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Antonio Manzini: «Rocco Schiavone è un depresso cronico»

Antonio Manzini: «Rocco Schiavone è un depresso cronico»

«Con l’età perdi tante cose, a cominciare dalla memoria…» dice a Panorama il creatore del vicequestore Rocco Schiavone, che con il suo nuovo libro è primo in classifica. Tra ricordi, rimpianti personali e rivelazioni sui suoi personaggi, il giallista sintetizza così il processo della scrittura: «Una faticaccia, grondo sudore come andassi in palestra».


Nella hall del più torinese tra gli hotel della città, divani di chintz, fiori finti, voliere e chinoiserie di gozzaniana memoria, entra Rocco Schiavone. O meglio il suo alter ego, lo scrittore Antonio Manzini. Golf slabbrato e pantalone di velluto. A guardarlo da lontano sembra uno di quegli architetti di giardini trasandati ed elegantemente snob. Poi si avvicina, estrae dalla tasca un pacchettino di biscotti rubati dal buffet della colazione e ridendo se ne compiace. E in quel gesto c’è tutta la romanità del suo personaggio. La sua ultima avventura Ah l’amore l’amore, undicesimo romanzo della saga, uscito sempre per Sellerio, oggi è il libro più venduto in assoluto, primo in tutte le classifiche. Schiavone come J.Lo al Super Bowl, feroce, sexy e inaffondabile. Così mentre il vicequestore è in ospedale ad Aosta, si è giocato un rene durante una sparatoria, un ricco industriale muore sotto i ferri. Sembra un caso di malasanità, ma le cose stanno diversamente. Tra minestrine sciape, lamentosi compagni di stanza e l’inesorabile avvicinarsi della mezz’età, Rocco sempre più incazzato si addentra alla ricerca della verità.

A Schiavone hanno asportato un rene, sta perdendo pezzi. È vero come scrive lei che: «La vita ti porta via un pezzo alla volta»?
Te ne vai via un pezzettino dopo l’altro. Carne, sangue, amori e poi l’anima, il cervello, i ricordi. E non c’è modo di recuperarli. Mi sono reso conto che non ho più la memoria di alcuni momenti della mia vita. Di colpo l’ho rivisto. Era arancione a scacchi. È un po’ come durante l’analisi, quando riemergono i ricordi.

È stato in analisi?
Sì, un aiuto importante per capire dove stavo andando. C’è una frase bellissima di un film di Woody Allen: «I ricordi non sai più se sono qualcosa che ti appartiene o qualcosa che hai perso per sempre». Poi nel tempo cambiano dimensione, valenza. Restano appiccicati come carta moschicida. Ci distruggono.

Anche Schiavone è continuamente torturato dal passato.
La morte della moglie Marina lo ha atterrato. A una presentazione una signora mi disse: «Non ci credo che dopo cinque anni ancora è in questa condizione pietosa a ricordare l’amore passato». Gli dissi che avrei voluto farla parlare con Marco Giallini, che lo interpreta, e ha perso sua moglie. Il ricordo è una bomba che ti esplode dentro.

Il titolo Ah l’amore l’amore, una canzone di Luigi Tenco, fa ben sperare. Si rinnamorerà?
Ma no! Impossibile innamorarsi ancora. L’amore se ne è andato anche lui nell’archivio dei ricordi. «L’amore che strappa i capelli» se sei fortunato lo incontri una sola volta nella vita. Dopo di che puoi avere delle passioni, ma non è più quella cosa lì. L’amore potente, che si avvicina all’amore per i figli, dicono il più forte che esista anche se io non l’ho mai provato, non puoi replicarlo. Tutto il resto ha una scala di minore portata. Non è più il terremoto, possono essere scosse di assestamento. E allora, siccome Rocco lo aveva provato, difficilmente tornerà ad avere un amore così completo, totale.

Però lui è uno di quegli uomini che non si impegnano mai, Marina questa volta gli appare e dice: «Hai paura di lasciarti amare…».
È un depresso cronico, per accogliere bisogna aprire la porta. Lui non è aperto, non è pronto. E poi con la vecchiaia si può solo peggiorare.

Le fa paura la vecchiaia?
Più triste della vecchiaia c’è solo la morte. Mi fa paura invecchiare male. Diventare una persona schifosa, egoista. O semplicemente non capire più cosa mi accade intorno, dove mi trovo, cosa sto facendo. La verità è che non voglio morire.

