La retorica dell’emergenza banalizza il lavoro degli infermieri reso sempre più duro da tagli continui alla sanità. Poco protetti, spesso mandati allo sbaraglio nei reparti, sottopagati: ecco la loro vera realtà quotidiana.
Ginevra, 12 dicembre 2019. L’Organizzazione mondiale della sanità, invece di adottare le misure invocate dalla comunità scientifica internazionale contro il propagarsi di una pandemia, ancora sconosciuta ma annunciata fin nei dettagli, delibera di celebrare il 2020 come l’anno dell’infermiere. E invita gli Stati membri a «sostenere maggiori investimenti nella forza lavoro infermieristica, riconoscendo le difficili condizioni che gli infermieri affrontano fornendo assistenza dove è maggiormente necessario».
Bergamo, tre mesi dopo. Il 13 marzo Diego Bianco, operatore del 118, muore a soli 46 anni, lasciando la moglie e il figlio di otto anni. È il primo caduto sul lavoro da Covid-19 riconosciuto dall’Inail in Italia. Passa un altro mese e, il 16 aprile, anche Lidia Liotta, 55 anni, infermiera caposala in una casa di riposo di Predore, in provincia di Bergamo, muore di Covid-19. A inizio marzo aveva febbre e dolori e si era messa in malattia. Ma i «suoi nonnini» si ammalavano e avevano bisogno di cure. «Un capitano non abbandona la nave» aveva risposto alla sorella che la pregava di restare a casa. E così Lidia è tornata al lavoro, facendo turni doppi, perché altre colleghe nel frattempo si erano ammalate.
Dopo pochi giorni, la crisi, il ricovero e il decesso. Diego e Lidia sono due dei 37 infermieri morti per coronavirus al 28 aprile (23.988 i contagiati al 7 maggio). Alla stessa data, quelli positivi al tampone sono già più di 9.000. Vittime, prima ancora che del virus, di uno Stato che li ha regolarmente trascurati. Oggi li chiamano angeli o eroi. Davanti agli ospedali, sugli striscioni ormai sporchi e logori, si fatica a leggere le parole sbiadite di ringraziamento per medici, infermieri e operatori sanitari. Il sentimento di gratitudine e solidarietà per quei «soldati mandati in guerra senza armi» resta forte in tutto il Paese.
Per qualcuno, invece, sono degli untori. «Grazie per il Covid che tutti i giorni ci porti in corte. Ricordati che ci sono anziani e bambini, grazie». È il testo del biglietto trovato nella cassetta della posta da Damiana Barsotti, infermiera al reparto malattie infettive dell’ospedale San Luca di Lucca. Il sindacato Uil Fpl denuncia episodi analoghi, come l’allontanamento da una banca di un medico e appartamenti in affitto negati a medici e infermieri neoassunti. Loro, intanto, continuano a combattere tra mille difficoltà. Un’infermiera di Bergamo spiega il trucco per fare la pipì in reparto: «Quando indossiamo i dispositivi di protezione non possiamo andare al bagno perché spogliarsi e rivestirsi è molto pericoloso, basta un attimo di disattenzione per contagiarsi. E siccome i turni sono doppi o anche tripli, alcuni di noi indossano i pannoloni per incontinenti e si fanno la pipì addosso».
A Caserta, invece, chi lavora sulle ambulanze del 118, denuncia: «Lavoriamo in tre in una stanzetta di sei metri quadri, non possiamo cambiarci per indossare la divisa di servizio, non abbiamo un bagno dove lavarci le mani dopo aver finito un intervento, non possiamo espletare i semplici bisogni fisiologici. Siamo in una situazione di estrema precarietà. Dobbiamo stare seduti su una sedia di legno sgangherata nell’attesa del prossimo intervento e trattenersi la pipì fino a fine turno, quando torneremo finalmente a casa».
