I giorni felici quando, da bambino, andava con lui al Luna Park. I suoi sbalzi di umore, l’energia che gli arrivava «dall’essere stato povero» e quell’insolita capacità di raccontare il mondo con lo spirito del giullare di corte. Paolo Jannacci ripercorre la vita del padre Enzo, tra amarcord e aneddoti, in occasione della presentazione del Docufilm Vengo anch’io appena presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.
«Quando ero bambino non vedevo molto mio padre, lui era quasi sempre fuori, impegnato in ospedale e con le visite, oppure in giro per i concerti o a registrare qualche canzone o la puntata di uno show televisivo. Poi però quando tornava a casa mi portava nella zona delle Varesine a Milano, dove all’epoca c’era il luna park. Facevamo un giro nella casa degli spettri e poi sparavamo con il fucile. Infine tiravamo le palle per colpire i bersagli. Ci ha scritto su anche la strofa di una canzone: cinque palle e una lira, una ruota che gira. La canzone è La storia del mago, e il mago per me era lui». Paolo Jannacci, 51 anni, jazzista, cantautore e compositore, ricorda così la figura del padre Enzo, in occasione della presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia del documentario Enzo Jannacci. Vengo anch’io, di Giorgio Verdelli, in arrivo prima al cinema e poi in tv. Un film che celebra la carriera di quello che, come dice Roberto Vecchioni, dopo aver portato il rock in Italia insieme a Gaber e Celentano, è stato l’unico vero genio della canzone italiana: «A differenza di De André o Guccini, che si sono mossi su un cliché più scontato, Enzo è quello che ha sempre fatto ciò che non ti aspettavi, sia nell’umorismo sia nel tragico».
Il documentario racconta la vita e la carriera del cabarettista e personaggio televisivo, musicista e attore, scomparso dieci anni fa, che ha scritto e interpretato alcune canzoni indimenticabili che raccontano non soltanto la sua Milano: da El portava i scarp del tennis a Ci vuole orecchio, da Vengo anch’io, no tu no a Ho visto un re e Messico e nuvole, solo per citarne alcune. «Le sue competenze musicali derivavano anzitutto da studi molto classici» dice Paolo. «Dopo avere studiato questa base classica romantica con le prime maestre e frequentato il conservatorio, aveva esplorato per piacere gli standard americani degli anni 30, 40 e 50, il be bop e l’hard bop, che gli sono rimasti sempre nelle ossa. Le sue armonizzazioni ricordavano Thelonius Monk e Bud Powell, che gli aveva insegnato alcune cose, o Kenny Clark che a un certo punto gli chiese di suonare con lui allo stesso modo in cui avrebbe suonato un pianista americano, senza troppi fronzoli. Aveva il gusto anche per la musica brasiliana e fu importante per lui l’incontro con Chico Buarque, ma molti non sanno che sapeva suonare pure il basso: lo aveva fatto insieme a Franco Cerri».
Guardando il film ci si rende conto che seppure capace di assoluti colpi di genio in solitudine, in realtà la sua carriera fu un continuo circondarsi di artisti che diventarono amici oltre che collaboratori, come Giorgio Gaber, Dario Fo, Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, Paolo Rossi e altri ancora. «Il rapporto con queste persone era molto importante sia dal punto di vista della crescita artistica che sul piano personale, perché lo faceva sentire parte di qualcosa più grande di sé. Naturalmente era fondamentale aver trovato amici che accettavano le sue spigolature». Nel film emerge, infatti, come Enzo Jannacci non fosse una persona facile, con un carattere influenzato da repentini sbalzi di umore: «Aveva grandi alti e bassi» ammette il figlio. «Una mattina era felice e la sera magari per un contrattempo era capace di infuriarsi. Tutto, compreso il cambiamento di umore, avveniva in lui a una tale velocità che per chi non lo conosceva bene era difficile stargli vicino».
Nei suoi pezzi surreali in tv naturalmente emergeva il lato brillante, quasi da giullare: «Quello spirito» racconta Paolo «nasceva dall’energia che spesso hanno i ragazzi nati in povertà, quella stessa povertà che gli faceva volgere lo sguardo sugli ultimi della fila e scrivere una canzone su un barbone che portava le scarpe da tennis, prima che queste diventassero chic. Mio padre diceva che quando da ragazzo era povero si sentiva in difetto, e il sentirsi in difetto faceva scaturire in lui un certo tipo di energia. Tutto è sfociato poi nel movimento artistico milanese e poi italiano, finché incontrando Dario Fo, papà imparò il mestiere di giullare e saltimbanco. Un ruolo importante, se si pensa che in passato era colui che veniva invitato a corte per far capire al potente che lo ospitava i difetti del momento politico o sociale che stava percorrendo quel reame».
Per un’artista che era così apparentemente in balia delle proprie emozioni e ha raggiunto spesso vette altissime di successo, per esempio col brano Vengo anch’io, no tu no, affrontare l’esatto opposto avrebbe potuto essere un problema. Invece nel suo essere contro, Jannacci talvolta sfidava l’idea stessa del trionfo, come quando a Canzonissima gli impedirono di cantare la popolarissima Ho visto un re, considerata una canzone sovversiva, e lui per far abbassare gli ascolti propose Gli zingari. «Non credo abbia mai considerato pienamente il successo» dice Paolo, «perché in un certo senso lo considerava inafferrabile e imprevedibile e quindi sapeva che poteva anche non ricapitare. Aveva quel modo di essere super partes, anche nei confronti di se stesso, che gli faceva vivere in modo ironico l’insuccesso. Realizzava un disco e magari diceva: mi dicono tutti che sono un genio, ma qui non si monetizza!».
In questo senso non si può non considerare pienamente la figura di Enzo Jannacci, artista poliedrico e sopra le righe, senza ricordarne il suo lato più serio, quello di medico chirurgo, professione che ha praticato per decenni: «C’è un’intervista con la radio svizzera in cui raccontava di essere anzitutto un medico, di curare i pazienti con le sue mani, in maniera concreta e di avere anche una buona percentuale di riuscire a eseguire la diagnosi corretta», conclude Paolo. «Si sentiva un medico, in fondo era la sua vera vocazione e ha continuato a esercitare questo mestiere perché era il suo modo per affrontare il lato commerciale dell’essere un artista. Sentirsi ancorato a qualcosa di sicuro gli permetteva di sostenere gli esiti della sua carriera artistica con maggiore libertà».