Cosa c’è dopo?
Non credo ci sia niente o almeno non in questa forma. Ci penso spesso. Ma tutte le risposte sono dettate dai nostri timori. La domanda è viziata in partenza, nasce da un’angoscia ancestrale. In realtà non ci sei più.

Perché ha scelto un ospedale come epicentro della storia?
Li ho frequentati tanto come protagonista o accompagnatore. Mia sorella è un medico. Le notti durano molto più che fuori, le giornate non finiscono mai. In ospedale il tempo è dilatato. C’è un diverso fuso orario legato all’attesa. Non puoi fare altro che aspettare.

È una metafora per dire che Schiavone è malato?
Parecchio. Ha una depressione che non cura, ma accudisce. È la cosa più pericolosa. Se l’abbracci, ti senti a tuo agio, non ne esci più. Io sono per la chimica. Aiuta nel breve a rialzarsi. La depressione va curata come un’influenza. La cosa più sciocca
è sentirsi dire: «Dai su, reagisci». La depressione non ti fa reagire, è un fango nero che ti tira giù. Non ne esci da solo.

Quando ha vissuto il suo periodo più difficile?
A 35 anni, quando facevo l’attore. Lo avevo scelto a vent’anni, poi poco per volta mi sono reso conto che era un mondo complesso, sostanzialmente molto squallido.

Che cosa faceva?
Sono finito a fare la televisione. Ne ho fatta anche troppa. Era diventato un mestiere che aveva definito bene un mio amico attore, Pierluigi Cuomo: noi eravamo «i divi del mutuo». Avendo comprato casa, ci toccava recitare nelle serie tv. Ma anche quell’esperienza alla fine mi è servito. Per capire la cattiva scrittura. Arrivavano sceneggiature terrificanti.

Con il teatro andò meglio?
Mi ha insegnato a scrivere. Quando ripeti per cento sere la stessa frase ti chiedi che cosa stai dicendo. E cominci a scendere nel significato più oscuro delle parole. È un esercizio non solo letterario, ma anche spirituale.

Ha scritto testi teatrali?
Mai, solo sceneggiature per la tv e il cinema. Poi sono stato buttato nell’editoria. È stato Massimiliano Governi, bravissimo scrittore, a spingermi. Non c’entravo nulla.

E invece?
Scrivere mi aiuta a vivere. Vorrei capire perché sudo quando scrivo. È come se andassi in palestra. Grondo sudore, devo cambiarmi anche due camicie.

Quando scrive?
Attacco la mattina e stacco la sera. È un lavoro. Mi sono sempre domandato perché le persone devono considerare un atto diverso dal lavoro lo scrivere.

Il genio che crea il capolavoro non esiste?
Al momento non vedo geni intorno a me. Siamo onesti lavoratori. E molti di noi sono anche disonesti. Quelle cazzate che sento dire: «Ho l’ispirazione soltanto verso le undici e un quarto». Siediti, scrivi e non rompere le palle. E ringrazia Dio che fai un mestiere comodo. Una cosa impagabile. Bisogna lavorare ogni giorno, sabato e domenica compresa.

Una Caienna.
Dunque, ti fai una settimana di vacanze d’inverno, una ventina di giorni d’estate, tolte le feste, restano 300 giorni: devi lavora’. Otto ore al giorno e sai quanta roba produci.

Avremo storie di Schiavone fino agli ultimi giorni dell’umanità?
Il giorno che mi rompo lo mollo.

Mi pare un uomo che non si fa mollare facilmente.
È come una moglie ingombrante, possessiva, gelosa. Con lui si entra in un ritmo esecrabile e sadomasochista.

Cosa vi tiene legati?
Alla fine niente. Lui ha bisogno di essere raccontato e quello che lo fa sono io. In questo c’è qualcosa di vampiresco. Ogni tanto bisogna staccarsi. Sto scrivendo un’altra cosa, dove Schiavone non c’entra niente. Anche lì però ti senti in colpa, come quando la moglie è in vacanza. Per lui è un tradimento. Lo sento mentre mi dice: «Mi stai tradendo con quella storia nuova. E magari ti è piaciuta più della mia».

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