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Vaccinare i bambini? Non c’è fretta…

Vaccinare i bambini? Non c’è fretta…

Sono tanti i genitori dubbiosi o timorosi sull’iniezione anti-Covid nella fascia d’età fra i 5 e gli 11 anni. E, anche fra gli esperti, c’è chi
è contro l’opportunità di immunizzarli. Meglio aspettare, dicono, per differenti motivi.


Giulia e Alessandro F., una coppia di Varese, dovranno prendere una decisione importante, dopo il via libera di Ema e Aifa (le due agenzie, europea e italiana, che autorizzano l’entrata in commercio dei farmaci) al vaccino anti-Covid per i bambini dai 5 agli 11 anni. Hanno tre figli piccoli e un dubbio: facciamo bene a immunizzarli?

Domanda che non li ha sfiorati quando, in passato, hanno dovuto fare quelli obbligatori per l’infanzia. Ma ora si chiedono se quei 10 microgrammi da iniettare nel braccio dei loro piccoli siano sicuri. «Ho seguito su Instagram la storia di genitori che hanno avuto il coraggio di vaccinare i propri figli con disabilità» racconta Giulia, 35 anni. «I miei sono sani, mi piacerebbe potermi fidare, ma certo non mi precipiterò a prenotare la vaccinazione. Prima voglio informarmi meglio».

La sua preoccupazione rappresenta le ansie di tanti genitori che devono scegliere cosa fare, o non fare, per i propri figli dopo il 16 dicembre. Più che no vax, è la categoria degli «attendisti», dei cauti, dei prudenti. Che vogliono risposte sicure ai loro timori.
Troppo facile dire che sbagliano. I dati sugli effetti collaterali di ogni farmaco si accumulano nel corso dei mesi e degli anni dopo l’approvazione e la messa in commercio. In questi tempi di pandemia, però, le decisioni sono state prese, per forza di cose, velocemente. Per quanto riguarda i vaccini anti-Covid a mRna di Pfizer destinati ai 5-11 anni, le autorizzazioni dell’agenzia americana Fda, dell’europea Ema e dell’italiana Aifa si sono basate su uno studio della multinazionale su circa 3.000 minori. Una casistica limitata, che ha suscitato critiche da parte di medici e genitori.

«Tra pochi giorni avremo i dati relativi a due milioni di bambini immunizzati tra Stati Uniti e Israele, che daranno più conforto ai genitori insicuri» dichiara Andrea Crisanti, direttore dell’Istituto di Microbiologia di Padova (e certo non contrario ai vaccini in generale). «I più piccoli dovranno essere protetti, ma essendo diversi dal punto di vista biologico e fisiologico, non si possono usare i dati che si hanno sugli adulti». Il caso del primo vaccino contro il rotavirus è emblematico. «Nei bambini causava una complicazione che non si presentava mai negli adulti e quindi fu ritirato» ricorda Crisanti.

Peraltro, non c’è una vera emergenza coronavirus tra i piccoli che, se contagiati, sono in genere asintomatici o con sintomi lievi della malattia. «È prematuro vaccinare bambini a basso rischio di contrarre forme gravi di Covid» afferma Eugenio Serravalle, pediatra, uno dei 120 medici che, già nel 2015, scrissero una lettera aperta all’Istituto superiore di sanità contro l’obbligatorietà dei vaccini. E che oggi è uno dei membri del Comitato tecnico scientifico indipendente. «I rischi della vaccinazione in età pediatrica superano i benefici sia negli studi registrativi che ne hanno permesso l’approvazione in uso emergenziale sia nei pochi esempi di sorveglianza attiva».

Secondo Serravalle, bambini e adolescenti sarebbero esposti a rischi di miocarditi nei maschi, di irregolarità mestruale nelle femmine e di potenziali malattie autoimmuni. Ed è prevedibile che gli eventi avversi possano aumentare con il numero di somministrazioni, prospettate ormai almeno annualmente.

Che i rischi di malattia grave nei bambini siano rari lo ricorda anche Patrizia Gentilini, oncologa ed ematologa: «Parliamo di un caso di ricovero in terapia intensiva su oltre 46.000 diagnosi di Covid-19, spesso per bambini con altre patologie. In Germania, tra i bambini di 5-11 anni senza patologie, il rischio è di 1 su 50.000, e nessuno è morto. Anche vaccinando i bambini, non si raggiunge l’immunità di gregge».

Altra perplessità tra i medici, riguarda il rischio di vaccinare bambini magari guariti da forme lievi e asintomatiche di infezione. «Non si vaccina chi è guarito e possiede gli anticorpi. E non ci sono stime in Italia di quanti bambini siano già guariti» ha avvertito nei giorni scorsi Paolo Gasparini, presidente della Società italiana di genetica (Sigu). Negli Stati Uniti, per esempio, calcoli dei Cdc indicano che il 40% dei piccoli abbia già avuto il Covid.

