Ora che, dopo lunghi anni di «disinteresse», è ripresa la corsa mondiale al nostro satellite come miniera di risorse e base di lancio, si pongono degli interrogativi geospaziali: a chi appartiene il suo suolo? Chi può sfruttarlo? E la stessa domanda vale per altri corpi celesti, come gli asteroidi o lo stesso pianeta Marte. Bisognerà mettere a punto una legislazione cosmica ad hoc.
Chi «vuole la Luna» vuole cose impossibili. Così sentenzia un modo di dire popolare. Ma volere una porzione della superficie lunare, o quella di un altro pianeta, o perfino un intero asteroide, non è per nulla un desiderio impossibile. Anzi, potrebbe accadere che nel futuro prossimo nazioni e imprese commerciali, che programmano di costruire basi sul nostro satellite, estrarre risorse minerarie da pianeti e asteroidi, reclamino il possesso di «cose» nello spazio.
Per convincersene basta notare l’accelerazione che sta subendo la corsa al nostro satellite e allo sfruttamento delle risorse extraterrestri: gli Emirati Arabi Uniti hanno appena lanciato con il razzo Space Falcon 9 il rover Rashid per un’esplorazione di cinque mesi in zone mai raggiunte dagli umani; a metà del 2023 atterrerà sul Polo Sud della Luna la sonda indiana Chandrayaan-3; e si avvicina il primo viaggio civile verso la Luna del prossimo anno, con 11 persone che dovrebbero raggiungerla in sei giorni a bordo del veicolo di lancio Starship.
D’altra parte, negli ultimi vent’anni si sono concluse due imprese di estrazione di minerali da asteroidi, le missioni giapponesi Hayabusa e Hayabusa 2. È poi in corso il viaggio della navicella Osiris-rex della Nasa, che punta a portare sulla Terra frammenti del 101955 Bennu, un asteroide di circa mezzo chilometro di diametro, detto di tipo «carbonioso» per le alte percentuali di carbonio che contiene. Per il 2031 è atteso un altro «rendez-vous» cosmico tra la navicella giapponese Hayabusa 2 e l’asteroide 1998 KY26, ricco di ferro e nickel. Vi è poi la possibilità concreta di produrre energia con reattori nucleari sulla Luna grazie ai progetti in corso della Nasa e dell’ASI-Enea. E probabilmente sfrutteremo il ghiaccio per ottenere idrogeno e ossigeno o i venti di Marte per consentire lunghi soggiorni in quel pianeta.
Questo ampio ventaglio di possibilità scientifiche porta con sé questioni di tipo legale: basterà installare una base sulla Luna per possederne il suolo? Di chi sono le risorse disponibili sul nostro satellite? Chi può sfruttarle? A chi appartiene un asteroide? Si può possedere un pianeta? Ed essere proprietari di una porzione di suolo su Marte? Negli anni Sessanta, circa dieci anni dopo il lancio del primo satellite artificiale Sputnik 1 da parte della Russia, ha visto la luce il cosiddetto Outer Space Treaty: un trattato sullo spazio firmato finora da 112 nazioni sotto gli auspici dell’Office for outer space affairs delle Nazioni Unite. Gli articoli che lo compongono sono però più linee guida che leggi vincolanti, e forniscono solo risposte parziali alle domande appena formulate.
L’articolo II afferma che la Luna nella sua totalità non può divenire proprietà di una nazione attraverso una qualche forma di occupazione. L’articolo III fa riferimento alle attività di esplorazione e sfruttamento, suggerendo che occorre svolgerle in accordo alla legge internazionale e nell’interesse della pace internazionale. Mentre l’articolo XII sostiene che tutte le stazioni spaziali, installazioni ed equipaggiamenti devono essere condivisi qualora ne venga richiesta la necessità. Enrico Flamini, professore di Solar System Exploration all’Università di Chieti-Pescara e fino a quattro anni fa «chief scientist» dell’Agenzia spaziale italiana, osserva: «L’Outer space treaty lascia irrisolte gran parte delle questioni che diverranno cruciali man mano che colonizzeremo il Sistema solare. È di fatto una raccolta di linee guida che non tutti gli Stati hanno sottoscritto. Ecco perché la comunità internazionale è chiamata a stabilire una serie di regole per tutti i Paesi. Se è vero che un intero pianeta non appartiene a nessuno resta aperta la possibilità che una porzione del suo suolo possa essere reclamata da chi vi costruisce una base. Mi aspetto che venga prima o poi stabilito che il possesso e il mantenimento di una base sulla Luna o su un pianeta appartiene a chi la costruisce, ma il suolo in cui essa è posta non appartiene a nessuno».
