Per essere famosi, ogni azione vale
Fama e ricchezza, cosa non si fa per ottenerle! Sembra proprio questo, oltre alle dinamiche di potere che si innescano nelle relazioni di lavoro e d’amore, il filo conduttore di due film in arrivo al cinema, diretti dal parigino François Ozon, 55enne regista tra i più poliedrici in circolazione: il primo, Mon Crime - La colpevole sono io (in sala dal 25 aprile) si svolge negli anni 30 nella capitale francese e ruota attorno a Madeleine (Nadia Tereszkiewicz), aspirante attrice indagata per l’assassino di un produttore, che aveva tentato di violentarla durante un provino. La ragazza è innocente, ma su consiglio dell’amica avvocatessa Pauline (Rebecca Marder), con cui condivide un appartamentino, decide di prendersi la colpa. Il piano è trasformarsi durante il processo in un simbolo del femminismo che si oppone ai soprusi del maschio, conquistando di conseguenza l’assoluzione e la fama, anche se la sua riuscita farà infuriare la vera autrice del delitto che vede sfuggirsi di mano l’occasione per conquistare la gloria.
«Il cinema parlato mi è sempre apparso come l’arte della menzogna per eccellenza» dice Ozon, diventato celebre in Francia grazie a pellicole come Sotto la sabbia e 8 donne e un mistero. «Per questo da molto tempo desideravo raccontare la storia di una falsa colpevole. Così, quando per caso ho scoperto la pièce Mon Crime di Georges Berr e Louis Verneuil, uno dei grandi successi del 1934, ho subito capito di aver trovato la giusta opportunità per confrontarmi con questo tema». Naturalmente il testo originale, nato in altra epoca, doveva essere svecchiato: «Pur mantenendo il contesto storico e politico degli anni Trenta, ho voluto adattare liberamente la trama, in modo che al suo interno risuonassero le nostre preoccupazioni contemporanee in merito ai rapporti di potere e al controllo nelle relazioni uomo-donna. E ho voluto giocare con i parallelismi che esistono tra teatro e giustizia, riscrivendo tutta la parte del processo che originariamente mancava».
Il film sarebbe potuto diventare un vero dramma, ma il regista ha deciso di trasformarlo in una commedia dai toni vagamente farseschi, pieno di personaggi bizzarri, come il giudice incapace interpretato da Fabrice Luchini o il ricco dandy incarnato dal re della comicità transalpina Dany Boon. «Abbiamo passato e stiamo passando, a causa del Covid e dei problemi geopolitici, momenti di depressione collettiva» spiega il regista «e così ho sentito l’esigenza di ricorrere all’estro e alla leggerezza per meglio sopportare la dura realtà del presente. Per questo ho cercato di rifarmi a uno dei miei generi preferiti, la screwball comedy americana di registi come Frank Capra o Ernst Lubitsch, caratterizzata da dialoghi brillanti e situazioni strampalate e scorrette in cui i protagonisti inventano astuzie per trarsi da drammatici impacci, ma anche alle gustosissime commedie di Sacha Guitry, con le loro battute piene di arguzia».
Tutto puntando su due donne giovanissime, la bionda Nadia e la bruna Rebecca, che faranno innamorare il pubblico per talento e avvenenza: «Sono le due attrici di maggior talento della propria generazione» afferma Ozon. «Sono felice di averle messe al centro di quella che, insieme ai film Potiche e 8 donne e un mistero, può essere considerata una ideale trilogia che esplora la condizione femminile con humor e un tocco di glamour».
Tutt’altra atmosfera si respira invece nel suo film Peter von Kant (al cinema dal 18 maggio), in realtà uscito in patria un anno fa, dove Ozon, dopo aver girato Gocce d’acqua su pietre roventi, torna a omaggiare il maestro del cinema e drammaturgo tedesco Rainer Werner Fassbinder, morto 40 anni fa, e il suo testo poi diventato film Le lacrime amare di Petra von Kant. Ribaltando professione e genere dei protagonisti, la stilista Petra diventa Peter (Denis Ménochet), un corpulento regista omosessuale e di successo, ispirato allo stesso Fassbinder, «perché ho avuto l’intuizione» dice Ozon «che attraverso quella storia di amore lesbico in realtà volesse parlare della propria triste relazione con l’attore Günther Kaufmann». Peter trascorre le giornate nella sua splendida magione di Colonia, in cerca di ispirazione, in compagnia del silenzioso assistente Karl (Stéfan Crépon) che risponde a ogni sua richiesta e subisce ogni tipo di umiliazione quando il genio perde le staffe. Un giorno la sua amica attrice Sidonie (Isabelle Adjani) va a fargli visita e discute della recente fine della relazione di Peter, secondo lui dovuta al fatto che la propria carriera ha spiccato il volo mentre quella del suo compagno no.
Poco tempo dopo la donna presenta Peter ad Amir (Khalil Gharbia), un ventenne spavaldo e sexy che ha incontrato di ritorno dall’Australia, e il regista se ne invaghisce all’istante, proponendogli una carriera come attore pur di averlo in casa e nel letto con sé. «Ho trasformato Petra in Peter anche perché questo mi ha permesso di avvicinarmi in prima persona al protagonista e ai suoi tormenti» precisa Ozon. «La storia mi pare più rilevante che mai perché rievocando il mito di Pigmalione e della sua musa permette di porsi domande sulle dinamiche di potere che esistono nel mondo del cinema, in cui sono rilevanti la dominazione, il controllo e la sottomissione». Anche in questo caso, il testo che Fassbinder aveva scritto per il teatro e trasposto sul grande schermo quando aveva 25 anni doveva essere riadattato: «L’originale era molto formale, un teatro di marionette secondo lo stile del regista tedesco, quindi anche la sofferenza esibita era un po’ fredda, mentre io ho voluto rendere quei personaggi carnali, avvicinando gli spettatori alla sofferenza di Peter, per farli entrare nei meccanismi di questa storia d’amore malata» dice Ozon.
«Fassbinder sosteneva che gli esseri umani hanno bisogno l’uno dell’altro, ma non hanno imparato a essere coppia. Questa era la quintessenza del suo concetto di relazioni umane, che inevitabilmente erano destinate a essere corrotte prima o poi da lotte per il potere, bugie di ogni tipo, infedeltà e via dicendo. Nella mia versione del testo ho voluto essere fedele alla sua visione cupa e crudele dell’amore, pur rivelando l’ironia e l’umorismo celato nei meccanismi del desiderio infelice. Ho immaginato Peter come una corpulenta drama queen, sempre troppo indaffarata. Anche nel film di Fassbinder c’era un lato queer, con le donne che esagerano la propria femminilità. Peter è eccessivamente enfatico. E il più delle volte è “fatto” di alcol o droghe. Il trucco è stato quello di abbracciare la teatralità del personaggio, senza perderne le emozioni».