Poche informazioni sugli effetti dei farmaci per il cambiamento di sesso, supporto psicologico superficiale, associazioni private coinvolte nel percorso dei minori. E, su tutto, l’assenza di un monitoraggio ministeriale. Per la disforia di genere, negli ospedali pubblici domina un approccio a senso unico. Senza dubbi, senza ripensamenti su una scelta definitiva.
Preferite un figlio trans o un figlio morto?». Sorprende e sconcerta che tutti i genitori di ragazzini con problemi di identità sessuale, ascoltati da Panorama, si siano sentiti ripetere la stessa frase dai sanitari che dovevano aiutarli. Tutti. Da Nord a Sud. Dall’ospedale San Camillo di Roma al Careggi di Firenze: il ritornello, ci assicurano, non cambia. Come se l’unica alternativa, quando un adolescente manifesta l’intenzione di cambiare genere, fosse questa: accontentarlo oppure indurlo al suicidio. Mamme e papà che condividono quest’esperienza si sono riuniti in un’associazione, GenerAzioneD. Ovviamente non vogliono «figli morti». Sarebbero stati ben disposti ad avere dei figli trans, se quella fosse stata davvero la loro volontà. Solo ritenevano che, per accertarla, non bastassero pochi mesi e una manciata di colloqui di un’ora scarsa con uno psicologo. A volte, lui stesso un transgender. Uno «psicolog*», come si legge sulle pagine Web dal linguaggio «inclusivo», dedicate alle strutture nelle quali si seguono i presunti casi di disforia.
Al termine di quei cicli di incontri, ci raccontano i genitori, i sanitari predispongono una relazione da presentare all’endocrinologo, per la prescrizione ai minori della triptorelina. Il farmaco che blocca la pubertà. E che non è esente da effetti collaterali. In quale considerazione li tengono, questi esperti dei centri per la medicina di genere? Ce lo rivela una madre: «A mio figlio hanno detto che poteva venirgli l’osteoporosi, ma che per curarla basta prendere qualche pillola». «Qualche pillola» equivale a una terapia eterna: questa malattia delle ossa, provocata dalle alterazioni ormonali, espone a un maggior rischio di fratture, diminuisce la qualità e la speranza di vita e non può essere guarita. A darci un parere qualificato sui bloccanti della pubertà è la dottoressa Maura Massimino, pediatra oncologa all’Istituto nazionale dei tumori di Milano (Irccs). «Noi li prescriviamo a bambini nei quali la fase puberale è stata anticipata dall’insorgenza del cancro, o dalle terapie anticancro» precisa. «Ma la somministrazione non avviene “a costo zero”». Ci sono potenziali conseguenze, anche gravi «e molti miei colleghi si occupano quasi a tempo pieno di analizzare gli effetti collaterali». L’osteoporosi è uno. Poi c’è «l’interruzione della crescita lineare», che condiziona altresì lo sviluppo cognitivo. Perché «noi siamo mente e corpo: fa differenza se ai miei compagni di classe, a un certo momento, spuntano i baffi o il seno, mentre io rimango nel fisico di un bambino».
Esiste, inoltre, il rischio di rimanere infertili: niente ciclo nelle ragazze, motilità degli spermatozoi insufficiente nei maschi. Quanto alla cancerogenicità dei trattamenti, la Massimino ammette che non ci sono ancora statistiche conclusive, ma è un’eventualità che «non si può escludere». Intendiamoci: la pubertà non funziona come l’interruttore della luce. Non è una lampadina che si accende e si spegne. A marzo 2023, persino l’avanzatissima Norvegia ha riconosciuto che «l’uso di bloccanti della pubertà e la terapia ormonale sono trattamenti parzialmente o completamente irreversibili». Chiaro? Imboccata quella strada, non c’è ritorno. Oslo, pertanto, ha ingranato la retromarcia e lo stesso hanno fatto altri Stati che furono pionieri nello sdoganamento dei «baby trans». Nel 2020 ha preso questa strada la Finlandia, dove sono stati vietati gli interventi chirurgici sui minori, mentre l’utilizzo di ormoni è stato limitato a casi eccezionali.
