Una generazione devastata da ansia, problemi psichici, disturbi alimentari, autolesionismo. I pochi centri psichiatrici infantili sono del tutto impreparati di fronte a un’emergenza dalle cifre impressionanti: il suicidio è la seconda causa di morte nell’adolescenza. E i genitori non sanno più dove rivolgersi per un aiuto.
Sedie di plastica e luci al neon, ma anche poltrone, poltroncine, divani di finta pelle, piante, finte pure quelle, riviste vecchie di mesi e quadretti di paesaggi esotici (forse per provare a sognare). E poi, corridoi infiniti, caffè, tanti caffè, a volte si sta in piedi, ci si guarda con sospetto, con pietà («Mio figlio non è messo male come il tuo», si spera). Ci si scruta in silenzio tra madri: chi ha il viso più stanco e i capelli più sporchi.
Ecco il dietro le quinte delle visite da uno psichiatra perché tuo figlio o tua figlia ha un disagio mentale. Una sera ti ha confidato di soffrire, di stare troppo male. E tu non sai cosa fare. Il passaggio dallo psicologo ormai si salta, «psichiatra is the new psicologo», sorride amaro un padre parafrasando la celebre serie, anche lui seduto su una di quelle maledette sedie. Dove ci passi la vita, mentre loro crescono tra ricette di antidepressivi, antiepilettici usati off-label – così ti spiegano -, analisi per scoprire il dosaggio magico del litio (la formula dell’atomo è più semplice).
Visite su visite condotte da uomini (perlopiù) in camice bianco che parlano sottovoce – non si capisce perché – e in modo suadente, guardando il giovane paziente con una sorta di accondiscendente complicità. Tanto il fumetto sopra la testa è sempre: «La colpa è dei tuoi che non sanno fare il loro mestiere e così ora tocca a noi».
Forse i genitori si sono trovati impreparati davanti all’immensa mole di dolore psichico che con uno sprint da Formula Uno dopo la pandemia sta mettendo in ginocchio una generazione. Ma anche la neuropsichiatria infantile di fronte a questa catastrofe è senza armi. Don Chisciotte contro i mulini a vento aveva più possibilità.
«È una situazione di crescita quasi esponenziale da circa dieci anni. Quindi ben prima della pandemia» spiega Stefano Benzoni, neuropsichiatra infantile, consulente per la Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. «Le risorse economiche a livello nazionale erano in diminuzione. La forchetta del bisogno inevaso era già amplissima. Oggi in Italia soltanto un terzo dei ragazzini che ha bisogni neuropsichici trova risposte nel servizio pubblico. E considerando che il suicidio è la seconda causa di morte in adolescenza, ciò significa che a due terzi delle famiglie diciamo di andare a farsi curare nel privato. Le liste d’attesa sono talmente lunghe che finiscono per “gocciolare” fuori dal sistema almeno due milioni di giovani con problemi». In Lombardia 10 mila adolescenti richiedono un ricovero specialistico. Di questi solo la metà lo trova, gli altri vengono ricoverati in strutture non adeguate.
«Abbiamo 700 ragazzini in psichiatria per adulti» continua Benzoni. «La sofferenza è sempre più complessa, si vedono casi di disturbo dell’umore, disturbo alimentare, si tagliano e magari sono due anni che non vanno più a scuola». La maggior parte delle famiglie che attraversa questa via crucis non arriva a ottenere una cura, nel migliore dei casi ricevono dei trattamenti. O si finisce al Pronto soccorso. E quando arrivi a sederti su quella sedia è troppo tardi. «Le comunità terapeutiche sono sature. Le richieste sono doppie rispetto ai posti disponibili. Stiamo assistendo a una psichiatrizzazione di ritorno: aumentano i ricoveri, la durata e gli allontanamenti dalle famiglie. Abbiamo chiuso i manicomi più di 40 anni fa, ma fondamentalmente stiamo invertendo la traiettoria» conclude Benzoni.
Manca una visione d’insieme, non basta erogare le risorse a pioggia, che creano solo pericolose sperequazioni. Se vostra figlia per un destino crudele soffrisse di anoressia in Calabria, la soluzione è una sola: affidarsi al fato. In tutta la regione non c’è un reparto di neuropsichiatria infantile. E qui siamo oltre la vergogna.
