Singapore: alla scoperta della città giardino
Stupisce con le immensità visive, con l’assertività dei suoi record: la cascata al chiuso più alta del mondo, un fiume d’acqua in piena che scorre in giù da un soffitto trasparente; gli alberi artificiali mastodontici, ciascuno con centinaia di piante vere addosso, che al tramonto brillano di luci e si accendono di musica; la montagna custodita nell’abbraccio di una serra, i giardini di orchidee, quelli abitati da colonie di farfalle. Ma è più nell’ordinario che s’incontra lo straordinario di Singapore: alberghi come il Parkroyal Collection Pickering, con dentro orti e fronde sparsi su più piani; palazzi e grattacieli con il verde ovunque, a colorare di natura il grigio del cemento. Il nostro bosco verticale è già la loro regola. Il Paese che chiude l’Asia continentale - c’è persino un punto panoramico collegato da un ponte di corde che provvede a sancire tale estremismo sudista - è un concerto di isole, una città-Stato con dentro una chiara idea di futuro: la sostenibilità non come utopia, ma come obiettivo realizzato.
Entro il 2026 sono in arrivo 130 ettari di nuovi parchi, mentre 170 di quelli esistenti saranno arricchiti da un surplus esondante di vegetazione; entro il 2030 saranno piantati un milione di alberi, non in zone sperdute: ogni abitante dovrà camminare al massimo per 10 minuti prima di potersi godere il suo angolo di green. Il governo locale fa sul serio: ogni nuova costruzione deve seminare nei paraggi le piante che sradica (da qui l’espediente, vincente, di spargerli in altezza); deturpare l’ambiente è un’offesa all’orgoglio nazionale: buttare cartacce per terra, così come pescare o fumare nei parchi espone a multe salate, fino all’equivalente di circa 2 mila euro per infrazione.
Il deterrente funziona, o forse è solo questione di buona educazione, comunque le strade sono pulitissime. Al confronto, le vie nostrane ricordano un immondezzaio. Singapore ha la versatilità, e la furbizia, di accontentare ogni tipo di viaggiatore: chi cerca un tuffo si spinge fino all’isola di Sentosa, tra parchi acquatici, spiagge libere, un bagno di sole pressoché perenne, tutti i mesi dell’anno. Il mare non sarà irresistibile, diciamo pure che è dimenticabile, ma le palme e la sabbia bianca danno assaggi di Malesia o d’Indonesia. Chi preferisce le alture raggiunge Mount Faber, con i sentieri curati, le indicazioni a prova d’idiota, le scimmie scippatrici di cibi e bevande per quel tocco supplementare d’imprevisto. Da lì, si va su fino a Henderson Waves, ponte pedonale sospeso in aria che curva tra i boschi, per qualche vertigine e una dose minimale d’adrenalina.
Non servono sfacchinate, trasbordi senza fine: oceano e montagna, Sentosa e Mount Faber, sono collegati in pochi minuti dal servizio di Cable Car, che fa la spola dall’alto verso il basso, offrendo panorami notevoli, anche del traffico sovrabbondante delle navi subito al largo. Alla comodità ci si abitua in fretta: tra autobus, metropolitane, taxi e applicazioni per chiamare un autista, qualunque destinazione si raggiunge con facilità, conoscendo in tempo reale percorrenze e attese. In questo, Singapore è quasi meglio della Svizzera. Sollievo per i polmoni a parte, la sua attrattiva è la mescolanza di culture, Paesi, tradizioni. È come essere in tanti luoghi contemporaneamente, di fronte a un’identità plurima e sfaccettata. C’è Chinatown con i suoi templi, i negozietti d’artigianato e altre superflue, seducenti esosità; Little India, con le casette basse arcobaleno, l’andirivieni affollato ma allegro. Mai quanto quello di Kampong Glam, il quartiere arabo, che nei fine settimana è così pieno da diventare un tappo, da rendere un’impresa percorrere poche decine di metri. Lo sforzo vale, le stradine che conducono alla Moschea del sultano sono tra le più caratteristiche e splendide di Singapore.
Un’idea sensata è esplorare le tre zone in bicicletta, magari in abbinamento al giro gastronomico organizzato da Letsgotoursingapore.com, con una guida che rivela aneddoti e curiosità, mentre le pedalate fanno bruciare subito le calorie assunte. Un’ottima alternativa è il «Kopi & cha» tour (8th-wave.com): un viaggio nel tempo, che dimostra quanto i riti del caffè e del the siano collegati alla storia della città-Stato. Inoltre, le due bevande sono superlative in abbinamento alla kaya, marmellata locale a base di latte di cocco, da spalmare su pane e burro. Singapore è celebre per i suoi ristoranti di lusso, con i piatti stellati dai listini stellari. Ma la guida Michelin ha premiato con la stessa, ben motivata generosità, anche la cucina di strada, quella degli Hawker centre, sfilate di piccoli chioschi, ognuno con il suo cavallo di battaglia e i prezzi oltremodo contenuti.
Troverete brodaglie torbide che nascondono sapori paradisiaci; scoprirete nuove dipendenze come il succo di canna da zucchero, macinato di fronte a voi. Un suggerimento: prendete la versione premium, con una scorza di limone spremuto dentro. Costa circa mezzo euro in più ed è un’altra cosa: è dolcezza celestiale. Niente paura: l’igiene nelle cucine è un’ossessione, chi fa star male un avventore rischia l’arresto, o almeno così raccontano per convincere i reticenti ad assaggiare. Negli Hawker centre si radunano gli anziani lenti, sempre sorridenti; gli expat in giacca e cravatta delle solite banche; i turisti impacciati che non sanno cosa prendere e i commessi di corsa in pausa pranzo. Singapore è tutta qui, in questa chiassosa tavolata di sconosciuti da ogni dove, in quest’imperfetta nostalgia di casa, in quest’improvviso senso di famiglia.