I bambini hanno poi una vita sociale meno intensa degli adulti, frequentano poco i mezzi pubblici, stanno per lo più in ambienti protetti dove tutti sono immunizzati, come le scuole. «Vaccinarli per la sicurezza di adulti e anziani? La solidarietà sociale da parte chi ha meno di 12 anni rasenta l’ideologia. Il vaccino non va fatto ai bambini per impedirgli di contagiare gli adulti, ma solo se sono fragili» scrive Francesco Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani di Roma, sul suo profilo Facebook.

Qualche settimana fa un gruppo di esperti ha creato il blog «goccia a goccia», coniando l’hashtag #smartProVax. Credono nella medicina personalizzata che tiene conto dei rischi, che non uguali però per tutti. «Dobbiamo rimettere al centro la relazione di fiducia medico-paziente, e non dare messaggi neutri e uguali per tutti» sostiene Sara Gandini, epidemiologa biostatistica, docente all’Università Statale di Milano. «Sono felice della possibilità di poter vaccinare anche i minori ma ho dubbi rispetto alla vaccinazione di massa dei bambini sani. Dovrebbe essere incentivata in chi è più vulnerabile per età, sesso o patologie. Agli altri dovrebbe essere lasciata libera scelta».

Gli interrogativi sull’iniezione in età infantile non sono prerogativa italiana. In Germania, il Koch institute (sede della Commissione permanente per le vaccinazioni) ha pubblicato un rapporto in cui sconsiglia la vaccinazione nei bambini sani fino ai 17 anni, mentre la raccomanda per quelli con patologie preesistenti, o per i piccoli che vivono a stretto contatto con persone anziane o fragili. Il motivo: l’infezione da Covid è – quasi sempre – assai meno grave nei bambini che negli adulti; e mancano dati su eventuali effetti collaterali su larga scala nella popolazione infantile. «Non vaccinerei i miei figli. Non ci sono ancora dati di alcun tipo su larga scala» ha ribadito Thomas Mertens, presidente della Commissione tedesca Stiko specializzata sui vaccini (presso il Robert Koch Institute).

In Inghilterra, 40 medici hanno espresso timori sulla vaccinazione infantile in una lettera alla Mhra, l’Agenzia regolatrice inglese dei farmaci: «I potenziali vantaggi sono chiari per anziani e vulnerabili, ma per i più piccoli l’equilibrio benefici-rischi sarebbe molto diverso» hanno scritto. A sostegno delle loro preoccupazioni citano il caso di Dengvaxia, un vaccino contro la dengue (una malattia emorragica) sospeso nelle Filippine nel 2017: «Distribuito ai bambini prima dei risultati completi dello studio, 19 di loro morirono per un possibile potenziamento immunitario dipendente dagli anticorpi prima che il prodotto fosse ritirato. Non dobbiamo rischiare che ciò si ripeta con i vaccini contro il Covid-19».

Sempre Oltremanica, l’epidemiologa Sunetra Gupta dell’Università di Oxford sostiene che «vaccinare i bambini può offrire un bene collettivo solo se riduce i livelli di contagio nella comunità. Tuttavia, i loro effetti di blocco dell’infezione sono incompleti». Una delle ragioni invocate per immunizzare i giovanisismi è quella che, soprattutto a scuola, il virus circola e i bambini diventano veicoli di contagio. Ipotesi però smentita da vari studi. «In uno di questi, apparso su The Lancet Regional Health e citato dall’Oms, si dimostra che gli studenti si contagiano e diffondono il virus meno degli insegnanti» sostiene Gandini. Mentre un’altra ricerca giapponese (su Nature Medicine) esclude un legame causale tra chiusura delle scuole e andamento dei contagi.

«Abbiamo trasformato la campagna di vaccinazione in una battaglia pseudoreligiosa» afferma Emilio Mordini, medico, psicanalista e psichiatra, ricercatore dell’Health and risk communication center dell’Università di Haifa in Israele. «Il contesto in cui la nostra società sta imponendo, almeno in termini di pressione sociale, la vaccinazione ai bambini, rischia di fare danni psicologici». Dividere i non vaccinati dai vaccinati in base a criteri morale anziché scientifici «crea una sorta di categoria “impura”» continua Mordini, secondo cui chi non «ubbidisce» viene considerato irresponsabile ed egoista.

La presenza di un bambino non vaccinato in classe, inoltre, può provocare una serie di conseguenze (dalla Dad al fatto che non può mangiare insieme agli altri) con un forte impatto emotivo. «Misure eccessive da un punto di vista medico, ma che hanno un grande valore simbolico» avverte lo psichiatra. «Introducendo la categoria del non-vaccinato, implicitamente autorizziamo i bambini a emarginare i diversi. Mentre dovremmo educarli esattamente all’opposto, a non discriminare».

