Quirino Ruggeri, la vita che vince sulla forma
Nel sarto trasformato in scultore da Roberto Longhi negli anni Venti, la ricerca di una nuova classicità trova forza e immediatezza. I suoi ritratti a colleghi e scrittori famosi, come a personaggi ormai dimenticati, esprimono una diversa modernità.
Tra gli artisti del Novecento che ho istintivamente amato, trasferendoli nella leggenda, c'è Quirino Ruggeri, un sarto trasformato in scultore da Roberto Longhi. Difficile capire come sia avvenuta la metamorfosi, ma sappiamo che essa intervenne verso il 1920. Ruggeri era emigrato in America per cercare fortuna nel suo mestiere. Tornando a Roma per continuare il suo lavoro di sarto, mostrò curiosità per la scultura, entrando nello studio di Arturo Dazzi, artista classicheggiante e celebrativo (fu l'autore del Bigio di Brescia, la grande statua del Duce rimossa da Piazza della Vittoria dopo il fascismo), quanto Ruggeri fu sempre domestico e antiretorico.
Uomo sommamente inquieto, Ruggeri praticò, negli anni Quaranta e Cinquanta, una pittura astratta, geometrizzante, da dimenticare. Ebbe una evoluzione simile a quella di Giuseppe Capogrossi ma, al tempo della sua folgorazione, tra il 1923 e il 1934, capace di trasformare volti e situazioni familiari e confidenziali in immagini classiche, fresche come quelle greche del periodo severo, con una sintesi astratta, nella geometria delle forme, che interpreta perfettamente la sensibilità della rivista Valori plastici.
La storia di Quirino Ruggeri è singolare ed esemplare, ma dovremo tornare di molti anni indietro perché se ne capisca il significato. «Quando noi eravamo ragazzi» scrive Giuliano Briganti, «Ruggeri era già uno scultore famoso, il suo nome legato a Roberto Longhi, a Vincenzo Cardarelli, ad Alfredo Casella e a sodalizi di lavoro con Arturo Dazzi e con Arturo Martini. La responsabilità maggiore gli venne affidata da Cipriano Efisio Oppo con una sala personale alla Quadriennale del 1935, e qui incidentalmente diremo che la Quadriennale di allora era ben altro che l'attuale squallida rassegna che ancora porta quel nome.
Le due prime Quadriennali romane rivelavano e consacravano in quegli anni quei valori della scultura italiana (dal grande Martini,a Marino Marini, a Pericle Fazzini) oltre i quali mai si sono avventurati i burocrati odierni. La sala di Ruggeri alla II Quadriennale era bella e gli valse il secondo premio assoluto per la scultura; così come nella favola il brutto anatroccolo diventa cigno, l'antico sarto si ritrovava celebrato scultore. Si, perché, prima di dedicarsi alla scultura con fanatismo da neofita, Ruggeri era stato un eccellente sarto e questa lunga esperienza artigianale affiorava nel procedere schivo e stupito nel suo modellato, e apertamente si rileva nella geometria metafisica delle sue opere migliori».
Ed ecco allora il Ritratto di Altea (1924), come una regina, nella quale è subito colta una dimensione ieratica, nello spirito della scultura quattrocentesca. Seguono La Vergine al convento (1926), La vetrina e L'incontro (1927), Ritratto di fanciulla (1928). Al mondo etrusco sembra risalire, pur nella declinazione mondana, il Ritratto di Clelia Briganti del 1927. In questi anni, tra 1927 e 1928, si misura, in un ideale cenacolo, che corrisponde al mondo degli «Amici al caffè Greco» di Amerigo Bartoli Nastinguerra, con musicisti, scrittori, poeti che lo hanno incoraggiato nella sua attività artistica.
Ecco i busti o le teste, forti e vivi, di Alfredo Casella, di Bruno Barilli, di Aldo Briganti, di Anna Banti, di Roberto Longhi. Ruggeri trasferisce i suoi contemporanei, i parenti e gli amici in un'aura di solennità che non concede nulla alla decorazione e alla grazia. Arrivando ai suoi due capolavori La filatrice e La tessitrice, accoglie il ritmo narrativo della scultura rinascimentale.
