Che Guevara: un bel mito, una brutta storia
(Ansa)
News

Che Guevara: un bel mito, una brutta storia

Che Guevara non passa di moda, tanto che il Comune di Carrara gli ha dedicato una statua. Anche dietro la leggenda di un eroe, però, c’è sempre la vicenda umana, spesso molto meno gloriosa. Il guerrigliero della Revoluciòn cubana non fa eccezione.


Sbuca dal nulla un busto dedicato a Ernesto Che Guevara, voluto dal Comune di Carrara, città di famose tradizioni anarchiche, la prima statua in Italia a lui dedicata. E rispunta l’unico mito politico rivoluzionario sopravvissuto come gadget all’inverno delle ideologie e alla fine del comunismo. Rispunta come alibi, per buttarla su vecchie appartenenze e su vecchi simboli per compensare la povertà del presente e la scarsa incisività delle amministrazioni. Un simbolo divisivo, ma lo scopo, in fondo è anche quello, noi contro loro. A ben vedere quel mito, totalmente destoricizzato, non è mai finito. È un’icona pop venuta dal Sessantotto e sopravvissuta a tutte le epoche, che resiste ancora sulle magliette, i poster, i feticci esotici e trasgressivi. Un mito global per gli antiglobal, un oggetto di consumo per il target anticonsumista.

Ma chi fu davvero El Che? Sì, fu un rivoluzionario che morì giovane sul campo, come si addice ai miti e agli eroi. È il mito di un eroe perdente, e ciò lo salva dagli orrori e i fallimenti della sua ideologia. «La cosa peggiore che possa accadere a un rivoluzionario è vincere una rivoluzione», scriveva il poeta messicano Germán List Arzubide. Guevara aveva vinto la rivoluzione, a Cuba, ma fu costretto a fuggire da quella vittoria che stava pesando quanto una disfatta. Ripartì a combattere, perché la rivoluzione a Cuba stava già fallendo. È bella l’immagine dell’eroe ragazzo che viaggia per il Sudamerica in motocicletta, aiuta i malati, s’indigna per i soprusi e muore in battaglia contro gli yankee in lotta e il colonialismo. Ed è gloriosa l’immagine del Che martire, che somiglia al Cristo deposto di Mantegna.

Ma sotto il mito c’è poi la realtà. Guevara fu un fanatico rivoluzionario, uno spietato combattente, un fallimentare ministro dell’Industria e governatore della Banca cubana. Diventò ingombrante pure per Fidel Castro, salvo poi sfruttare il culto del Che dopo morto. Guevara introdusse a Cuba i campi di concentramento per i dissidenti, guidò i tribunali speciali che condannavano a morte i nemici, veri e presunti. Predicava la nascita di cento Vietnam nel mondo, la lotta armata per espropriare la terra, non era una Madre Teresa di Calcutta come vogliono farlo apparire. Come tutti i puri, il Che sarebbe diventato un feroce dittatore se avesse avuto in mano il potere; rispetto a lui Castro era un realista moderato. La sua salvezza fu la ricerca della gloria e della purezza che lo condusse, come Garibaldi e gli eroi romantici, a combattere per la causa della libertà di altri popoli. E quel mito in chiave antiyankee colpì anche a destra. Il primo a elogiare Guevara alla sua morte fu Juan Domingo Perón che lo vide come un eroe nazionalpopolare argentino contro lo strapotere degli Stati Uniti. Poi vennero Regis Débray e Jean Cau che scrissero un ardito elogio - Passione per Che Guevara - esaltandolo come un Comandante intrepido, un artista, un Cavaliere che sfida la morte e il diavolo. Ai loro occhi El Che andò a cercar la bella morte: «Ci sono mille modi di suicidarsi. Balzac scelse il caffè, Verlaine l’assenzio, Rimbaud l’Etiopia, l’Occidente la democrazia, e Guevara la giungla». In Italia chi gli somigliò di più nella vita e anche nel volto, nella barba e negli occhi fu il fascio-comunista Nicola Bombacci, primo leader del Pci ucciso a Salò con Benito Mussolini.

Non si sono spenti i pellegrinaggi turistico-ideologici sulle tracce del Che; le compagnie aeree lo trasformarono nell’icona di uno stewart col basco e lo stesso fece la compagnia telefonica cubana. Ricordo un Guevara di cera che pareva rubato ai presepi napoletani. Troviamo il Che pure in versione araba e islamica. El Che Akbar. Ma il suo martirologio è di tipo cristiano, è un santino con la corona di spine, il Padre Pio della Revoluciòn. Fu pure usato come testimonial per fumare le erbe e farsi le canne.

Molti anni fa pubblicai su un settimanale che dirigevo una storia curiosa. Quando il Che era ministro dell’Industria di Castro e governatore del Banco Nacional de Cuba, decise di far costruire a due passi dalla spiaggia di Varadero, a Matanzas, una fabbrica di fertilizzanti. Per l’impianto fu chiamata una ditta italiana: il suo rappresentante era un imprenditore milanese, Stefano Campitelli, che diventò amico e consulente di Guevara e gli procurava le erbe per curare l’asma e il parmigiano di cui il Che era ghiotto. Tra la ditta italiana e il Che si intromise però la mediazione dell’import-export italo-comunista, in veste di garante dell’operazione e fornitrice di tecnici. Per la sua mediazione ricevette il 10 per cento sull’impresa dal governo di Fidel Castro e altrettanti dall’azienda italiana che doveva rea lizzarla. Il Che, ingenuamente, firmò cambiali e le pagò prima che i lavori fossero ultimati. Ma incassati i dollari, la società lasciò incompiuta l’impresa e sparì. Guevara mandò allora un emissario in Italia a bussare alla Coop e a varie porte, compresa la sede del Pci alle Botteghe Oscure. Ma non riebbe né i soldi né il completamento dei lavori, poi affidati a un’impresa statale della Germania Est. Così i mitici Che e Fidel furono «truffati» per un milione di dollari dai compagni italiani. Alla faccia del mito. La cosa migliore che possa accadere a un rivoluzionario è morire giovane, in battaglia, prima che la sua rivoluzione trionfi e abortisca, e così restare caro agli uomini e agli dèi. Da vinti si riesce meglio in foto e in busto per i posteri. Fu vera gloria? Ai poster l’ardua sentenza.

TUTTE LE NEWS

I più letti