Attraverso visori, schermi e lenti hi-tech potremo provare esperienze che ci condurranno in universi paralleli molto credibili. In pochi anni cambierà il modo di studiare, lavorare, fare shopping, divertirsi e socializzare. Nascerà un business da cinquemila miliardi di dollari proiettato nel digitale. che, però, rischia di farci perdere di vista qualcosa: la vita vera.
Dobbiamo essere onesti: non abbiamo davvero capito cosa sia, eppure ha già abbastanza stufato. Perché di metaverso se ne parla di continuo, ovunque, però è troppo presto per abitarlo, sperimentarne a dovere le possibilità, viverne i contenuti rivoluzionari. «Ci vuole pazienza. È un po’ com’è accaduto con internet alla fine degli anni Novanta. Era chiaro che sarebbe stato un ambiente ampio dove avremmo fatto molte cose, nessuno sapeva con certezza quali» osserva Lorenzo Montagna, ex amministratore delegato di aziende come Yahoo! e Altavista, tra i più quotati conoscitori in Italia del fenomeno. «Lo stiamo sovrastimando nel breve periodo» aggiunge «e sottostimando nel lungo. Perché si affermi sul serio, ci vorrà ancora qualche anno».
Mettiamola così: le radici del metaverso si stanno piantando oggi, i frutti arriveranno. E copiosi: la società di consulenza McKinsey lo considera un business che, entro il 2030, varrà fino a cinquemila miliardi di dollari; secondo Gartner, nel 2026 una persona su quattro trascorrerà nei suoi territori come minimo un’ora al giorno. Ma impegnato in cosa? «Nel gioco o nello studio, tanto per cominciare» risponde Federico Rampolla, tra i pionieri del web e uno dei massimi esperti di digitale in Italia. Poi aggiunge: «Do per scontato che, nelle scuole e nelle università, gli approfondimenti con un visore sul naso saranno la regola. Saranno i prossimi compiti in classe. La ragione è che queste esperienze sono più efficaci, restano meglio in testa».
Faremo shopping in negozi virtuali, non solo di abbigliamento o gadget hi-tech: una famosa catena americana ha permesso di comporre online la propria pizza preferita prima di riceverla a domicilio; esploreremo a distanza le stanze della casa che vogliamo comprare, gli interni dell’auto che ci piacerebbe acquistare; parteciperemo a eventi, sfilate, seminari, concerti: quelli del deejay Marshmello e del rapper Travis Scott hanno raccolto, ciascuno, più di 10 milioni di spettatori urlanti e saltanti da casa; vedremo in anteprima le destinazioni verso le quali sogniamo di viaggiare e gli alberghi dove soggiornare; dialogheremo con il personal trainer tra un esercizio e l’altro, con l’addetto della banca o di un servizio clienti per risolvere una scocciatura burocratica. È evidente che incontreremo altri individui, non chattando, ma parlando e ascoltando la loro voce in diretta. E così sarà con i colleghi per una riunione, con amici e familiari per un aperitivo di gruppo, ognuno collegato dalla propria abitazione. I social network allargheranno le loro dinamiche; il sesso virtuale, di più.
«Il metaverso» dice Montagna «crea una nuova relazione tra lo spazio e le persone. Porta il contenuto all’interno del campo visivo». Un esempio pratico? «Un corso di formazione per medici in realtà virtuale. Guardano le loro mani rispondere ai comandi che impartiscono mentre operano corpi finti. Provano la sensazione fisica di essere sé stessi dentro il mondo digitale, non una freccia su uno schermo mossa da un mouse».
Per stringerlo in una formula, il metaverso è un’interattività credibile, tridimensionale, persistente: non si spegne mai. È ubiquo e trasversale: vi si accede dal display del pc, dello smartphone, da occhiali e visori da mettere in testa. «Ma negli Stati Uniti stanno già sperimentando lenti a contatto che proiettano le informazioni sull’occhio, mentre Elon Musk studia un chip che s’impianta direttamente nel cervello» sottolinea Rampolla. Che paragona il metaverso «a un’immersione subacquea. Solo che anziché indossare una muta, per muoversi negli ambienti virtuali si utilizza un avatar».