Bisognerà capire come esattamente formulare questa legge dal momento che la Dichiarazione universale dei diritti umani afferma che ogni individuo ha diritto alla proprietà. Alcuni interpretano questo principio come il diritto di considerare come propria una porzione di suolo lunare se sono soddisfatte certe condizioni, per esempio l’acquisto o la costruzione di una casa. Quando Apollo 11 atterrò sulla Luna il proprietario di un pub inglese, Charlie Mertz, decise di denunciare Neil Armstrong e Edwin Aldrin per aver messo piede proprio in un pezzo di sua proprietà. A suo dire possedeva quel lotto lunare dal 1957, avendolo acquistato dall’Interplanetary development corporation di New York.
Simili richieste furono fatte da molte altre persone: una persona di Richmond (Stati Uniti) reclamava l’intera area del Mare Tranquillitatis dove gli astronauti erano atterrati. Negli anni Cinquanta il New York Times riportò che Robert Coles, presidente dell’Hayden Planetarium di New York, aveva tentato di vendere lotti lunari di diversi ettari. I legislatori, chiunque essi saranno, dovranno tenere conto della Dichiarazione universale dei diritti umani nel formulare un sistema di regole coerenti che dovranno essere firmate da tutte le nazioni. Chi si assumerà il difficile compito di redigere il documento sarà il Copuos (United Nations committee on the peaceful uses of outer space): la commissione delle Nazione Unite composta da 95 Paesi che studia i problemi legali conseguenti alle azioni umane nel Sistema solare.
«Per ora, credo che nessuno reclamerà mai l’intero possesso di un pianeta» dice Flamini. In fondo gli Stati che hanno risorse e tecnologia per andare nello spazio sono solo Stati Uniti, Cina ed Europa, forse il Giappone. La Russia non ha i mezzi, ma ha le competenze, e solo in un futuro lontano potrebbe rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti. A ogni modo, questi attori richiedono una forma di autoprotezione dato che si apprestano a restare sulla Luna, e forse su Marte, per tempi lunghi. Il Copuos dovrà dare risposta alle loro richieste. Mi aspetto che si deciderà che le basi su altri pianeti appartengono allo Stato che le costruisce, ma non il suolo su cui sono costruite, come dicevamo. E che un Paese non potrà interferire con il funzionamento della base di un altro».
Non meno spinosa la questione dello sfruttamento del sottosuolo: i nodi verranno al pettine quando si cominceranno a estrarre minerali preziosi. «Non sto parlando di metalli come l’oro, in fondo comune in tutta la crosta terrestre, ma di elementi chimici che si potranno esaurire sul nostro pianeta e di cui abbiamo estremo bisogno. Penso a quel gruppo di elementi chimici denominati “terre rare”, essenziali per tutta l’elettronica avanzata, oppure all’elio-3, isotopo raro sulla Terra, ma diffuso sulla Luna, utilizzabile nei reattori a fusione nucleare». Se poi consideriamo Marte, è lungo l’elenco dei materiali disponibili. La Terra non ha risorse infinite e prima o poi l’umanità dovrà ricorrere a quelle di altri corpi celesti. E mentre un pianeta, secondo l’Outer space treaty, non appartiene a nessuno nella sua totalità, non è chiaro se un asteroide possa appartenere a uno Stato. «Sono questioni che vanno affrontate» risponde Flamigni «tenendo conto del fatto che l’autorizzazione a lanciare un razzo non spetta alla nazione che lo costruisce e ne organizza la missione ma al Paese che possiede la base di lancio. Per esempio, siccome l’Italia non ha una base di lancio, se volesse far partire la sua missione da Kourou, un sito nella Guyana francese, dovrebbe ottenere il permesso da Parigi». Dunque, in assenza di una diversa legislazione, la corsa alle risorse del Sistema solare inizia qui sulla Terra. E chi «vuole la Luna» dovrà prima costruirsi la sua base di lancio.