’Italia. «Il nome della loggia, Ungheria, lo stabilì lui, ma per ragioni che non c’entravano nulla con la romana piazza Ungheria, collegamento di cui ha parlato qualcuno. L’Opco, invece, era il centro di potere di Tinebra di cui facevano parte molti magistrati, ma non tutti quelli che aderivano all’Opco automaticamente facevano parte del gruppo ristretto di Tinebra» continua Amara. Che ci segnala un altro sodalizio di magistrati su cui dovremmo soffermarci: «L’Aprom di Pasquale Dell’Aversana, un altissimo funzionario dell’Agenzia delle entrate, associato a Ungheria come non mai». Il discorso va avanti sull’Opco. «Tra l’osservatorio e Ungheria c’era lo stesso rapporto che c’è tra insieme e sotto insieme. Il 70 per cento delle persone che stavano nell’Opco partecipavano contestualmente all’associazione Ungheria. Se alcuni erano assolutamente allineati ai diktat di Tinebra, altri no».

Citiamo i membri del comitato scientifico di Opco ad Amara e lui ci dice chi, ovviamente a suo insindacabile giudizio, facesse parte di Ungheria. Ci sono generali della Guardia di finanza, ex presidenti della commissione antimafia come Roberto Centaro («ma anche il fratello Alfonso faceva parte di Ungheria») e magistrati. Su internet si trova ancora un manifesto di un evento dell’Opco. Tra i partecipanti pure Roberto Alfonso, ex Pg di Milano (oggi tra i probiviri dell’associazione nazionale magistrati che sta esaminando le chat di Palamara). Chiediamo ad Amara se anche questi facesse parte di Ungheria. Risposta: «Lì mi crea un problema grosso come una casa». Meno difficoltoso ammettere l’«affiliazione» del consigliere del Csm Sebastiano Ardita. Che però ha sempre negato. «Con questo non voglio dire che Ardita abbia commesso reati, a mio avviso è un uomo davvero integerrimo. Sia io che lui che altri giudici eravamo componenti del comitato scientifico dell’Opco e questi magistrati, che io ho già sentito, confermeranno la mia presenza, la nostra conoscenza e una cena di rappacificazione tra Tinebra e Ardita alla presenza di altre tre toghe».

E perché dovettero riconciliarsi? «Tinebra gli chiese una cortesia per un imprenditore e Ardita che è una persona seria non gliel’ha fatta, quindi Tinebra gli ha dichiarato guerra. Ma poi ci fu la cena di riconciliazione alla presenza di Paolo Giordano (ex procuratore di Siracusa, ndr), Alessandro Centonze (consigliere della Cassazione di origini siracusane, ndr) e Maurizio Musco (ex pm destituito dalla magistratura per i rapporti con Amara, ndr)». Giura che uno di questi, Centonze, lui lo avrebbe già registrato: «Indirettamente. Gli ho mandato una persona. Purtroppo sono costretto a registrare la gente».

La colpa a suo giudizio è del pm Storari che lo avrebbe obbligato a fare dichiarazioni su cui non aveva riscontri. «Mi diceva: “Lei dica tutto quello che sa, poi le prove le cerco io…”. E pensare che le mie precedenti dichiarazioni erano state qualificate dalla Cassazione come “granitiche”, perché mi ero sempre limitato a riferire ciò che potevo provare. Per fortuna sono andato, per conto mio, a registrare le persone se no a quest’ora ero nella m…più totale…». Poi gli sfugge una frase sibillina: «L’ho fatto su indicazione…», ma prima di completarla si interrompe.

Amara ammette di aver tenuto per sé una questione assai delicata anche se Storari insisteva. Si parlava dell’uccisione del pentito Luigi Ilardo che non si fidava di Tinebra: «A Catania venne aperta un’indagine. La gestione di quel fascicolo fu veramente orribile e ne parlai a Storari nei corridoi della Procura di Milano. Anche in questo caso mi disse che dovevo verbalizzare quello che sapevo. Ma io non volevo infilarmi nei processi di mafia e così su questa e altre circostanze sono rimasto abbottonato…».

