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Alceo Dossena e gli splendidi falsari dell’arte

Alceo Dossena e gli splendidi falsari dell’arte

Lo scultore, ora riscoperto al Mart di Rovereto, toccò vertici di bellezza nelle sue rivisitazioni. A confronto con lui, gli «autori» delle teste di Modigliani e uno straordinario interprete di oggi.


Al Mart di Rovereto apre il 3 ottobre la mostra Il Falso nell’arte. In essa si indaga per la prima volta la vicenda artistica del cremonese Alceo Dossena (1878-1937), «autentico falsario», figura misteriosa e stimolante del secolo scorso che diede vita a una ricchissima produzione di falsi di opere scultoree di età antica e rinascimentale.

Dossena è stato una delle personalità più singolari ed enigmatiche del mondo dell’arte nel Novecento. Egli infatti creò autentici capolavori che venivano attribuiti dagli studiosi e dai direttori di musei e gallerie, di volta in volta, a scultori greci ed etruschi, a Giovanni e Nino Pisano, a Simone Martini, al Vecchietta, all’Amadeo, a Donatello, a Mino da Fiesole, a Desiderio da Settignano, ad Andrea del Verrocchio, ad Antonio Rossellino, al maestro della Madonna Piccolomini e ad altri celebri artisti del passato. In tempi più recenti, tra burle e indagini giudiziarie, si manifestano clamorosi il caso Modigliani e il caso Frongia, dei quali qui si narra.

È il 24 luglio 1984. A Livorno, nel Fosso Reale, vengono trovate due teste, molto attese. Una scoperta memorabile, di risonanza mondiale: gli esperti e i critici d’arte, i maggiori, da Giulio Carlo Argan a Cesare Brandi, da Enzo Carli a Jean Leymarie, furono unanimi, in slanci di entusiasmo, nell’attribuire queste opere incompiute, pietre sbozzate, ad Amedeo Modigliani. Fui il solo, con Mario Spagnol, a manifestare dubbi, e a scrivere, sull’allora Panorama mese, che le tristi pietre non potevano essere buone e andavano ributtate nel fosso.

Livorno, città natale dell’artista, in quel periodo celebrava Modigliani scultore nel centenario della nascita. Al museo d’arte moderna di Villa Maria erano in mostra 4 delle 26 teste riconosciute di Modigliani, e la direttrice del museo e curatrice della mostra, Vera Durbé, con la collaborazione del fratello Dario, stimato soprintendente alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, prestando fede alla leggenda secondo la quale Modigliani avrebbe gettato nel Fosso di Livorno quattro sculture ritenute insoddisfacenti, decise di procedere di conseguenza.

Iniziò così quindi, con fervore, la dragatura del canale, un’operazione di grande risonanza mediatica, non ritenuta insensata dall’amministrazione. Tre studenti universitari, Michele Ghelarducci, Pietro Luridiana e Pierfrancesco Ferrucci, in vena di scherzi, sull’onda di Amici miei (l’atto II, di Mario Monicelli, è del 1982), pensarono di scolpire una testa con i tratti deformati e allungati propri di Modigliani, e di gettarla nel fosso. Più tardi diranno: «Visto che non trovavano niente, abbiamo deciso noi di fargli trovare qualcosa!». La scavatrice, finanziata dal comune di Livorno, per sette giorni perlustrò il canale senza risultati. L’ottavo giorno accadde il miracolo: sotto i riflettori delle troupe televisive le ruspe afferrarono la testa.

Per 40 giorni il mondo dell’arte gridò al capolavoro. Fino a quando i falsari, stupiti di non essere stati scoperti, decisero, con abile scelta dei tempi, di confessare tutto a Panorama, che pubblicò inequivocabili fotografie dei tre studenti nel momento in cui, in un prato, scolpiscono l’opera. L’abilità di Dossena era lontana; le avanguardie non chiedevano perizia, ma improvvisazione, codificando «l’antigrazioso». Che le sculture fossero brutte, come paracarri, sperimentalmente sgraziate, era nelle cose. D’altra parte, Modigliani non le aveva buttate? Argan toccò il sublime. Dichiarò: «Sono autografe, non sono autentiche». Modigliani le avrebbe scolpite e rifiutate.Tanto bastava ad assicurare riconoscenza perpetua ai tre giovani spregiudicati.

