Patricia Clarkson interpreta in modo magistrale il ruolo più difficile della sua carriera. «Nel film Monica sono una mamma in fin di vita che, dopo molti anni, ritrova suo figlio. Che nel frattempo ha cambiato sesso, diventando una donna bellissima».
Cosa accade nella testa di una donna che, a un certo punto della propria esistenza, vede morire il proprio figlio, per così dire, e solo molti anni dopo lo vede “rinascere” con un altro sesso, un’altra identità? Questa è la domanda che mi sono posta quando Andrea Pallaoro mi ha proposto di interpretare Eugenia nel suo film Monica».
Patricia Clarkson, 62 anni, attrice di classe sopraffina, più nota al grande pubblico per il volto che per il suo nome, descrive così la sfida psicologica di interpretare una persona alla fine dei suoi giorni a causa di un tumore, che si trova costretta a fare i conti con gli errori del passato e deve decidere se accogliere o meno la creatura che ha messo al mondo e poi ripudiato. «Non credo Eugenia sia una cattiva madre, solo che, come spesso capita, si è fatta trascinare dal marito nel rifiutare il figlio» dice Clarkson a Panorama, che l’ha incontrata all’ultimo Festival del Cinema di Venezia. Lei ha una lunga carriera alle spalle scandita da ruoli in film di successo come Jumanji, Il miglio verde, Lontano dal Paradiso, Good Night and Good Luck. «Mi ricordo quando sono venuta a Venezia con George Clooney per presentare il suo film. Ogni volta che ci torno è un’esperienza fortissima, perché amo l’Italia: chi non la ama d’altra parte?» commenta. «E così quando mi ha contattato questo giovane regista italiano, Andrea Pallaoro (vive negli Usa da quando aveva 17 anni, ndr) per propormi questo film, ho deciso di leggere la sceneggiatura. Mi ha attratto proprio il viaggio emotivo che avrebbe dovuto compiere il mio personaggio».
Come si fa a calarsi in un ruolo così doloroso?
Bisogna prepararsi a lungo e ripescare nelle proprie esperienze. Per fortuna io non sto morendo come Eugenia, ma da attrice ho imparato a usare il privato per far risuonare le emozioni dei personaggi. Il bello di invecchiare è che col tempo e l’esperienza si hanno più frecce al proprio arco. Forse per questo lavoro più oggi di quando ero giovane.
Lei non ha figli.
È vero, non ho vissuto questa esperienza. Ma ho interpretato molte madri, e paradossalmente riesco ad avere una prospettiva migliore su questi personaggi. Osservo le mie amiche e le mie sorelle nelle relazioni con i propri figli e nipoti. E poi come punto di riferimento spesso ho mia madre Jackie che è sempre stata una donna forte e per me un modello per via del suo ruolo pubblico.
Attrice anche lei?
No, è stata per dieci anni nella Camera dei rappresentanti della Louisiana e poi ha avuto diversi ruoli nell’amministrazione di New Orleans. Insieme ad altri ha contribuito a salvare la città e i suoi abitanti dopo l’uragano Katrina del 2005. Quindi ho sempre avuto davanti agli occhi un esempio di gran carattere, che di sicuro mi ha forgiato. Eugenia è molto diversa da me, ma ho cercato di accogliere la sua fragilità. Anche perché il suo è un viaggio di redenzione, insegna che quando metti al mondo un figlio, l’unica scelta possibile è amarlo. E non importa se è maschio, femmina o transgender.
Pallaoro in questo film gioca spesso su sguardi e silenzi. Da attrice è un vantaggio che ci siano meno dialoghi?
L’amore spesso non si esprime a parole, e forse è per questo che Eugenia e Monica (la bravissima attrice trans Trace Lysette, ndr) hanno così tanto bisogno di parlarsi. Da attrice posso dire che la performance dipende più dal ruolo e dalla qualità dei dialoghi che dalla quantità, ma paradossalmente il fatto di averne meno in questo film mi ha permesso di concentrarmi sulle emozioni ed essere più vicina al personaggio, senza farmi distrarre dalle battute.
E quando si interpreta un personaggio che prova emozioni così forti per lei è meglio uscire dal personaggio tra un ciak e l’altro oppure no?
In generale sono capace di entrare nella mente di qualcuno piuttosto velocemente durante le riprese, soprattutto se ho pensato a lei così a lungo come nel caso di Eugenia, che mi è stata proposta tre anni prima dell’inizio del film. Però Pallaoro ha creato un set in cui non c’era spazio per altro, oltre alla storia. Un approccio che mi piace, ma ricordo che la sera, dopo aver passato molte ore nella camera da letto di Eugenia, finalmente si spegnevano i riflettori e facevo un respiro profondo.
Di recente si è discusso molto se sia ancora giusto assegnare premi ai festival o agli Oscar per la migliore interpretazione maschile o femminile, perché tale scelta escluderebbe, secondo alcuni, tutti quelli che non si identificano nei due generi. Infatti al Festival di Berlino è stata inaugurata la miglior performance. Che ne pensa?
Se lei si riferisce a Trace Lysette non ci sarebbe alcun problema a scegliere la categoria perché è donna a tutti gli effetti. Ma a parte il limite di non considerare chi non si identifica con il genere maschile o femminile, ridurre le categorie a una sola «per la miglior performance» discrimina sicuramente le donne. Perché l’industria del cinema è ancora largamente dominata dai maschi.
Immagino che però Hollywood fosse anche peggio quando ha iniziato lei…
Oh sì, ormai ho 38 anni di carriera, un’eternità. Non solo Hollywood, ma il mondo era peggiore. Pensi che sul set di The Untouchables – Gli intoccabili, il mio primo film (dove interpretava la moglie di Kevin Costner, ndr), persino in sala trucco c’erano soltanto uomini. C’erano maschi bianchi in ogni ruolo. Oggi per fortuna sono stati fatti passi avanti. Ho appena finito di girare una serie tv in otto episodi intitolata Gray, in cui interpreto il ruolo principale. Una volta queste cose non accadevano.
Di che cosa parla la serie?
Cornelia Gray è un’ex agente della Cia che ritorna a farsi viva dopo essere scomparsa a lungo perché reputata di aver tradito il Paese. Interpreto una femme fatale, a 62 anni! Insieme a me c’è Nathalie Emmanuel (vista nel Trono di Spade, ndr) e la serie è scritta da John McLaughlin, che aveva sceneggiato Black Swan. Il racconto è brillante ma anche drammatico, perché Gray non ha rivisto né il marito né i suoi figli per 20 anni.