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Tutto quello che c’è da sapere sul tartufo

Tutto quello che c’è da sapere sul tartufo

Le fiere dove acquistarlo certificato e quali sono i produttori migliori. I luoghi dove degustarlo, dalle Langhe agli Appennini, le regole per conservarlo e saperlo giudicare in negozio. Guida breve (ma utile) al tubero più profumato e prezioso.


Si fa presto a dire tartufo. Il prezioso fungo spontaneo ipogeo (cresce sottoterra, come una patata), che nonostante mille tentativi è impossibile coltivare, ha in Italia una patria accogliente. Ma se crediamo di conoscerlo solo perché arriva l’autunno e lo colleghiamo a nebbie, colline, vini generosi e ceppi accesi, ebbene, siamo in errore. Il tartufo è un mondo, con i luoghi sacri, i riti, le guerre commerciali, le mode in cucina, le leggende, le storie avventurose di chi lo cerca nei boschi con cani addestrati a rintracciarne il profumo. Centro ideale e materiale di questo universo sono le Langhe, che hanno saputo valorizzare il tartufo bianco, eccellenza conosciuta ai quattro angoli del pianeta. Il fungo ipogeo è il volano, assieme al vino, di un territorio meta del turismo globale. Tra castelli, cantine, colline che paiono mammelle (così Cesare Pavese, o forse Beppe Fenoglio, due figli d’arte delle Langhe), entrare in una trattoria o ristorante stellato – ad Alba e dintorni non mancano – e ordinare una grattata di tartufo (25 euro in media) sui tagliolini fa parte dei piaceri della vita. Potendoselo permettere, è un peccato rinunciarvi. Prima di scoprire più nel dettaglio i tesori delle Langhe, ricordiamo gli altri poli nazionali del tartufo: Acqualagna nelle Marche; San Miniato nel Senese, con Tartufi Nacci e altri produttori; Savigno (frazione di Valsamoggia) nel Bolognese; Norcia in Umbria, capitale del tartufo nero, che non è il cugino povero del bianco ma semplicemente una diversa e pregiata qualità.

Diciamo subito che nei buoni ristoranti, anche di città, re tartufo si impone, stimolando la creatività dei cuochi di alto lignaggio. Ugo Alciati, chef e patron dello stellato Guido Ristorante a Serralunga d’Alba, in una casa di caccia di re Vittorio Emanuele II che fa parte del Villaggio Narrante Fontanafredda (120 ettari di vigne e riserva naturale nel cuore del Barolo: è il regno di Andrea Farinetti, che produce grandi vini totalmente biologici), lo sposa al cardo gobbo di Nizza Monferrato. «Presidio Slow Food fornito da un piccolo produttore. Lo abbiniamo alla nostra fonduta e poi via con la grattata di tartufo» dice Alciati. «Oppure abbiniamo cardi, pera madernassa, acciughe salate e poi tartufo. Tartufi che vengono trovati per noi, da cavatori di fiducia».

Quest’anno la produzione sarà buona, in Langa. Lo dice Mauro Carbone, direttore del Centro nazionale studi tartufo, che ha sede ad Alba. «Sono ottimista, è piovuto quando doveva piovere, acqua caduta bene, non temporali. I prezzi saranno ragionevoli, inferiori all’anno scorso, stagione avara. Saremo sui 3 o 4 euro al grammo. Il turista che viene nelle Langhe sa che noi lavoriamo da sempre sulla certificazione, garantiamo i tartufi venduti qui». Carbone ricorda che con la Fiera internazionale del Tartufo bianco d’Alba (dal 7 ottobre al 3 dicembre) quest’anno sarà inaugurato il museo del Tartufo, con un progetto fotografico del maestro dello scatto Steve McCurry, Truffle Hunters and Their Dogs. Il Museo, aperto tutto l’anno, è un modo per dare al tartufo una stagione più lunga rispetto al canonico autunno. Sempre suggestiva, per i rimandi mediatici, l’Asta mondiale del tartufo nel castello di Grinzane Cavour, nella seconda domenica di novembre, evento promosso dall’Enoteca Regionale Piemontese Cavour. Ci sono poi i Cavalieri del Tartufo (presidente e Gran Maestro, Tomaso Zanoletti), che si riuniscono per scenografici Capitoli in costume da confraternita, come si conviene a un prodotto sacro.

E ora la domanda delle cento pistole: dove mangiare il tartufo nelle Langhe? Verrebbe da dire: ovunque, c’è così tanta concorrenza che nessuno può fare il furbo e servire una ciofeca. Da ghiottoni ricordiamo la Madernassa di Guarene, piazza Duomo ad Alba, La Ciau del Tornavento (con una cantina delle meraviglie), Marsupino 1901 (a Briaglia, Langhe Monregalesi). E posti sempre presi d’assalto, quali Osteria da Gemma, a Roddino, o la Trattoria da Lele a Murazzano. Stesse tentazioni gastronomiche nelle altre aree del tartufo italiano, in paesaggi di bellezza incantata, con sedimentazioni storiche e culturali che rendono affascinante muoversi, magari solo per un weekend, alla ricerca di preziosità da gustare sul posto o portare a casa. A Sant’Anatolia di Narco, in provincia di Perugia, c’è il cuore di Urbani Tartufi, azienda con 170 anni di storia, leader nella raccolta e trasformazione di tartufi (ne acquista ogni anno 250 tonnellate). E dal 2012 è aperto a Scheggino (Perugia) il museo del Tartufo, voluto da Olga Urbani dove si trovava il primo stabilimento aziendale, a fine Ottocento. Urbani ha sviluppato anche l’Accademia del Tartufo, luogo di incontro e formazione di chef e appassionati.

Altra importante azienda del tartufo è Appennino Food Group, a Savigno (Bologna), dove si svolge la Tartufesta (28 ottobre e weekend fino al 19 novembre). Lavora circa 30 tonnellate di tartufo certificato all’anno. Luigi Dattilo ne è fondatore e proprietario. «Chi resiste al lusso non proibitivo di aggiungere il tartufo a un piatto? Una nobiltà che fa sentire privilegiati» dice Dattilo. «Il tartufo italiano sta conquistando il pianeta, tra i mercati emergenti c’è il Medio Oriente. Successo dovuto a una semplice ragione: in Italia abbiamo il migliore del mondo». Come riconoscere un tartufo perfetto? Se lo chiedono i consumatori. C’è la formula sintetizzata nell’acronimo Pcc: «profumo, consistenza, colore». Il profumo deve essere rotondo senza picchi; la consistenza compatta, leggermente elastica; il colore brillante, se si opacizza significa che è troppo maturo.

Conservarlo è un altro problema. Il consiglio è consumarlo prima possibile, senza affidarsi a trucchi quali la conservazione in barattolo di vetro, con il tartufo immerso nel riso. Vale, tutt’al più, per profumare i chicchi e farsi un buon risotto. I ristoranti lo conservano in luoghi adatti, persino in teche speciali dette ipogee, prima di ridurlo con la mandolina in sottili lamelle che si adagiano sui piatti, illuminando di gioia gli occhi dei commensali, che sanno di compiere, mangiandolo, un rito antico e beneaugurante. Perché se ci vuole fortuna a trovarlo nel bosco, è sicuro che il tartufo la fortuna la porta quando lo gustiamo in lieta compagnia.

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