Speciale Scala di Milano - Leo Muscato: «L'opera di Verdi è un reportage di guerra»
Per il regista, La Forza è la migliore opera di Giuseppe Verdi per ricchezza di personaggi e soprattutto per la sua attualità tematica legata ai conflitti. Da qui una direzione intesa come un «piano sequenza» che dal Settecento arriva ai giorni nostri
Un viaggio nel tempo. Un viaggio nel tempo e nelle guerre che hanno insanguinato, e continuano a farlo, come la cronaca ci racconta quotidianamente. La forza del destino di Giuseppe Verdi che il 7 dicembre inaugura la nuova stagione del Teatro alla Scala è un «reportage di guerra». Così Leo Muscato rilegge l’opera che il compositore delle Roncole scrisse nel 1862 per San Pietroburgo e ripensò, riscrivendo completamente il finale, nel 1869 proprio per Milano.
«La guerra è la cornice dentro la quale raccontiamo quest’opera, una forza del destino in tempo di guerra» anticipa il regista di Martina Franca, al suo primo Sant’Ambrogio scaligero. «Forse sono più emozionato della prima volta, quando ho fatto Il barbiere di Siviglia. La Scala è un teatro che accoglie e l’emozione e l’eccitazione sono contagiose. La commissione per questa Prima è arrivata proprio un mese dopo il rossiniano Barbiere che abbiamo fatto a settembre del 2021 con Riccardo Chailly. Da allora ho iniziato a pensarci e a progettare la mia prima Prima» racconta Muscato. Sul podio di questa Forza ci sarà proprio Riccardo Chailly, direttore musicale del Piermarini. In scena un cast di stelle della lirica. Dopo il forfait di Jonas Kaufmann, Alvaro è il tenore americano Brian Jagde, il soprano russo Anna Netrebko veste i panni di Leonora, il baritono francese Ludovic Tézier quelli di Don Carlo, il mezzosoprano russo Vasilisa Berzhanskaya è Preziosilla, Alexander Vinogradov è il Padre Guardiano e Marco Filippo Romano Fra Melitone. «Personaggi» sottolinea il regista «che con le loro vicende private si stagliano su uno sfondo storico, di guerra, appunto».
Muscato, perché la guerra?
Perché è presente in tutta l’opera, è il fulcro narrativo del racconto, anche dove Verdi e il suo librettista Francesco Maria Piave non la citano esplicitamente. Pensiamo al primo atto, Leonora, promettendo il suo amore ad Alvaro, dice: «Con te sfidar impavida di rio destin la guerra…» quindi vuol dire che per fuggire con lui è pronta anche a sfidare i pericoli della guerra. Il terzo e il quarto atto sono atti di guerra, lo sappiamo. E alla fine, proprio nel quarto atto, la guerra è in corso, è come se fossimo alla fine di una giornata di bombardamenti, con gente provata dalle conseguenze degli spari, che non ha cibo per sfamare i figli. Quando ho iniziato a lavorare a questo progetto, due delle guerre che oggi tengono il mondo con il fiato sospeso, quella in Ucraina e quella in Medioriente, non erano ancora scoppiate. Ma ce ne erano comunque tante. E col tempo, ahimè, il conflitto si è rivelato la cornice ideale e drammaticamente attuale nella quale inserire il nostro racconto. Dovevo capire di quale guerra parlare. Quella del libretto che è una delle tante guerre di secessione del Settecento? O era meglio avvicinarci a Verdi e alle guerre di indipendenza dell’Ottocento? Oppure schiacciare il pedale dell’attualizzazione e portare la vicenda ai giorni nostri?
E quale guerra ha scelto di raccontare?
Una guerra trasversale, che attraversa i secoli nei costumi di Silvia Aymonino. Partiamo dal Settecento del libretto e arriviamo ai giorni nostri. Nel primo atto la guerra è nell’aria e noi siamo nel Settecento, tra i militari del marchese di Calatrava, perché ogni casato al tempo aveva un suo piccolo esercito. Siamo da subito in un contesto militarizzato, Carlo è un soldato e anche Alvaro lo è. Nel secondo atto facciamo un balzo nell’Ottocento per raccontare il reclutamento con giovani leve che si arruolano mentre Preziosilla canta «Evviva la guerra!». Il terzo atto ci porta nel Novecento, alla Prima guerra mondiale, l’ultimo conflitto che si è combattuto corpo a corpo, siamo in trincea, tra prime file e ospedali da campo, dove ci sono soldati feriti, altri che muoiono, altri che scrivono una lettera d’addio. Il quarto atto ci catapulta nella nostra contemporaneità anche se non metto in scena profughi o persone civili, per non ammiccare al Medioriente, all’Ucraina, Myanmar o altri luoghi dove oggi si combatte, racconto piuttosto un mondo di militari, da un parte i vincitori e dall’altra i vinti che chiedono pane e pietà. Uno scenario oggi drammaticamente attuale. E questo provoca in me un’indignazione mista a frustrazione perché di fronte alla guerra ci sentiamo impotenti.