Ha invece accettato di mettere nero su bianco le accuse contro Marco Tremolada, il giudice che a marzo ha assolto i vertici Eni nella vicenda delle presunte tangenti nigeriane. Amara avrebbe sentito dire che presso Tremolada avevano porta aperta gli avvocati della compagnia petrolifera: «Ma era solo un chiacchiericcio… non capisco come i pm possano avere trasmesso gli atti a Brescia. Una notitia criminis deve avere un minimo di supporto probatorio, non si può basare su un chiacchiericcio…».

Brusii di cui Amara avrebbe parlato in corridoio per poi essere richiamato da Storari: «Questa cosa la dobbiamo verbalizzare» mi disse. «Io una volta sono sbottato: “Lei non capisce un c… per me questo fascicolo lo potete anche archiviare”. Successivamente ho capito che alcune cose interessavano anche a loro…». Amara passa poi a parlare delle sue famose pistole fumanti contro coloro che lo smentiscono. «Alcuni magistrati dicono che non mi conoscono. Le faccio un nome e un cognome: Francesco Saluzzo». Il riferimento è al procuratore generale di Torino che avrebbe partecipato a una cena con Amara a Roma insieme con l’ex direttore generale del Consiglio di Stato Antonio Serrao e con un altro commensale recentemente defunto.

Saluzzo gli avrebbe chiesto l’appoggio di tre componenti del Csm per diventare Pg a Torino: «Per fortuna ho registrato Serrao e gli ho detto: “Ti ricordi Saluzzo?”. E lui: “Ma chi, quello che dovevamo mandare alla procura generale di Torino?”. Io di rimando: “Tonino, non è che hai parlato della nostra associazione, dei cenacoli con Tullio Del Sette (ex comandante generale dei Carabinieri, ndr), se no mi esce fuori tutto il filone dei magistrati?”. E lui mi risponde: “Ma stai scherzando io non ho parlato dell’associazione, di Del Sette e di Saluzzo con nessuno”». Serrao, dopo che è andato in pensione, è diventato procuratore federale della Figc e, interrogato a Milano, avrebbe spiegato che l’associazione di cui parlava era quella del gioco calcio.

A proposito di registrazioni, Amara fa un altro esempio e cita il caso dei presunti maneggi da parte dell’ex consigliere del Csm Marco Mancinetti per far superare il test di medicina al figlio. Mancinetti ha sempre negato e ha annunciato querele, salvo dimettersi all’improvviso dal parlamentino dei giudici nel settembre del 2020. Amara sembra molto divertito dalla sua presunta prova: «Immagini se ci fosse una registrazione in cui il rettore parlando con un’altra persona dicesse: “Ma ti rendi conto che mi hanno offerto soldi per avere i temi?”. Non sarebbe grave questa cosa raccontata dal rettore che poi a Perugia ha negato se stesso? C’è gente che non ha idea di quello che emergerà su alcuni profili».

C’è una terza presunta «smoking gun» che riguarda il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi. Il motivo del contendere è l’assunzione di una presunta amica del giudice da parte di Amara: «Centofanti venne da me e mi disse che dovevamo fare questa cortesia a Patroni Griffi. Quando poi decisi di mandarla via, perché la signorina era un po’ arrogante, il presidente venne a trovare me e Calafiore. Ci incontrammo in un ristorante. Fu molto gentile e quando viene da te il presidente del Consiglio di Stato e ti chiede una cortesia non puoi dirgli di no».

Ci sono registrazioni di quell’incontro? «No, solo testimonianze. Ma visto che lui dice che non conosce né me né Calafiore, per quello c’è un video inequivocabile di un incontro tra lui e Peppe, che era già stato sentito a Milano come testimone, ripreso con il telefonino dalla compagna del mio collega. È stato depositato in procura. Calafiore, quando ha incontrato a Roma Patroni Griffi, aveva un look particolare, era in tuta. Tu magari puoi anche fermarti a salutare un avvocato, ma lì Peppe aveva una mise molto particolare… il presidente si alza e lo saluta quasi con l’inchino».

Gli facciamo presente che le sue dichiarazioni valgono una copertina di Panorama. L’uomo sembra attraversato da un presagio sinistro: «Se poi, detto in siciliano, mi scippano la testa nonostante la mia collaborazione? Io sto un momento in dubbio perché conoscendo il sistema… il diritto non esiste in natura, esiste nella testa dei giudici. Se ti vogliono massacrare ti massacrano». Pensieri cupi che adesso starà rimuginando dentro al carcere di Potenza.

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