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Il padre della scienza in cerca di Dio

Il padre della scienza in cerca di Dio

Intorno al 1600 si formò in Europa un cenacolo intellettuale di pensatori attratti dai frutti della razionalità ma mossi anche da un forte interesse esoterico. E persino il genio della fisica Isaac Newton era affascinato dai misteri alchemici, dalla magia e dallo studio della natura come strada per avvicinarsi alla divinità.


Il 1660 fu un anno importante per l’Inghilterra. Il re Carlo II era da poco stato richiamato in patria dopo nove anni di esilio, e quello successivo sarebbe stato incoronato e celebrato come nuovo sovrano. L’esperimento repubblicano di Oliver Cromwell era crollato miseramente, e nel regno sembrava essere tornato un barlume di stabilità. Soprattutto, però, nel 1660 divennero realtà i sogni di un gruppo di filosofi, teologi e naturalisti che da un ventennio attendevano il proprio momento. John Wilkins, John Wallis, John Evelyn, Robert Hooke, Francis Glisson, Christopher Wren e William Petty nel 1640 avevano fondato una comunità di intelligenze e spiriti chiamata «Il collegio invisibile». Un cenacolo intellettuale in cui si riunivano nel nome del loro gigantesco precursore: Francis Bacon, scienziato e utopista autore de La nuova Atlantide.

Erano tutti imbevuti di amore per la scienza, ma pure di una forte attrazione per certe correnti di pensiero esoteriche che da qualche decina d’anni circolavano in Europa, specie nei territori più a Nord. Tutti costoro sembravano ispirarsi ai Rosacroce, misteriosa congrega di «illuminati» i cui manifesti erano stati pubblicati in Germania tra il 1614 e il 1616. Se siano davvero esistiti come associazione segreta e con quali scopi non è mai stato chiarito. Resta innegabile, tuttavia, che nel Seicento si sia affermato in Europa una sorta di spirito rosicruciano che ha affascinato più di un pensatore. Qualcuno, per esempio, riteneva che lo stesso Bacon avesse fatto parte della confraternita.

Semplificando un po’, possiamo dire che i Rosacroce si presentavano come un gruppo di eletti, interessati a scienza e progresso, alfieri della vera conoscenza e vera fede, e avversari della Chiesa cattolica (non a caso la presunta confraternita era germogliata in ambiente protestante, e protestante era il teologo Johann Valentin Andreae, autore de Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz). Dunque tutti i «cercatori di verità» potevano sentirsi vicini a questo gruppo segreto, anche se nessuno ne ha mai dimostrato l’esistenza.

I fondatori del Collegio invisibile inglese, invece, esistevano eccome e ricoprivano ruoli importanti nel mondo culturale britannico. Alcuni si consideravano affini ai Rosacroce, o pensavano di raccoglierne l’eredità spirituale, come ha mostrato la studiosa Frances Yates. Di sicuro li considerava eredi dei Rosacroce il filosofo ceco Giovanni Amos Comenio, autore di un libro utopistico non dissimile da quello di Francis Bacon, La via della luce. Anch’esso teorizzava la creazione di società di sapienti che avrebbero condotto il mondo lungo una strada luminosa, diradando le ombre oscurantiste. Comenio concluse la sua opera nel 1641, poco dopo la fondazione del Collegio invisibile. Ma la pubblicò solo nel 1668, con l’aggiunta di un testo introduttivo. In quelle pagine, il pensatore ceco dedicava il suo lavoro ai membri della Royal Society inglese, indicandoli come visibile manifestazione dell’impalpabile spirito rosicruciano.

Ecco che cosa accadde nel 1660: dopo il ritorno del re fu creata una delle più antiche e rinomate società accademiche europee, e a darle vita furono proprio i promotori del Collegio invisibile. Non deve stupire che i creatori di una celebre società scientifica fossero pregni di cultura esoterica o che qualcuno esibisse afflati mistici. Tra i loro precursori c’era John Dee (1527-1609), matematico, consigliere reale e, soprattutto, mago di fama europea. Non è forse un caso che, nei suoi viaggi nel Vecchio continente, sia passato negli stessi territori in cui, anni dopo, la passione per i Rosacroce sarebbe divampata con maggior potenza.