Alceo Dossena li ha superati, nascondendosi fino a oggi dentro il Maestro della Madonna Piccolomini. «Con Vittorio condivido la passione per le copie. Che per me sono però, come ha scritto Francesco Moschini, un “esercizio di stile”». Così l’ultimo falsario preterintenzionale, Lino Frongia, risponde alle insinuanti e lusinghiere accuse di essere il falsario di un Cristo esposto come autografo nella mostra su Correggio a Parma del 2008. Il grande pittore diede una spiegazione della sua condizione psicologica come copista, impareggiabile, senza voler invecchiare o usare materiali antichi per le sue copie: «Sono appassionato della tecnica pittorica. E, indipendentemente dal mio lavoro di ricerca, eseguo copie dai dipinti dei maestri. È una pratica nella quale il mio stile scompare. Mi spersonalizzo completamente. E così, in qualche modo, mi scarico…».

La mia conoscenza della sua opera e la mia ammirazione mi indussero a pensare a lui per quel mirabile dipinto di aura perfettamente correggesca. E ancora penso che sia suo ma, come e più che nel caso di Dossena, sono convinto che la sorprendente qualità dell’opera e la sua perfezione mimetica non hanno nulla a che fare con il dolo e l’inganno, e tanto meno con l’accordo con antiquari e mercanti senza scrupoli. È un dipinto bello come lo sono quelli del Correggio, ma non è suo. La sostanza è tutta qua, tra il bello e il vero. La forza di immedesimazione nei diversi artisti lo rende l’ultimo dei grandi maestri antichi viventi.

In tempi recenti, su mia commissione, ha dipinto una mirabile interpretazione del Ritratto di Baldassarre Castiglione di Raffaello e una seducente versione della Morte di Cleopatra di Guido Cagnacci. In queste copie, diverse da opere inventate che gli sono state attribuite, c’è la pienezza della sua pittura in una seducente carnalità. E la capacità di intercettare il profumo e la vibrante vitalità pittorica degli artisti di riferimento. Che questo si possa chiamare inganno, così come nella pietra riuscì – fino all’inganno estremo – ad Alceo Dossena, è la ragione per cui Frongia è presente qui, «in partibus infidelium». E questo si deve anche alla lunga vicenda giudiziaria che, in Francia, come non accadeva dai tempi di Dossena e di Van Meegeren, si è aperta intorno alla sua vicenda artistica, tra ammirazione e sorpresa, dando vita ad articoli e libri sul caso (Vincent Noce, L’Affaire Ruffini, Enquête sur le plus grand mystère du monde de l’art).

Indubbiamente una montatura dovuta anche a una intraprendente magistrata, che elaborò il suo teorema fortificandolo con spettacolari sequestri di dipinti di collezioni private, esposti in mostre nei musei francesi: la Venere di Cranach dalla collezione del principe del Liechtenstein, il San Cosma di Bronzino della collezione Alana. Dipinti autenticissimi, sorprendentemente ritenuti di Frongia. Tutto ha avuto inizio in Francia, quando una lettera anonima segnala al Tribunale di Parigi come alcuni quadri di Cranach, Correggio, El Greco e Gentileschi siano in realtà falsi, contraffatti e invecchiati per essere considerati autentici. Aperte le indagini, le autorità francesi risalgono ai venditori, Giuliano Ruffini e il figlio Matthieu, e al pittore Lino Frongia.

Mentre Matthieu è indagato a piede libero, per gli altri due nel 2019 scatta il mandato di arresto europeo. Si arriva all’8 marzo 2020 quando tutto viene temporaneamente bloccato dalla lungimirante Procura di Reggio Emilia che, nel frattempo, ha aperto un procedimento penale per evasione fiscale relativo ai traffici sui quadri. Per Frongia, che tra l’altro ha sempre lavorato in Italia, la Corte d’appello di Bologna ha respinto la richiesta di estradizione. Se, d’altra parte, sapesse veramente ripetere lo stile di tutti i pittori che gli sono state attribuiti sarebbe un genio assoluto. Quanti maestri in uno!

In realtà è già risultata autentica, alle indagini, l’opera da cui origina il grande clamore e da cui è partita l’inchiesta, la Venere di Lucas Cranach. E lo stesso si può dire per la tavola di Bronzino. Qui l’unico falsario è il magistrato, mentre Ruffini resta un mercante abile anche a destare invidie.

Frongia ci è rimasto in mezzo, e la sua considerazione come falsario non fa che accrescere la sua reputazione come pittore, unico nell’interpretare l’anima e lo stile di pittori anche molto diversi. Le opere che qui si presentano sono formidabili «d’après», non copie e non falsi, ma vere e proprie restituzioni dell’anima, dello spirito, dei pittori replicati, di cui Frongia appare come un ventriloquo.

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