Erminia Mannarino, neuropsichiatra infantile presso l’ASP di Cosenza, racconta: «Non possiamo ricoverare i nostri ragazzi. Prima della pandemia venivano mandati al di fuori della Calabria. Dopo, con l’aumento drammatico delle richieste, i tempi d’attesa sono diventati infiniti. Così siamo costretti a curarli in ambulatorio. E questo comporta pesanti responsabilità. Non abbiamo nemmeno strutture residenziali terapeutiche. Cerchiamo di fare del nostro meglio con i pochi strumenti che abbiamo. Pensi che la macchina per fare l’elettroencefalogramma è ancora rotta da prima della pandemia».
Ritiro sociale, abbandono scolastico, una crescita impressionante del disturbo della condotta alimentare (il rapporto è 5 a 1 per le femmine e ci sono anche bambine di 9 anni), episodi di pesante autolesionismo, mentre aumentano i suicidi. La diagnosi più frequente è «borderline», che vuol dire tutto. Racconta una madre: «Sono sei mesi che mia figlia chiama dopo essere entrata a scuola supplicando di andare a prenderla. Io devo scappare dal lavoro. E andiamo avanti così: niente scuola e psicofarmaci». L’Oms stima che il 10-20 per cento di bambini e adolescenti nel mondo soffra di un disagio psichico. Attualmente è la prima causa di disabilità sotto i 18 anni.
Dario Calderoni, neuropsichiatra infantile al Policlinico Umberto I, assiste sempre più spesso alle «porte girevoli»: «Nel giro di un anno ci sono ragazzi, anche bambini di 10 anni, che hanno fatto fino a quattro ricoveri. Prima del Covid l’aumento era del 15 per cento l’anno. Dopo siamo arrivati al 30-40 per cento di crescita costante. Bisogna ripensare alle politiche della salute mentale nell’adolescenza. È la fascia d’età con il maggior incremento di bisogno assistenziale. L’unica dove si può fare ancora qualcosa. Altrimenti diventeranno tutti cronici».
Una generazione triste, sensibile e apatica, sembra che dopo il lockdown abbiamo dichiarato guerra ai loro corpi, massacrandoli. Molti tentano di uccidersi, anche con la tachipirina, Altri, grazie ai consigli su TikTok, si procurano segni rossi sul viso. La cicatrice francese, l’ultima follia social. Se un tempo era il Prozac la pillola magica per affrontare l’euforia degli anni Ottanta, oggi sono il Rivotril, il Gabapentin, il litio e lo Xanax (troppo spesso usato soprattutto per sballarsi) i rimedi per calmare un’ansia che li tormenta senza sosta.
Alfio Maggiolini, direttore della scuola di psicoterapia psicoanalitica del Minotauro, nel suo Pieni di rabbia li racconta: «Manifestano i disagi attraverso comportamenti oppositivi, trasgressivi, aggressivi. Chi non ha una famiglia solida, con risorse alle spalle, ma è annegato nelle problematiche familiari, subisce effetti deflagranti. Hanno risentito della crisi economica, il disagio sociale è alla base di questa nuova rabbia». La furia senza ideologia è un modo per provare a reagire a una situazione di frustrazione: «Hanno uno stile antisociale di personalità, caratterizzato da una tendenza a essere impulsivi, ad avere un senso grandioso di sé, mai sensi di colpa, nessuna empatia e una certa durezza» conclude lo psicoterapeuta. Osserva Alessandro Albizzati, direttore della struttura di neuropsichiatria infantile dell’Asst. Santi Paolo e Carlo di Milano. «Sono sempre più piccoli, ormai abbiamo segnalazioni di abuso di alcol precoce a 11 anni. Dopo il virus un quadro ansioso depressivo ha travolto i ragazzini e non accenna a diminuire. Il nostro reparto da due anni è pieno. Anche questa è una pandemia. Ma non vedo un’attenzione alla salute mentale in età evolutiva».
Secondo il neuropsichiatra si tratta la tempesta perfetta: «Da una parte genitori poco competenti e spesso maleducati, e dall’altra una generazione molto sofferente. La maggior parte di loro sono fragili, in famiglie che lo sono altrettanto. Con questa ansia dell’incombente crisi climatica, che non aiuta. Anzi è un contatore che gira continuamente e li schiaccia». Li lascia intrappolati in dolori, che agli adulti possono apparire piccoli, ma sono ferite martellanti.
Come quelle raccontate da Francesco Zani, in Parlami, favola dolorosa ambientata in una Cesenatico, desolata come una foto di Luigi Ghirri. «Il mio libro parte da questi dolori, che frantumano anime indifese. Non si sentono ascoltati, fanno fatica a trovare il loro posto, a essere presi sul serio. Viviamo un’era disumanizzante, che li ha portati a chiudersi nel loro mondo per sopravvivere. La pandemia gli ha rubato i due anni fondamentali. L’esame di maturità non tornerà più. Anche quello è crescere, vivere, essere felici».