Partecipa nel 1928 alla Biennale di Venezia. Nel 1929 è presente alla II Mostra del Novecento italiano. Il suo istintivo classicismo è senza residui citazionistici, ma si manifesta in una reinvenzione che ha il ritmo e la misura del Rinascimento. In questo, il confronto più pertinente è quello con Alceo Dossena che, tra riproduzioni e reinvenzione, duplica lo stile di Donatello, di Rossellino, di Mino da Fiesole, come riferimenti riconoscibili. Al contrario, Ruggeri ne rivive lo spirito senza riferimenti diretti, senza assomigliare o ripetere nessuno. Ciò che esprime illustra veramente valori classici. La sintesi formale, le abbreviature negli abiti e nei capelli, che sono la cifra di Ruggeri, si ritrovano nei ritratti di Valentina e di Augusta De Angelis.
C'è, in Ruggeri, una semplificazione formale innata. Utile è il confronto tra il busto di Caterina Savelli di Dossena, nella sua rigida frigidezza, e il Busto di donna di Ruggeri, in terracotta policroma, con un ingenuo primitivismo che la rende improvvisamente viva e parlante. Il risultato è di una semplicità originale pur senza negare la forma quattrocentesca. Eppure, in diverso modo, sia Dossena sia Ruggeri rivelano un retrogusto déco. In Ruggeri la vita prevale sulla forma.
Questa umanità si ritrova nel Ritratto di Altea, passata dalla aulica giovinezza a una umanissima maturità. Anche nei formati più grandi, ad altorilievo, come il Ritratto di Cecilia Barbieri del 1940, Ruggeri rigenera la scultura classica in una sintesi che non risale a modelli o a fonti ma elabora nuove invenzioni formali. L'artista riesce a stare in equilibrio tra l'aulico e il vero, come si vede nel Ritratto di Luchino Visconti della metà degli anni Quaranta. Egli non cerca la verità, ma l'archetipo di un sentimento, una autentica misura umana. Lo vediamo nel Ritratto di bambina del 1945 e nel Ritratto di Mimise Guttuso del 1947, nei quali si avverte il sentimento del tempo.
La scoperta di una Madonna con il Bambino paragonabile a un reperto etrusco, che probabilmente apparteneva alla collezione di Briganti, ed è ora tra le opere della Fondazione Cavallini Sgarbi, mi è sembrata qualificante quasi come la scoperta del San Domenico di Niccolò dell'Arca. Tanto è il mistero, tanto è arcana e piena di forza questa Madonna con il Bambino. Inoltre, le ragioni della fascinazione arcaica e moderna di Quirino Ruggeri, che trasferisce la quotidianità nella storia, sono potenziate anche dall'incontro con alcune sue opere memorabili come La Visita, riemersa al Museo Revoltella di Trieste, che possiede una politezza, un'essenzialità e una verità insieme, che ricorda con molto anticipo la poesia di Antonio López García.
Pertanto ho sempre identificato in lui, raro e remoto, un artista dedito alla rappresentazione delle cose nella loro più semplice verità, e questo anche quando le ha complicate con riferimenti arditi. E poi, evidentemente, la sua origine di sarto, anche se umile ma attenta ai particolari, lo ha reso uno scultore molto sofisticato e di alta sartoria, grazie anche alla volontà di Roberto Longhi che lo dovette indirizzare verso quella ritrattistica severa e insieme esoterica, facendogli ritrarre se stesso, la moglie Anna Banti, il musicista Alfredo Casella e Giuliano Briganti: una serie di amici, un concerto familiare, una musica da camera, affidate a un uomo che aveva il senso dell'intimità domestica e dei materiali legati alla laboriosità femminile.
Quindi Longhi ha creato uno scultore di grande essenzialità e raffinatezza. Questo è quello che io sento quando lo vedo, riconoscendovi anche il residuo costituente e assimilato di una cultura proveniente da fonti classiche o antiche. Negli stessi anni, anche se per lui senza vie d'uscita, del Pablo Picasso classico e del Giorgio De Chirico del soggiorno parigino. Il tempo e lo spirito di Quirino Ruggeri.