È in questo ambiente e su questo terreno friabile in cui scienza e magia si confondono che va collocato anche il genio propulsore della rivoluzione scientifica occidentale: Isaac Newton (1642-1727). Newton servì come presidente della Royal Society dal 1703 all’anno della sua morte, e il suo Philosophiae Naturalis Principia Mathematica fu stampato sotto il sigillo della Royal Society. Ciò significa che anche sir Isaac fu un Rosacroce? No, ma certo egli conosceva l’opera del mago John Dee, e nella sua sterminata biblioteca trovavano posto anche gli scritti rosicruciani attribuiti alla confraternita. Soprattutto, però, una larga parte dei libri di Newton era composta da testi alchemici. Nel 1936 la casa d’aste Sotheby’s mise in vendita un grosso baule pieno di scritti del grande scienziato. Come ricostruisce Michele Proclamato, alla morte di Newton, essi erano finiti «all’amata nipote Catherine Barton, moglie di John Conduitt, che, subito dopo la morte dello zio cercò di “liberarsene” offrendoli alla Royal Society, la quale, non solo si rifiutò di acquistarli, ma raccomandò agli eredi di non mostrare mai ad anima viva quel lascito».

Il segreto fu appunto mantenuto fino alla metà degli anni Trenta, quando i manoscritti furono comprati all’asta da un altro geniaccio, ovvero l’economista John Maynard Keynes. Per quale motivo quei testi suscitavano tanta diffidenza? È rivelatore, in proposito, ciò che disse lo stesso Keynes in una celebre conferenza per il Trinity College: «Newton non fu il primo dell’età della ragione. Egli fu l’ultimo dei maghi, l’ultimo dei babilonesi e dei sumeri, l’ultima grande mente che indagò il mondo delle esperienze sensibili e intellettuali con gli stessi occhi di quegli uomini che presero a intessere la nostra eredità intellettuale poco meno di 10 mila anni fa. Isaac Newton, nato già orfano di padre il giorno di Natale del 1642, fu l’ultimo bambino prodigio a cui i Magi potevano rendere un omaggio sincero e meritato». Rieccoci qui, sullo stesso terreno che avevamo lasciato poco fa. Un terreno in cui scienza e magia si confondono, e si sostengono a vicenda. Un terreno che sir Isaac battè per tutta la vita, come racconta Fabio Fazzari in Il rito di Isacco (Mimesis) e come dimostrano le riflessioni newtoniane sull’Apocalisse recentemente pubblicate da Bollati Boringhieri.

Come ha indicato l’autorevole storica dell’Università della California Betty Jo Teeter Dobbs, «Isaac Newton studiò alchimia all’incirca dal 1668 fino al secondo o terzo decennio del XVII secolo. Esaminò a fondo la letteratura alchemica, prendendo copiosi appunti e persino trascrivendo interi trattati di sua mano. Infine ne redasse di suoi, fitti di riferimenti alle opere precedenti». Si cimentò pure con la magia ermetica e, come tanti pensatori del suo tempo, con la teologia, che allora era considerata la prima e più importante disciplina con cui misurarsi. Per lui, l’opera alchimistica era prima di tutto un cammino spirituale, una disciplina di laboratorio che poteva avvicinare non soltanto alla verità ultima, ma anche a una forma di santità. Da buon anglicano, Newton detestava i cattolici, ma non gradiva nemmeno i dogmi della sua chiesa, in primis quello della Trinità. Per anni studiò (come i maghi ermetici) le credenze egizie, ed era convinto che proprio in Egitto Mosè avesse attinto alle fonti della «religione originaria», la conoscenza più antica e perenne. Isaac intendeva «lo studio della natura come un compito religioso». Anzi, a dirla tutta egli sembrava venerare la natura proprio come una divinità. Ed è questo, tra i suoi aspetti in ombra, il più interessante per noi. Perché ci mostra quanto siano sbagliati certi eccessi di razionalismo, e perché ci svela quali fossero alcune delle forze che diedero impulso alla rivoluzione scientifica. Un rivoluzione che aveva molti profeti e pure qualche mago.

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