L’emergenza coronavirus ha fatto esplodere carenze e criticità di un settore professionale da anni trascurato e penalizzato dai tagli al bilancio della sanità. Dopo settimane in cui hanno affrontato il virus senza mascherine, guanti, tute, visiere e calzari a sufficienza («Ho intubato decine di persone trattenendo il fiato, nella stupida speranza che questo potesse evitarmi il contagio» racconta un infermiere di Genova), ora che si è allentata la pressione sui pronto soccorso e nei reparti, emergono i problemi strutturali che pure hanno contribuito alla catastrofe sanitaria. Come quando, in guerra, alla fine di uno scontro, dopo aver contato i morti sul terreno, si alza lo sguardo e si scopre che il campo di battaglia era stato mal preparato e offriva il fianco ad attacchi da più fronti.
Di chi è la colpa? Decine di Procure, da Aosta a Palermo, hanno avviato indagini per accertare responsabilità penali nelle strutture sanitarie e ospedaliere. Ma le vere cause vanno cercate altrove. Nei numeri, per esempio. Nel focus sul Sistema sanitario nazionale pubblicato nello scorso dicembre dall’Ufficio parlamentare di bilancio si legge che: «una delle voci di spesa che hanno risentito maggiormente delle restrizioni è stata quella per il personale, con una riduzione in valore assoluto di quasi 2 miliardi tra il 2010 e il 2018 (…) A questo andamento ha corrisposto un ridimensionamento del numero di lavoratori, compresi medici e infermieri, in particolare nelle Regioni in piano di rientro, e un peggioramento delle condizioni di lavoro».
Traduciamo in persone questi tagli di bilancio. In Italia negli ultimi 10 anni, stando alle stime della Ragioneria generale dello Stato, si sono persi 12.031 infermieri. Al 30 marzo il loro numero arrivava a 449.869, con un’età media di 54 anni, ma solo 105.000 sono dipendenti del Servizio sanitario nazionale. Protocolli alla mano, in Italia mancano all’appello oltre 53 mila infermieri. I «buchi» di organico più gravi, secondo il Centro studi della Fnopi, Federazione degli ordini delle professioni infermieristiche, si registrano in Lombardia (-11.248), Lazio (-7.397) e Campania (-7.152).
Una carenza che si riflette sui malati: studi internazionali calcolano che se in un reparto ci sono più di sei pazienti per ogni infermiere, il rischio di mortalità aumenta fino al 30 per cento. In Campania, ce ne sono 17 per ogni infermiere. Scricchiola anche l’equilibrio tra infermieri e medici: la media nei Paesi Ocse è di 3 a 1, in Italia la metà, portandoci al 35° posto della classifica stilata nel 2019 dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (peggio di noi, in Europa, solo Portogallo e Grecia).
Eppure, sempre più italiani hanno bisogno di cure: secondo le stime dell’Osservatorio nazionale sulla salute, nel 2028 in Italia gli anziani non autosufficienti saranno 6,3 milioni, un numero che rischia di far saltare l’intero sistema socio-sanitario. Altro tasto dolente, indicatore di quanto teniamo davvero ai nostri professionisti della salute, sono gli stipendi. La busta paga di un infermiere con 30 anni di esperienza arriva a fatica ai 1.500 euro netti al mese. L’aumento di 90 euro lordi al mese previsto nell’ultimo contratto (dopo dieci anni di blocco) non basta ad aumentare il loro potere di acquisto, che è sceso del 9% rispetto agli stipendi del 2009.
A completare il quadro, ci sono anche i lividi. Ogni anno circa 10.000 infermieri sono oggetto di violenza fisica e altrettanti di violenza verbale. Secondo un’indagine dell’Università di Tor Vergata di Roma, svolta nella primavera 2019, l’89,6% degli infermieri è stato vittima di violenza fisica o verbale sul luogo di lavoro. Sputi (nel 43,1 per cento dei casi), lancio di oggetti, schiaffi, pugni e calci. Insomma, vale la pena scegliere questa professione?
«Ci prendevano a calci in culo prima e continueranno a farlo passata questa emergenza» ci dice un infermiere che per settimane è stato nell’occhio del ciclone Covid-19 al San Matteo di Pavia, avamposto nella guerra al coronavirus. «Mi sono rotto i coglioni di essere chiamato eroe. Ho più di cinquant’anni, faccio turni di 12 ore al giorno, ho 30 anni di carriera alle spalle, ma sono entrato infermiere e andrò in pensione da infermiere. L’unica carriera che possiamo fare è quella di diventare coordinatore di reparto, cioè caposala: sono meno di 200 euro al mese in più e tante, tante grane. Grazie, non mi conviene». Gli chiediamo se rifarebbe questo mestiere. «Mah… ormai le soddisfazioni umane e professionali le trovo altrove, non certo in reparto, dove siamo schiacciati dalla burocrazia e trattati come numeri. Vedo colleghi giovani appena usciti dalle università e mi dicono che quella di diventare infermiere è la loro seconda o terza scelta. E hanno ragione, chi te lo fa fare?».