È l’altro cardine del fenomeno, l’attore protagonista del metaverso: un pupazzetto che ci raffigura, un tramite digitale con le nostre sembianze. O che, all’inverso, non ci somiglia per niente: può essere un gatto, un robot, una creatura che fluttua nell’aria, qualunque entità visiva riteniamo ci rappresenti. In vari casi, vestita all’ultima moda: gli abiti e gli accessori di bit con cui imbellire l’avatar sono già miniere d’oro su Fortnite, Roblox e altre piattaforme apprezzate dai giovanissimi. La società di ricerche inglese Technavio prevede, entro il 2026, un giro d’affari da 6,61 miliardi di dollari solo per t-shirt, sneaker e altri capi che fisicamente non esistono, ma si comprano con le valute del mondo reale.
Il metaverso è questa strana entità: una potenziale prateria d’affari d’oro, una traiettoria extraterrestre che ubbidisce a regole di un altro pianeta, dalle ricadute tutt’altro che astratte. I suoi pericoli, infatti, sono concreti: oggi scorriamo le storie Instagram prima che scompaiano, domani rischiamo di essere travolti dall’ansia di non rimanere abbastanza nell’intangibile. Ed è qui che le sofisticazioni tendono la loro trappola: «Ci troveremo calati in dinamiche divertenti e coinvolgenti. A furia di inseguirle, potremmo perdere di vista la vita vera» avverte Alessio Carciofi, docente di marketing e digital wellbeing all’università di Pisa.
È la distopia del film Ready Player One, in cui orde di persone cercano rifugio in un altrove simulato per sfuggire al pensiero incombente delle miserie quotidiane. Senza arrivare a tali derive, serve un approccio consapevole. Anche perché sarebbe miope ragionare al futuro: «I giovani» continua Carciofi «usano l’espressione in “real life”, come contrapposizione alla normalità, che per loro risiede già nel digitale. È uno spaccato epistemologico davvero interessante». Che reclama attenzione: «Il metaverso è il luogo dove le esperienze fatte possono essere molto realistiche e immersive, talvolta con il rischio di danni soprattutto nei più piccoli» afferma Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro. «Dobbiamo costruire delle regole e dei percorsi che permettano alle nuove generazioni di vivere il mondo digitale in totale sicurezza, anche dal punto di vista della loro salute mentale».
Regole ad hoc serviranno pure per proteggere le identità smaterializzate, per evitare che nel metaverso qualcun altro finga di essere noi, mettendo in pericolo le nostre finanze e la reputazione. È la frontiera della pirateria informatica che imporrà una guerra contro il deep fake, il finto ingannevole perché sembra vero. Il metaverso offre un terreno fertile alle falsificazioni: «Le identità» riassume Montagna «diventeranno sempre più clonabili». Rampolla suggerisce una soluzione: «Pur sancendo il diritto individuale di crearsi avatar diversi, sarà prioritario sviluppare standard certificati per farsi riconoscere dove è necessario». Per esempio, dall’istituto di credito, dall’assicurazione o dalla pubblica amministrazione. Prepariamoci a dotarci di un avatar munito di Spid.
Secondo un rapporto di poche settimane fa a cura della società di ricerche Ipsos e dell’Osservatorio Metaverso, gli italiani guardano a tale orizzonte con un atteggiamento ambivalente: il 57 per cento del campione ritiene che potrà creare il rischio di far perdere il contatto con la vita fisica, il 40 per cento lo giudica un rischio per la privacy, il 28 per cento dice di averne paura; in compenso, il 51 per cento degli intervistati riconosce che gli consentirà di imparare e fare cose nuove, il 50 per cento si definisce emozionato di fronte allo spalancarsi di queste possibilità inedite. Sarà forse perché sono opportunità affascinanti, con l’eco di una magia infantile: «Da quando siamo bambini» spiega Montagna «ascoltiamo storie e favole che ci parlano di un universo parallelo, nascosto da qualche altra parte. Presto, avremo a disposizione una porta che ci conduce verso quei mondi. E li potremo vivere».