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Deserto: fuggire da tutto per ritrovare sé stessi

Deserto: fuggire da tutto per ritrovare sé stessi

Affascina perché è uno dei pochi luoghi non assediati dal turismo di massa. Stare in mezzo al nulla (senza internet) ha effetti positivi sulla mente, riconnette con la natura e permette di azzerare «i rumori di fondo» per scoprire le vere priorità nella vita. Viaggio alla scoperta dei luoghi disabitati che stanno diventando di tendenza. Non quelli americani o africani più noti e battuti, ma in Asia. Tra Cina e Mongolia, Uzbekistan e Kazakistan.


Via dalle città, dalla folla, dai negozi di lusso. C’è sempre più bisogno di silenzio e solitudine, di connessione diretta con la natura anche se questo può voler dire rinunciare alle comodità. La nuova sfida per chi viaggia sono i deserti. Oltre alle mete più gettonate quali il Sahara, il Sinai con distese di sabbia e roccia che, arrivate a Sharm el-Sheikh, si tuffano direttamente nel mare, il Kalahari in Botswana, nell’Africa meridionale che custodiscediverse riserve naturali, o il Wadi Rum nella Giordania meridionale, inserito tra i patrimoni dell’umanità Unesco, sempre più viaggiatori guardano a destinazioni lontane dai percorsi battuti, nell’Asia centrale. È un domanda che, partita in modo elitario, soprattutto da parte degli stranieri, sta prendendo piede coinvolgendo anche gli italiani a caccia di paesaggi incontaminati dove l’invadeza dell’uomo è marginale. Tra quelli che stanno riscuotendo un interesse crescente, c’è il deserto del Gobi. Descritto nel Milione di Marco Polo, si estende tra la Mongolia e la Cina ed è formato prevalentemente da roccia nuda ricoperta da arbusti. È un deserto freddo, essendo posizionato su un altipiano. In inverno la temperatura arriva a 40 gradi sotto zero e in estate supera i 40 al di sopra. D’inverno non è insolito vederlo innevato e i tour più affascinanti sono proprio in questo periodo, per chi ha lo spirito d’avventura giusto per affrontarli.

Qui il tempo sembra essersi fermato, la solitudine e il silenzio regnano sovrani, interrotti solo dal battito d’ala di qualche aquila che scende in picchiata per afferrare un’incauta marmotta o dal rumore degli zoccoli di un branco di antilopi saiga. Le uniche presenze umane sono i pastori nomadi che si spostano con la yurta al seguito, la caratteristica tenda circolare coperta di un rivestimento di feltro e i cacciatori, custodi di una tradizione antichissima, che utilizzano le aquile per catturare le prede. Il turismo di massa non è ancora arrivato, ma le agenzie di viaggi ricevono sempre più richieste per il Gobi. «Non sono solo viaggiatori solitari e coppie con la passione per il trekking. Ci viene richiesto anche da famiglie attratte dalle bellezze naturali incontaminate. Alla fine della pandemia, la scelta di un viaggio di questo tipo era dettata quasi esclusivamente dal timore di luoghi affollati ma poi questa tendenza ha messo radici» spiega a Panorama Viola Migliori, country manager Southern Europe di Evaneos, il portale di viaggi, nato nel 2009 in Francia e arrivato in Italia nel 2013, che mette in contatto i viaggiatori con gli agenti turistici delle varie località. Percorrere il deserto del Gobi significa rinunciare ai comfort occidentali: niente elettricità di rete, collegamenti wi-fi o stazioni di servizio durante i percorsi. Una volta lasciato l’asfalto, il deserto non ha sentieri tracciati e servono guide esperte per orientarsi.

Gli alloggi sono le yurte organizzate in piccoli campeggi. Quelli più accessoriati hanno anche i bagni e le docce. Ma i disagi sono ampiamente ripagati da un paesaggio spettacolare, poco diverso da come doveva essere quando era attraversato dagli eserciti di Gengis Khan, con notti illuminate da un cielo stellato che non ha eguali per luminosità, privo com’è di inquinamento. E per approndire la storia dell’impero mongolo e i luoghi in cui è nato si consiglia il bel libro L’orda di Marie Favereau, appena uscito per Einaudi. Chi ha poi la passione per i fossili, sceglie questa meta per la presenza di reperti preistorici che hanno attratto schiere di paleontologi. Negli anni Venti l’avventuriero americano Roy Chapman Andrews e la sua équipe riportarono alla luce oltre 100 dinosauri, tra cui il Protoceratops, il Tyrannosaurus Rex e numerosi Velociraptor. In seguito si susseguirono numerose spedizioni e gli scheletri integri di questi animali mastodontici finirono al museo di Storia naturale della capitale mongola, Ulan Bator, dove tutt’oggi sono conservati. Sempre restando in Asia, i deserti dell’Uzbekistan, hanno avuto un’esplosione di interesse negli ultimi anni. «La domanda è aumentata di circa il 70 per cento. Oltre ai siti storici come Samarcanda, i tour prevedono sempre una puntata nelle distese infuocate, sabbiose e pietrose» commenta Viola Migliori. È diventato meta turistica quella che è stata definita la «porta dell’inferno».

In Turkmenistan, nel Karakum lo scenario è simile alle raffigurazioni di un girone dantesco. Il deserto è noto soprattutto per il cosiddetto cratere di Darvaza, dove viene costantemente bruciato il gas naturale presente nel sottosuolo. Non ha un’origine naturale ma nasce dalle perforazioni dei geologi sovietici che nel 1971, in cerca di giacimenti di petrolio e gas naturale, ubicarono qui una piattaforma poi crollata per il cedimento del terreno. Si aprì una voragine piena di gas naturale e per evitare l’espansione dei fumi tossici, i geologi decisero di innescare un incendio nella speranza che il fuoco consumasse tutto il gas presente all’interno della caverna nel giro di qualche giorno. Sicuramente non immaginavano che le fiamme potessero bruciare così a lungo, attirando schiere di viaggiatori, affascinati da questo spettacolo infernale. Meno inquietante ma di grande suggestione è il misterioso Mangystau, un angolo poco conosciuto del Kazakistan, sulle sponde del Mar Caspio. Chiamato anche il deserto colorato, per via delle sedimentazioni rocciose multicolori che screziano bizzarri pinnacoli e profondi canyon, mantiene il fascino di un paesaggio primordiale. Non è difficile imbattersi in fossili e impronte di dinosauro mentre le uniche tracce umane sono antiche moschee sotterranee ed eremi di asceti musulmani che qui si sono rifugiati, rapiti dai silenzi e dagli spazi infiniti della regione.

«Subito dopo la pandemia, l’interesse per quest’area è aumentato. Mentre prima il target anagrafico del turista era tra i 60 e i 70 anni ora la domanda arriva anche da over 40, colpiti dal fascino di uno scenario rimasto immutato da milioni di anni quando era il fondale marino dell’oceano Tetide. Il viaggio richiede capacità di adattamento perché si alloggia in campi nomadi, con tende ma lo scenario è unico al mondo» spiega Giancarlo Meoni, responsabile programmazione di Asia centrale Cina e Indocina di Kel12, storico operatore specializzato in viaggi nei deserti. Certo adesso si apre l’interrogativo fino a quando anche questi luoghi più remoti non saranno «colonizzati» dal turismo delle grandi strutture come tanti altri paradisi naturali. Chi vuole gustarne l’unicità, deve affrettarsi.

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