L’opzione di prassi è diventata la psicoterapia, poiché «la riassegnazione di genere nei minorenni» va reputata «una pratica sperimentale». Due anni dopo, si è svegliata la Francia: l’Académie nationale de médicine ha insistito sulla necessità di un «sostegno psicologico il più possibile prolungato». La terapia farmacologica è l’ultima spiaggia, qualora persista il «desiderio di transizione». All’incirca nello stesso periodo, si è mossa la Svezia, restringendo le maglie: agli adolescenti si dovranno offrire «cure diverse dai trattamenti ormonali» ovunque possibile, giacché i rischi della somministrazione di triptorelina «superano i possibili benefici». Esattamente un anno fa, Stoccolma ha varato un ulteriore giro di vite, ribadendo che le prove per valutare gli effetti della soppressione della pubertà sono «insufficienti». La Gran Bretagna ha deciso la chiusura della Tavistock, la clinica nella quale, nell’arco di un decennio, sono stati sottoposti ai trattamenti farmacologici 12 bambini di tre anni, 61 di quattro anni, 140 di cinque e 169 di sei. A fine 2023, il governo di Rishi Sunak ha rinnovato le linee guida nazionali. Sottolineando che nessuna decisione va presa «senza il coinvolgimento dei genitori» e invitando alla cautela anche sulla cosiddetta «transizione sociale».
Un delicato passaggio preliminare al definitivo cambio di sesso: i ragazzini acquisiscono un pronome diverso, scelgono un «alias», modificano il guardaroba… Da scelte simili è complicato tornare indietro. L’ultimo dossier è quello dei Servizi scientifici del Bundestag tedesco: «I farmaci bloccanti della pubertà», hanno avvertito, «potrebbero danneggiare in modo duraturo lo sviluppo cognitivo dei minori, compresi gli aspetti mentali, emotivi e comportamentali della loro formazione sessuale». Possibile che l’Italia non ne prenda atto? In teoria, la maggior parte dei centri per la disforia segue le istruzioni dell’Onig, l’Osservatorio nazionale identità di genere, che propone percorsi di psicoterapia. In pratica, stando alle testimonianze dei genitori di GenerAzioneD, l’indagine psicologica è piuttosto sbrigativa. L’iter prevede una valutazione di almeno sei mesi; esso, però, si riduce a un solo incontro al mese. Risultato: con circa sei ore complessive di confronto, il personale ritiene di avere a disposizione abbastanza elementi per stabilire se il «candidato» può rivolgersi all’endocrinologo. Discutere con i sanitari sembra sia inutile: «Quando abbiamo provato a sollevare delle obiezioni» racconta una coppia del Centro-Nord «ci hanno trattato da omofobi».
Di fatto, l’approccio che si segue nel nostro Paese è quello «affermativo», ricalcato sul modello olandese e caldeggiato dalla World professional association for transgender health (Wpath). In cosa consista lo illustra l’Arcigay, che poco più di un mese fa chiedeva l’adozione universale dei protocolli Wpath, oggi ammessi ufficialmente solo a Genova e Messina. L’obiettivo è costringere i professionisti – citiamo la petizione dell’organizzazione Lgbt – ad accogliere «il genere affermato dalla persona senza metterlo in discussione». Come pretende l’Organizzazione mondiale della sanità, che a metà dicembre ha annunciato la costituzione di un team per stendere nuove linee-guida. Ne faranno parte vari attaché della Wpath, oltre a esperti che hanno già cambiato sesso. Su 21 membri del comitato, più di tre quarti saranno attivisti della causa trans. In parole povere, il direttore dell’agenzia Onu, Tedros Adhanom Ghebresius, va a chiedere all’oste se il vino è buono.
