Speciale Scala di Milano - La forza del destino, fra trionfi e scongiuri
La «ventiquattresima opera» di Giuseppe Verdi, dopo 59 anni, torna ad aprire la stagione lirica del Piermarini. A volerla il maestro Riccardo Chailly, che è al decimo «7 dicembre» consecutivo, e chiude così idealmente il suo percorso nel grande compositore
Facciamo i dovuti scongiuri e troviamo subito il coraggio di nominarla, La forza del destino, il capolavoro verdiano che il 7 dicembre 2024 apre la nuova stagione della Scala. Ogni melomane, critico, musicologo che si rispetti sa che non si dovrebbe mai dire o scrivere il titolo di quella che è considerata l’opera iettatoria per eccellenza.
«La potenza del fato», «L’opera di San Pietroburgo», «L’innominabile», «La ventiquattresima opera di Verdi» sono solo alcune delle perifrasi usate per parlarne senza rischiare di sfidare la sorte, che sia o meno razionale, o anche solo di buon senso. Che poi, andando a cercare le ragioni della nefasta reputazione della Forza, non è che venga fuori granché. Certo, è noto che nel 1960 il povero baritono Leonard Warren fu colpito da un infarto fatale al Metropolitan dopo aver cantato l’aria «Urna fatale del mio destino», che è preceduta dal recitativo «Morir! Tremenda cosa». Ma a essere onesti, non è che le altre opere verdiane abbiano libretti meno sinistri. E poi cosa si dovrebbe dire del tenore Richard Versalle, morto nel 1996, anche lui al Met (stai a vedere che…) durante L’affare Makropulos di Leoš Janácek dopo aver pronunciato la frase «You can only live so long» («Si può vivere solo per un certo tempo», l’opera si dava in inglese).
Folklore operistico a parte, una particolarità nel titolo di quest’opera in effetti c’è. È l’unico nel catalogo verdiano che sia legato a un concetto, e non a un personaggio o a un fatto o a un luogo. Ci sarebbe stato Rigoletto, che in origine doveva chiamarsi «La maledizione», ma l’idea tramontò per ragioni di censura. Peraltro anche nella Forza la parola «maledizione» ricorre diverse volte, 14 per l’esattezza, contando anche verbi e aggettivi derivati. I maledetti sono i due amanti sventurati, Leonora e Alvaro, colti in flagrante dal padre di lei, il Marchese di Calatrava, ucciso da un colpo partito per sbaglio dalla pistola di Alvaro, che l’aveva gettata a terra in segno di resa. Come diceva Cechov, se in un racconto compare una pistola, questa prima o poi dovrà sparare.
Seguono avventure e disavventure di ogni tipo: la Forza è l’opera più eterogenea di Verdi. L’autore noto negli anni giovanili per la cosiddetta «tinta», ovvero per la coerenza stilistica e drammatica dei suoi lavori, mai come in questo lavoro della maturità sperimenta al contrario la varietà delle soluzioni. Tutto cambia continuamente, a partire dagli ambienti: palazzi, osterie, conventi, accampamenti militari; e poi ancora i personaggi: aristocratici, popolani, soldati, zingare, frati e via così, con tragedia e commedia che si mescolano, anzi si accostano mantenendosi irriducibili l’una all’altra. È proprio per questo che in queste ultime settimane di prove Riccardo Chailly ha spesso fatto riferimento al Manzoni per spiegare l’enigma dell’opera. Riferimento che è qualcosa di più di una suggestione, se si tiene conto che Verdi, per la versione della Forza andata in scena alla Scala nel 1869 (sette anni dopo la prima di San Pietroburgo), ripensa completamente il finale, eliminando il suicidio di Alvaro e scrivendo apposta un terzetto catartico, rarefatto, manzoniano appunto, in cui Padre guardiano chiama i due amanti alla preghiera, come una sorta di Fra Cristoforo con Renzo e Lucia - se non fosse che Leonora è morente. E come se non bastasse il librettista Antonio Ghislanzoni, intervenuto per integrare alcune scene per la ripresa scaligera, in quel periodo stava lavorando a una riduzione in libretto proprio dei Promessi sposi per il compositore Enrico Petrella.
Che sia quindi questa varietà romanzesca dell’opera, una delle più sperimentali del Verdi maturo, a renderla meno presente nei cartelloni? Non che non si faccia mai, anzi. Scorrendo le stagioni scaligere dal dopoguerra a oggi, l’opera viene diretta per primo da Victor de Sabata, poi da Nino Sanzogno e Antonino Votto, quest’ultimo in ben tre occasioni, una delle quali con Renata Tebaldi e Giuseppe Di Stefano. Quanto a Maria Callas, non la canta in scena ma la incide in quegli anni con i complessi della Scala diretti Tullio Serafin. Poi la dirige Gianandrea Gavazzeni nel 1965. Ma la rappresentazione entrata negli annali è sicuramente quella del 1978, per il bicentenario della Scala: direzione di Giuseppe Patanè, regia di Lamberto Puggelli con scene di Renato Guttuso, e un cast leggendario con nomi come Montserrat Caballé, José Carreras, Piero Cappuccilli e Nicolai Ghiaurov.
Bisogna aspettare il 2000 per rivedere la Forza a Milano, prima con Riccardo Muti nella versione ’69 (regia di Hugo De Ana), poi l’anno dopo con Valery Gergiev e l’orchestra del Mariinskij nella versione originale di San Pietroburgo, più cupa e nichilista. Tutto sommato si contano diversi importanti allestimenti, ma solo un’altra volta la Forza aveva inaugurato una stagione della Scala: con Gavazzeni nel ’65. Impietoso il confronto con un altro titolo ambizioso di Verdi, Don Carlo, programmato come apertura del teatro per ben cinque volte, compreso lo scorso anno.
Sono molte le ragioni che rendono importante questa scelta di Riccardo Chailly, giunto al suo decimo «7 dicembre» consecutivo. Innanzitutto si completa idealmente il suo percorso verdiano, dopo Giovanna d’Arco, Attila, Macbeth e Don Carlo, e inoltre sembra perfezionarsi la riflessione musicale su «massa e potere» iniziata con Boris Godunov, capolavoro che Musorgskij può aver concepito solo grazie all’influenza in Russia della Forza verdiana. Per questa nuova produzione firma la regia Leo Muscato, che non intende mascherare la frammentarietà dell’opera, ma al contrario esaltarla, esasperando il passaggio del tempo con ognuno dei quattro atti ambientato in un’epoca diversa, dal Settecento ai giorni nostri. Il tutto ricucito scenicamente da un grande girevole che, ineluttabile come il fato, fa convergere i protagonisti verso il loro tragico incontro finale. In scena Anna Netrebko, che con questo arriva alla sua settima «prima», una in più di Maria Callas e di Mirella Freni, che detenevano il primato. Accanto a lei Brian Jadge, tenore americano chiamato a sostituire Jonas Kaufmann che ha rinunciato per ragioni familiari, allungando così, per chi fosse ancora un po’ scaramantico, la lista degli inconvenienti causati da quest’opera.