Amarezza e disillusione che non stupisce Barbara Mangiacavalli, presidente di Fnopi, la Federazione degli infermieri: «Con l’emergenza coronavirus sono drammaticamente emerse tutte le carenze del nostro settore, soprattutto sul territorio e nelle specializzazioni. Eppure, diciamolo: siamo noi che mandiamo avanti i reparti. Abbiamo laureati con master e dottorati di ricerca a cui nessun contratto riconosce un trattamento economico di formazione specialistica. Il nostro lavoro non viene nemmeno riconosciuto come usurante; l’indennità per un infermiere che lavora in un reparto di malattie infettive è di 5 euro lorde al mese!».
Per questo la Fnopi il 10 aprile ha inviato al governo alcune richieste urgenti: sblocco delle carriere, indennità professionali, riconoscimento della malattia professionale in caso di infezioni, più assunzioni e più specializzazioni.
Ma c’è speranza che cambi qualcosa? «Deve cambiare» sbotta Antonio De Palma, presidente del sindacato degli infermieri Nursing Up. «Abbiamo già dato un preavviso al governo di mobilitazione generale. Viviamo da troppi anni nel disagio e nella disorganizzazione e lo sperimentiamo tutti i giorni sulla nostra pelle. Quello che è accaduto deve essere di insegnamento; in questa emergenza abbiamo lavorato con impegno, spirito di sacrificio e senso civico del dovere e abbiamo ancora una volta abbassato la testa. Gestendo migliaia di pazienti gravi nell’ignoranza organizzativa di chi governa ospedali e reparti. Noi infermieri all’università seguiamo corsi di management ed organizzazione. Molti direttori di Asl hanno dimostrato di non saperne niente. Noi siamo professionisti, non carne da macello».
De Palma ha scritto al governo e ai presidenti di Regione: «Tanti di voi si accorgono di quanto siamo importanti, preziosi, competenti ma solo a parole. Negli ultimi provvedimenti dell’esecutivo non abbiamo avuto modo di leggere nemmeno un lontano riferimento a risorse destinate a forme stabili e concrete di valorizzazione della nostra professione». Questa è l’ultima occasione per tentare di arginare la migrazione all’estero dei nostri infermieri, i meglio formati e i più richiesti in Europa. Su internet ci sono decine di agenzie che mettono in contatto infermieri italiani con ospedali e cliniche stranieri, offrendo nel pacchetto di servizi anche corsi di inglese e tour operator.
La tentazione è forte. Oltre alla possibilità di carriera fino alla massima dirigenza di struttura, in tanti Paesi lo stipendio corrisponde alla professionalità. Se in Italia lo stipendio annuo lordo di un infermiere si aggira sui 32.479 euro, in Germania arriva a 41.000, nei Paesi Bassi a 53.000 e in Regno Unito può arrivare fino a 113.000 euro. Mentre in Italia, da tempo, molte Asl assumono infermieri con contratti da precari tramite agenzie interinali. E nel decreto Cura Italia sono previsti contratti di sei mesi, eventualmente rinnovabili, per chi si trasferisce a lavorare in un ospedale colpito dall’emergenza coronavirus.
Un esercito di 20 mila precari da mandare in trincea. «Siamo come fazzoletti di carta da usare e gettare» riflette Manuel Ruggiero, presidente dell’associazione Nessuno tocchi Ippocrate. «Il decreto in pratica dice: ti assumo per un po’, ti ammali e ti rimando a casa. E temo che, passata l’emergenza, tutto torni come prima». Un segnale dal governo, però, è già arrivato. Il ministero per lo Sviluppo economico ha annunciato sul proprio sito web che il 12 maggio stamperà un francobollo celebrativo delle professioni infermieristiche.