Raccontata così questa Forza inaugurale assume anche un significato politico: la denuncia, come ripete spesso Papa Francesco, che «la guerra è sempre una sconfitta».
La Forza è una delle più belle opere che Giuseppe Verdi abbia scritto, perché dentro c’è tutto, c’è la vita di ciascuno, l’amore, la fede, la violenza (che è spietata), l’odio (che è feroce). Uno dei temi principali che mi commuove, anche perché è una delle mie più grandi paure, è quello di dover abbandonare tutto improvvisamente, di chiudere con la vita che si è fatta sino ad ora per voltare pagina. Nell’opera questo avviene per una banalità, un momento di ira non controllata, un colpo di pistola che parte accidentalmente. E poi c’è la possibilità di redenzione, un tema attualissimo, in un mondo attraversato da devastazioni. Alvaro me lo immagino come un uomo perseguitato da un senso di colpa atavico che non si placa, cerca sempre un modo per morire perché, da credente, sa che suicidarsi sarebbe un peccato che lo porterebbe ad essere dannato. Ecco perché va in guerra, non per la gloria, ma per cercare di morire sul campo di battaglia. Ecco perché accetta di battersi con Don Carlo. Poi nel finale, quando ritrova Leonora morente lei lo convince a perdonarsi, «Piangi e prega...» e lui finalmente dice: «Leonora io son redento, dal cielo son perdonato». E in quel momento hai la sensazione che succeda un miracolo.
Riccardo Chailly come ha accolto il suo progetto?
Da subito con entusiasmo. Appena arrivata la proposta di lavorare insieme a questa Forza, titolo che anche il maestro affronta per la prima volta, abbiamo iniziato a sentirci periodicamente per confrontarci. Abbiamo parlato frequentemente, abbiamo sviscerato insieme l’opera. Così, in un dialogo continuo, abbiamo costruito insieme questo spettacolo. Che ho immaginato come un lungo piano sequenza. Occorreva uno spazio che cambiasse in continuazione e per questo ho chiesto alla mia scenografa, Federica Parolini, un girevole che sarà una sorta di ruota del destino che gira in continuazione per cambiare continuamente scenario. Tutte le maestranze scaligere hanno fatto un lavoro formidabile per mettere a punto questa struttura scenotecnica complessa illuminata dalle luci di Alessandro Verazzi.
La lirica, il cinema, mondi, linguaggi, che, insieme alla prosa, lei frequenta abitualmente.
Senza, però, l’ansia di usare tutti i linguaggi di cui disponiamo. Uso quelli che servono per toccare le corde degli spettatori. La sfida per un regista è quella di trovare ogni volta una strada diversa per rendere comprensibile una storia. Il che non significa semplificarla, perché spesso per rendere più comprensibile una storia occorre renderla più complessa. Per questo si può anche prescindere dalle indicazioni delle didascalie, ma non dalle parole che i personaggi pronunciano/cantano e dal loro significato. Quando si mette in scena un’opera ci si deve confrontare con quello che lo spettatore sa già di quell’opera, di quella storia. E allora devi sorprenderlo, ma usando le stesse parole di sempre. Da piccoli non ci facevamo raccontare sempre le stesse favole, sempre con le stesse parole, ma restandone ogni volta stupiti e affascinati? Succede lo stesso anche con l’opera. Che un tempo era un mezzo di conoscenza, popolare, perché non tutti avevano accesso ai libri. E anche per questo non possiamo far diventare il teatro elitario - certo, i prezzi dei biglietti spesso non sono popolari, anzi - perché andremmo contro la sua essenza, snaturandolo.
Divulgare l’opera anche in tv, non a caso il 7 dicembre La forza del destino andrà in diretta su Rai1 e in moltissimi cinema in tutto il mondo.
E questo è molto importante. Tanto più che il pubblico del titolo inaugurale non è uno solo. C’è il pubblico della Prima, tutto particolare. C’è il pubblico delle repliche, quello scaligero, che frequenta il teatro durante tutto l’anno. E c’è il pubblico televisivo che forse non verrà mai in teatro, ma dobbiamo cercare di catturarlo con un racconto moderno e attuale. E cosa c’è di più drammaticamente attuale della guerra? «Pace, pace mio Dio» invoca Leonora nel quarto atto. La stessa richiesta che i popoli del mondo innalzano oggi: pace!