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Diana, la solitudine di una principessa

Diana, la solitudine di una principessa

Kristen Stewart, l’attrice che interpreta Lady D nel film Spencer descrive a Panorama difficoltà e profondità con cui si è preparata per uno dei ruoli più difficili della sua carriera. «Mi sono concentrata sulla sua empatia, sul suo calore umano contagioso e disarmante, sui suoi silenzi. Tutti pensavano di conoscerla, ma nessuno sapeva chi fosse veramente».


Riesce a immaginare quanto devono essere stati difficili i tre giorni prima che Lady Diana decidesse di abbandonare la famiglia reale britannica?». Kristen Stewart riassume così il cuore del film Spencer di Pablo Larrain che, dopo il debutto alla Mostra del cinema di Venezia, arriverà presto sugli schermi italiani. In questo 2022 d’altra parte ricorreranno i 25 anni dalla sua morte, avvenuta nel tunnel del Pont de l’Alma, a Parigi, il 31 agosto 1997, data che probabilmente vedrà anche l’uscita del documentario della Hbo intitolato The Princess.

Spencer racconta, sulla base di testimonianze di prima mano raccolte dallo sceneggiatore Steven Knight (Locke e Peaky Blinders), la crisi profonda che la principessa ebbe nei giorni delle feste, quando ormai la separazione e il successivo divorzio dal principe Carlo erano a un passo. «Dove cazzo sono finita?» dice Diana, interpretata da Kristen Stewart, nella prima scena di Spencer: la principessa è attesa a Sandringham House, residenza di villeggiatura della famiglia reale vicino Norfolk, per i festeggiamenti natalizi, ma nonostante sia nata in un villaggio a poca distanza da lì non riesce a trovare la strada.

Il ritardo è mal tollerato da Carlo e dalla Regina ed è solo l’antipasto di una serie di attriti che si dispiegheranno lungo tre giorni di permanenza nella lussuosa magione. Dove risulta chiaro che Diana è come un animale ferito, perché ha rinunciato alla propria libertà per rinchiudersi in una gabbia che solo a chi la guarda da fuori non pare tale.

Non è stato facile per l’attrice resa celebre dalla saga di Twilight e cresciuta con film come Sils Maria e Seberg, accettare il ruolo dell’iconica principessa e trovare la chiave giusta per incarnarla: «Pablo Larrain mi ha chiesto se mi sarebbe interessato realizzare insieme questo poema per Diana» racconta l’attrice. «Non ero sicura di essere in grado di interpretarla ma mi sono detta che se avessi rinunciato non avrei dimostrato a me stessa coraggio. Mi ha sempre dato l’impressione che avesse questo calore umano contagioso, disarmante e pieno di empatia, ma che in lei ci fosse anche una parte estremamente privata. In fondo tutti credevano di conoscerla, eppure nessuno, a parte le persone più intime, sapeva chi fosse veramente. Ho pensato che se fosse entrata in una stanza non si poteva immaginare cosa aspettarsi da lei. Così mi sono convinta che non ci fosse un modo perfetto di ritrarla e questo ha reso per me le cose più semplici».

Anche se il film non ricostruisce fatti precisi, è efficace nel ricreare l’universo di relazioni all’interno della famiglia e del palazzo reale: il timore reverenziale nei confronti dell’imperscrutabile Regina (Stella Gonet) con i suoi silenzi giudicanti, la tensione con Carlo (Jack Farthing) pronta a sfociare in evidente acrimonia, e il rapporto con i tanti servitori e impiegati a palazzo, tra cui il capo chef Darren (Sean Harris) e l’amata assistente personale Maggie (Sally Hawkins), cioè le persone con cui sembra avere gli unici rapporti non inquinati dall’etichetta.

Spicca tra i tanti anche quello con il Maggiore Alistair Gregory (Timothy Spall), incaricato ufficialmente da Elisabetta di tenere Diana al riparo dal gossip, in realtà un agente al servizio segreto di Sua Maestà per tenere a bada i comportamenti bizzarri della principessa; e naturalmente il rapporto con i figli William (Jack Nielen) e Harry (Freddy Spry), in cui si sostanzia la sua unica possibilità di amare e riesce ad esprimere il proprio carattere di donna che si ribella di fronte all’educazione formale della casa reale.

«Avevo solo sette anni quando Diana è morta» dice Stewart «quindi non mi sono interessata subito a lei: sapevo solo che era una principessa diversa dalle altre, ma poco di più. Osservandola ho sempre pensato che fosse molto attraente e “cool”, ma anche che la sua unica sicurezza nella vita fosse il proprio ruolo di madre e la sua forza provenisse dalla relazione con i figli. Non essendo madre nella vita reale, è l’aspetto dell’interpretazione che mi ha spaventato di più: ho capito che se non fossi stata credibile in quel ruolo non l’avrei ritratta in maniera convincente».

Naturalmente nel film vediamo i fantasmi che si agitano nella mente della principessa alla deriva, compreso quello della regina Anna Bolena, «efficace metafora di come, per le donne, il clima oppressivo a corte risalisse a un’epoca ben anteriore a quella di Diana», e assistiamo al suo progressivo crollo psicologico, manifestato con le ripetute infrazioni del protocollo richiesto dalla famiglia e le abbuffate di cibo tipiche del suo noto disturbo bulimico.

In definitiva, al di là della rappresentazione di episodi già conosciuti, il fascino del film sta nell’evocare l’alone di mistero che paradossalmente ha reso Diana una delle principesse più raggiungibili e amate dai sudditi e dal pubblico globale: «Ho visionato le interviste per studiarla» dice Stewart «e mi è sembrata una persona che tutti cercavano di mettere all’angolo ed era costretta a difendersi, risultando allo stesso tempo estremamente vulnerabile, ma anche altrettanto manipolatrice. Una donna che sembrava aprirsi del tutto agli altri, ma che teneva chiuse in sé le sue zone oscure. Credo che l’avrebbe aiutata avere un’amica autentica, e anche se era circondata da persone, ritengo che l’isolamento a corte fosse il suo maggiore problema. Paradossalmente. penso che sia proprio questo il motivo per cui ha avuto un punto di contatto così forte con la gente: è probabile che abbia trovato nel rapporto con gli sconosciuti ciò che le mancava nella quotidianità».

A fare da contrasto alla ricostruzione del crollo emotivo nel film, c’è lo sfarzo degli abiti della principessa creati appositamente in collaborazione con Chanel dalla costumista Jacqueline Durran, già premio Oscar per Anna Karenina e Little Women. Nella vicenda anch’essi diventano terreno di scontro con la famiglia reale: quando Diana inizia a opporsi all’idea di indossare ciò che le viene richiesto dalle circostanze, esprimendo per esempio il desiderio di un abito nero «più in linea col proprio umore» invece di uno verde per la cena di Natale, i bisbigli sulla sua fragilità psichica iniziano a farsi insistenti, persino tra la servitù.

«Nel mondo della moda c’è l’idea che alcuni abiti – e chi li indossa – siano irraggiungibili per la gente comune» conclude Stewart «perché devono appartenere alla dimensione del sogno. Mentre la grandezza di Diana era quella di apparire sempre raggiungibile, al di là dell’immagine che proiettavano i suoi abiti. Credo che li utilizzasse come un’armatura, ma al tempo fosse pronta a svestirsene: potevi aspettarti che, infrangendo il protocollo, si togliesse scarpe e soprabito per avvicinarti e chiederti: “Come stai?”». n

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