La verità è che, da noi, la filosofia «affermativa» si è già materializzata. Non è un caso che, nel 2020, quando al ministero della Salute c’era Roberto Speranza, l’Istituto superiore di sanità, vigilato dal dicastero, abbia dato ampio risalto agli ultimi aggiornamenti Wpath. Poche settimane fa, il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri (nella prossima pagina una sua intervista) ha lanciato un’interrogazione parlamentare su Careggi: lì, la triptorelina «verrebbe somministrata a bambini di 11 anni senza alcuna assistenza psicoterapeutica e psichiatrica». Le autorità sono allarmate? Stanno sorvegliando? Ecco la procedura: se un adolescente o un preadolescente sostengono di trovarsi nel «corpo sbagliato», si dà loro retta a prescindere. «Mia figlia» sospira con Panorama una signora «veniva picchiata dal padre, il mio ex marito. Alla psicologa del centro per la disforia non è interessato minimamente approfondire. Secondo lei, la cosa non c’entrava con i disturbi dell’identità sessuale di una sedicenne».
Alla fine, ogni perplessità, ogni obiezione alle autodichiarazioni degli adolescenti si infrange sul solito monito: «Volete un figlio trans o un figlio morto?». Ancor più preoccupante è l’opacità in cui sono avvolti gli interventi sui giovanissimi. Non si sa quanti di loro varchino le soglie dei centri sparsi nella Penisola. Non si sa quanti assumano i medicinali – off label, cioè a scopi diversi da quelli per cui s’impiegano di norma. «A differenza di altre indicazioni per altri ormoni, per questi non esiste, attualmente, un registro» segnala a Panorama la dottoressa Massimino. Qualche famiglia ci mette il carico da novanta: «Mio figlio non ha iniziato la terapia. Ma gli psicologi che gliel’hanno suggerita non ci hanno mai richiamati. Non ci hanno mai domandato come fosse andata, come stesse il ragazzo…». Manca quello che la comunità scientifica chiama «follow up»: un processo che monitori gli esiti del trattamento e gli eventuali effetti collaterali. Per quelli basta «qualche pillola», no?
Poche cifre le ha comunicate solo il San Camillo di Roma: nel 2022, ha registrato 114 accessi, contro i 20 del 2018. Di quello che è accaduto nel 2023 non si sa nulla. Invece, bisognerebbe avere informazioni: come mai il boom di richieste? C’è di mezzo la propaganda arcobaleno? C’entra il malessere da Covid e lockdown? Mamme e papà pensano di sì: «Mio figlio, nel 2020, passava tutto il giorno in casa con lo smartphone» ci informa un babbo del Nord Italia. «All’improvviso, ci ha chiamato in camera sua e ci ha detto che si sentiva una ragazza. Sapeva tutto sull’argomento. Dove si era informato? Sui social, sui TikTok…». Siamo dinanzi all’ennesimo sottoprodotto delle restrizioni? Paghiamo il fio per aver privato della vita sociale gli adolescenti? Per quale motivo non importa a nessuno fare chiarezza?
I giovani di cui abbiamo ascoltato le storie sono stati fortunati. Avevano genitori preparati, persone che non si sono fidati di analisti superficiali. Così hanno portato i figli da altri terapeuti, disposti a un accompagnamento graduale. Qualche ragazzo ha cambiato idea sulla transizione. Qualcuno non ha ancora deciso. Nessuno ha assunto ormoni. E chi, comprensibilmente, si affida alle istruzioni dei centri per la disforia? A cosa va incontro? Cosa gli succede, se un giorno si rende conto di aver sbagliato? È ora che il ministero intervenga. Che aggiorni i protocolli, seguendo l’esempio dei Paesi che hanno tirato il freno a mano. Sì: un figlio trans è meglio di un figlio morto. Ma la cosa migliore è un figlio felice.