Proteggiamo i più piccoli

Il Covid è diventato – anche – una malattia pediatrica. Lo dicono i dati: se nel 2020 solo il 3% di chi contraeva il virus era un bambino, nel 2021, a causa soprattutto della più contagiosa variante Delta, la percentuale è arrivata al 25%. E mentre il mondo fa i conti con l’avvento di Omicron (i dati finora raccolti sembrano attestare una maggior trasmissibilità ma una minore gravità), è arrivato in Italia il vaccino Pfizer per i piccoli tra 5 e 11 anni. Autorizzato da tutte le agenzie regolatorie, prima dalla Fda americana, a ruota dall’europea Ema e in Italia da Aifa, il farmaco sarà somministrabile nella dose pari a un terzo rispetto agli adulti.

Se per molti genitori sarà percepito come il miglior «regalo di Natale» per i propri figli, per altri la decisione è tuttora fonte di timori. Ma va fatta chiarezza: «I bambini, ora come ora, rappresentano una grande percentuale dei nuovi positivi» dice Alberto Villani, direttore del Dipartimento Emergenza pediatria generale all’Ospedale Bambino Gesù di Roma. «E più si estende il numero di soggetti colpiti, più sale il rischio che qualcuno possa soffrire di forme gravi o potenzialmente letali, anche se nei bambini sono rare. Il problema è che non siamo in grado prevedere a priori – perché non c’è nessun elemento che ci consente di farlo – quale sarà il bambino che avrà una forma grave e quale invece avrà solo una leggera influenza».

Il rapporto rischio-beneficio, dunque, secondo la grande maggioranza dei pediatri pende tutto a favore del secondo elemento; e non solo per la protezione dalla malattia: «L’altro aspetto importante» continua Villani «è che al momento il vaccino è l’unico strumento di cui disponiamo per consentire una qualità di vita quanto più compatibile con l’età di ogni bambino. Se non viene vaccinato occorre tutelarlo per non esporlo a rischi. Ma evitando di frequentare coetanei o fare sport, non potrà avere una vita normale. Non esiste quindi solo il parametro “morte o malattia grave”, per legittimare il valore della vaccinazione».

Quasi tutte le paure hanno a che fare, come quando si parla di adulti, con i temuti eventi avversi. «Oggi, per effetto della comunicazione spesso confusa e contraddittoria di internet, anche i genitori più razionali cercano ulteriori certezze» dice Graziano Barera, primario dell’Unità operativa di Neonatologia e Patologia neonatale e Pediatria all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. «Rispetto ai dati che arrivano dagli Stati Uniti, dove hanno già vaccinato 4 milioni di bambini, non si è manifestata alcuna reazione grave e alcun decesso. E gli effetti, lievi, sono stati in numero addirittura inferiore a quelli, già risibili, tra i 12 e i 16 anni».

Del resto, è proprio ciò che la comunità scientifica si aspettava dai farmaci a Rna messaggero: sicurezza ed efficacia: «Questi sono prodotti estremamente sicuri» continua Villani. «Nella storia della medicina non è mai successo che lo stesso vaccino fosse stato somministrato contemporaneamente e in breve tempo a una tale quantità di persone. Anche per questo possiamo dire con certezza che dalla somministrazione ai bambini non c’è da aspettarsi né un rischio più elevato della norma di miocarditi, né un rischio trombosi, che per i vaccini a mRna è praticamente inesistente».

Per quanto riguarda i fantomatici effetti «a lungo termine», neanche qui c’è nulla da temere: «I genitori sono spesso spaventati» racconta Barera «perché pensano che l’mRna possa introdursi nel patrimonio genetico, magari causare infertilità in età adulta, o che sia addirittura cancerogena. Ma non c’è alcuna ragione, da un punto di vista immunologico o biologico, per pensare che un frammento dell’mRna, che tra l’altro va incontro a veloce e spontanea degradazione, debba creare a medio o a lungo termine un qualsiasi danno».

Anzi, l’argomento va di fatto ribaltato, considerando che tutti i virus che infettano l’uomo, compreso il Sars-CoV-2, replicano il proprio patrimonio genetico nelle nostre cellule, inondando l’organismo. «Utilizzando una semplice similitudine» spiega Barera «possiamo dire che se il frammento di mRNA del vaccino è paragonabile a un bicchiere d’acqua, la quantità di materiale genetico prodotto e replicato dal virus nelle cellule umane è simile a un’autentica inondazione. Se ho paura di un bicchiere d’acqua e non ne ho di uno tsunami, significa che nella nostra percezione del problema non utilizziamo pienamente la razionalità».

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