Un borgo a cavallo tra Piemonte e Liguria che, come uno scrigno, custodisce una ricca Pinacoteca con oltre 200 opere, di autori poco conosciuti ma importanti. E poi palazzi che risalgono all’antica Repubblica genovese e un paesaggio intatto. Una meta perfetta tra cultura e natura.
Un paese di assoluta poesia, Voltaggio. Ci ritorno dopo molti anni, alla vigilia della riapertura dei musei in tutta Italia, per rivedere la celebre Pinacoteca dei Cappuccini. Chiamo il sindaco, Giuseppe Benasso, sorpreso e confuso, e gli chiedo di annunciarmi ai religiosi custodi. Si riprende, e dopo un quarto d’ora mi chiama per accogliermi. La Pinacoteca dei Cappuccini ha una sua leggenda per gli storici dell’arte: ne ricordavo perfettamente gli spazi interni ma, arrivando prima del tramonto, vedo anche, con commozione, la chiesa dalla facciata semplice, un po’ in salita, al culmine di una strada di sassi di fiume, con una natura amena che la circonda.
Insieme al sindaco mi attende un giovane volenteroso, Luciano Bisio, che sa che io venni l’ultima volta, forse la seconda, nel 1994, e mi rivela che i Padri cappuccini non ci sono più: se ne erano già andati nel 1987, e quello che mi accolse allora era un frate di complemento che ritornava nel convento abbandonato soltanto per accompagnare i visitatori alla curiosa Pinacoteca.
Il luogo è perfetto, ordinato, ben tenuto; oggi lo accudiscono due donne gentili e operose, Jessica Paparella e Gabriella Bisio, guidate a distanza da Fra’ Vittorio Casalino. In realtà custodiscono e venerano la memoria di padre Pietro Repetto che, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del nuovo secolo, raccolse circa 250 dipinti costituendo una collezione, a sua immagine e somiglianza, di soggetti religiosi, quasi per onorare e accompagnare il ricordo di un altro frate, Francesco Maria Camporosso, da tutti conosciuto come Padre Santo, che era stato la sua guida spirituale.
Cappuccini con fede, riti e culti semplici, che nei dipinti si ripercuotono come un esercizio spirituale di contemplazione e meditazione lungo gli ambienti che confinano con il vasto parco, e poi nel refettorio e nella chiesa. Una storia dell’arte devozionale genovese, prevalentemente del Seicento, con tutti i maestri che si possono desiderare, da Domenico Fiasella a Bernardo Strozzi, da Gioacchino Assereto a Orazio De Ferrari, da Sinibaldo Scorza al Grechetto.
Quadri ben scelti, di media qualità, senza picchi ma sempre intensi, e strumenti di convinta devozione. E anche alcuni puri capolavori, come il Cristo portacroce e il San Francesco in estasi del libertino prete genovese, Bernardo Strozzi, entrambi di esecuzione misurata ma vitale, lontana dai virtuosismi che spesso il pittore esibisce, realizzando la materia più calda e gustosa che si ricordi.
Bello e animato è anche Gioacchino Assereto di cui va ricordato almeno il Ritrovamento della tazza nel sacco di Beniamino, un’opera matura e potente. I genovesi li ricordavo, ma mi incuriosiscono opere di autori di altre scuole, come il luminoso San Gerolamo in meditazione del caravaggesco Candlelight Master; il meraviglioso e sontuoso Sant’Antonio abate nel deserto di Paolo Pagani; la vivace e calda Natività della Vergine di un pittore quasi comico (ma non meno capace) come il veneziano Pietro della Vecchia, con il pennello ancora caldo del colore di Giorgione e Tiziano; e un Ecce homo d’immediatezza quasi goyesca, malamente attribuito a «scuola toscana», e invece opera certa e tormentata del bolognese Giuseppe Maria Crespi, lo Spagnoletto.
Felice di questa scoperta, davanti alla chiesa, una ragazza mi accoglie per donarmi gli amaretti «Carrosi», deliziosa produzione locale; mentre Luigi Repetto mi annuncia che in paese ci aspettano gli eredi di Sinibaldo Scorza, pittore miniaturista, incisore, nativo di Voltaggio. Grande animalista, tra i pochi capaci di fare veri e propri ritratti di cavalli, di volpi, di aquile reali, di chiurli, di galli, di gatti e di cani, di pavoni, di poiane, di pavoncelle, insieme a vaste pitture di paesaggi con animali.
Il borgo è miracolosamente intatto, le case semplici e gli edifici monumentali, l’Oratorio del Gonfalone, Palazzo Grimaldi, Palazzo Spinola e Palazzo De Ferrari, poi Galliera, e l’imponente, scenografica facciata della chiesa parrocchiale: tutto intatto. Spazi solenni e sobri, strade silenziose e ordinate; e, veramente memorabile, casa Scorza, dove veniamo ricevuti con partecipe e strabocchevole gentilezza dai giovani proprietari, eredi del pittore, fino a condividere la lettura di un epistolario amoroso di loro lontani congiunti.
Le stanze respirano con il giardino a terrazze «in costa», che ci porta a una grotta e a un casinetto, considerato lo studio del pittore. L’armonia è perfetta come la misura delle scale, con balaustrine e colonne. Sul fianco della cascina è ancora visibile l’affresco con lo stemma degli Scorza che raffigura il grifo e il «gatto passante» sul cimiero. Il motto della dinastia si legge, insieme al richiamo allo scultore di casa, Giuseppe Gaggini, negli affreschi con stemmi e insegne sulle scale: nec spe nec metu, «né con speranza, né con timore».
Deliziosi gli affreschi con trompe-l’oeil architettonici e grottesche, tra i primi Ottocento ed epoca Liberty (di cui eccezionale testimonianza è nelle piastrelle floreali del bagno). Sorprendente è poi il salotto, con storie affrescate di bambini olandesi, tratte da cartoline e fumetti, di gustosa felicità infantile.
Sinibaldo Scorza è il pretesto per un’immersione crepuscolare in un mondo gozzaniano. Colpisce, nello studio del pittore, una grande vasca in impasto di granito. A definire l’ambiente di una sauna. Scopriremo perché, passando ai sobri, lindi uffici del palazzo comunale, con altri quadri genovesi (una Marina capricciosa di Antonio Travi detto il Sestri, e un sofisticato Martirio di Santa Apollonia di Orazio De Ferrari) e un grande telero (caro al sindaco, che soffre il progrediente calo della vista), di soggetto dantesco, dipinto in stile purista dal marchese Del Maino Sforza nel 1842.
Quella stravagante vasca testimonia il periodo felice in cui il tranquillo borgo di Voltaggio era meta di turismo termale, un centro di idroterapia e di villeggiatura alla moda, di cui resta, maestoso testimone, il complesso dell’Hotel delle Terme, sapientemente restaurato nel rispetto dei suoi volumi celebrativi, con le sale da ballo della Belle époque. Un sentiero porta alle sorgenti dell’acqua sotto la casa gotica della famiglia De Ferrari. Oggi il flusso della corrente del torrente Lemme e dei suoi immissari, il rio Morsone, il rio della Barca, il rio Carbonasca, annuncia una piscina naturale per deliziosi bagni estivi.
Ero arrivato pensando ad alcuni quadri genovesi, riparto con la nostalgia e il desiderio di un luogo incantato al quale, se non io, tornerà la mia memoria grata. Ho lasciato scritto nel libro dei visitatori: «Un ritorno che è un transito verso orizzonti di pensiero vivo».