Ma loro faticano a essere felici. Seduta su una seggiolina di un day hospital una sedicenne vestita di nero e ricoperta di piercing aspetta da ore il suo turno. Chiunque arrivi si alza, come se sentisse di non meritarsi neanche quella sedia. Quando il medico le porta i test a crocette (passaggio obbligato) li getta a terra. La madre la supplica, ma per lei è chiara l’inutilità. Non si guarisce mai o almeno mai del tutto. Gaia Rayneri ce l’ha fatta e lo ha raccontato in Un libro di guarigione (HarperCollins): «Il primo passo è stato un cambio di approccio radicale. Le ferite della psiche non si curano con un cerotto come fossero un taglio». La giovane scrittrice torinese ha passato anni tra psicoterapia, psicoanalisi e psicofarmaci: «La psicoterapia ha cristallizzato l’immagine di me malata, condannata. Ha aggiunto dolore al dolore. Ed è stato tutto molto costoso: a 25 anni avevo come spese fisse 400 euro di psicologa e 150 di farmaci al mese. Non parlo di una candela e due fiori di Bach, ma di un processo lungo, doloroso, costante».
Roberto Bertolli, psichiatra, psicoterapeuta, tra i fondatori della Casa di Cura Le Betulle di Milano e presidente de La Ginestra osserva: «Il tema è sempre quello della fragilità. I suicidi sono saliti del 75 per cento e l’80 per cento, persino ragazzi sotto i 16 anni. La violenza è cresciuta enormemente, dovuta anche all’uso massiccio della cocaina. I greci dicevano che per fare fronte al senso di vuoto bisognava usare l’etica e l’estetica. Invece questa società sa proporre come modello soltanto gli influencer. E allora cosa ci aspettiamo? I nostri ragazzi sono annichiliti. Esposti al nulla con strumenti fortemente inadeguati. A cominciare dal dramma della scuola».
Quando nel 1969 iniziò a occuparsi di tossicodipendenza tutto era diverso: «I genitori erano molto severi, il ragazzo che si “rompeva” veniva subito etichettato come da curare. Gli interventi erano veloci e significativi. Arrivavano perlopiù eroinomani, oggi scomparsi. Molti dei padri e delle madri di oggi sono i ragazzi sbandati di ieri. Devono ricominciare a mettere regole, come quelle del tennis. Senza, non si può giocare. Ma non penso che riusciremo a cambiare».
I dati Oms dicono che l’esplosione della latenza psichiatrica è in rapporto uno a uno con il consumo di droghe, anche leggere. Pietro Calvi di Bergolo è amministratore del Gruppo Ginestra, dopo essere stato per 16 anni paziente e aver trascorso 187 giorni proprio alle Betulle. Della sua storia di risurrezione ne ha fatto un’orgogliosa testimonianza: «Noi, cinquantenni, siamo figli di genitori egoriferiti, concentrati su di loro, che si occupavano poco di noi. Quando a 18 anni iniziai a stare male mio padre mi disse laconico: “È inutile che vai dallo psicologo, prova a berci su”. Questo era l’approccio. Oggi ai nostri figli cerchiamo di non fare rivivere quello che abbiamo vissuto e gli diamo qualunque cosa chiedano. Ma sono convinto che troppi agi creano disagi. Non hanno sogni. Forse perché oggi non si programma a lungo termine, sembra che manchi l’idea del futuro. Tutto è diventato molto semplice, banale».
Anche la droga, che non è più trasgressione. «Aspettano il fine settimana per ubriacarsi, annullarsi. Come accade nei Paesi del Nord Europa. Quello che è cresciuto maggiormente è l’abuso di hashish, che lavato con sostanze acide è dieci volte più potente di un tempo. Cannabinoidi sintetici in grado di ridurli come zombie. Su cervelli in fase di sviluppo creano effetti devastanti, diventano dipendenti, ossessivi e violenti. Fare percorsi terapeutici comuni sta diventando sempre più complicato. Bisogna ripensare al modello di comunità». Bisogna pensare a una battaglia culturale, alla solitudine di ragazzi e famiglia, alla rabbia di chi non riceve la cura che gli spetta. Bisogna pensare ai nostri ragazzi perduti in quei corridoi infiniti. n
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