Il redde rationem per il controllo del maggior gruppo assicurativo italiano sta arrivando, con gli azionisti Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone che vogliono rimuovere Philippe Donnet, il ceo francese. Ma sullo sfondo c’è un ulteriore obiettivo: arginare, una volta per tutte, lo strapotere di Mediobanca.
«Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori», per dirla con Benito Mussolini, tornato inopinatamente di moda grazie al pasticcio green pass. Ma su 60 milioni di italiani, nessuno che possa fare l’amministratore delegato delle Assicurazioni Generali, colonna portante e fiore all’occhiello nel mondo della finanza tricolore?
Affidato da sei anni a Philippe Donnet, il Leone è al centro da mesi di una guerra durissima tra i grandi soci italiani, guidati da Leonardo Del Vecchio (86 anni) e Francesco Gaetano Caltagirone (78), che la prossima primavera vogliono sostituire il manager francese, e il primo azionista della compagnia, ovvero Mediobanca, guidata da Alberto Nagel (56), che dopo mesi di trincea ha affittato un pacchetto di azioni Generali in vista dell’assemblea decisiva e sta praticamente usando Donnet (61) come scudo umano.
Guerra di denari – tanti – certamente, perché le Generali sono un colosso da oltre 70 miliardi di raccolta premi, 72.000 dipendenti e 66 milioni di clienti in mezzo mondo. Ma ora lo scontro si è trasferito in Mediobanca, che tra le sue partecipazioni custodisce, per esempio, il 9,9% di Rcs Mediagroup. La posta in gioco sale sempre di più e da Trieste arriva a Milano. Con esiti a questo punto imprevedibili.
Generali non è di chi la comanda. Il 39,78% delle azioni è nei portafogli dei grandi investitori istituzionali, il 23,67% è di piccoli azionisti e solo il 28,78% fa riferimento ai cosiddetti big. Tra questi, i primi quattro sono Mediobanca con il 12,82%, il gruppo Caltagirone con il 6,56%, il gruppo Del Vecchio con il 5,44% e la famiglia Benetton con il 3,97%. Il costruttore ed editore romano (tra gli altri, possiede Il Messaggero e Il Mattino) aveva l’1% delle Generali già nel 2008 ed è diventato il secondo azionista singolo già nel 2016, proprio scavalcando Del Vecchio. Insomma, i due non sono esattamente due raider.
Nell’ultimo anno, hanno continuato a comprare azioni fino a investire qualcosa come 5 miliardi e a metà settembre sono usciti allo scoperto comunicando al mercato l’esistenza di un patto di consultazione tra loro, al quale si è presto aggiunta anche la Fondazione Cassa Torino (1,2%), che oggi è al 13%. E se i Benetton al momento si sono chiamati fuori dalla contesa, va sottolineato che il patto vincola anche le azioni che dovessero essere comprate da qui alla prossima assemblea di bilancio delle Generali, nel corso della quale vanno anche rinnovati i vertici.
La risposta di Nagel è stata sorprendente, almeno per una società non abituata alla finanza acrobatica. Il 23 settembre Mediobanca ha annunciato di aver preso in prestito per circa 8 mesi (quelli che servono per arrivare alla battaglia finale) 70 milioni di azioni Generali, pari al 4,42% del capitale, in modo da arrivare in assemblea con il 17,22% dei diritti di voto. Insomma, mentre gli altri comprano, Mediobanca affitta e lo fa con capitali francesi, appoggiandosi a Bnp Paribas.
Il fatto che con il 13% delle azioni si possa controllare Generali è un’arma a doppio taglio. Perché se Generali capitalizza in Borsa 30 miliardi di euro, Mediobanca si ferma a 8,9 miliardi, ovvero ben meno di un terzo. E così, un ipotetico scalatore delle Generali farebbe prima a passare dalla finestra di Piazzetta Cuccia che dal portone di Trieste. Non a caso, nell’ultimo anno e mezzo Del Vecchio è diventato anche il primo azionista di Mediobanca con il 19% (la Bce l’ha autorizzato fino al 20%) e Caltagirone, partito assai dopo, è già al 3. Mentre lo schieramento che sostiene Nagel può contare su un patto di consultazione al 10% con dentro un socio stabile come la Mediolanum di Ennio Doris (3,3%).
Al primo punto delle accuse mosse dai Pattisti c’è quella, per Mediobanca, di usare Generali a proprio piacimento, com’è avvenuto nel famoso fondo Atlante (creato dallo Stato per salvare le banche venete), dove l’istituto guidato da Nagel se l’è cavata con degli spiccioli, mentre Generali ha fatto il grosso. C’è poi una vicenda che ha lasciato parecchi strascichi tra i grandi soci di Trieste ed è il tentativo di Mediobanca di comprarsi Banca Generali (un gioiello da 4,3 miliardi di capitalizzazione che vanta una redditività del 10%) per una cifra che Del Vecchio e Caltagirone ritenevano irrisoria. E un anno fa bloccarono l’operazione.
I Pattisti sospettano poi che se quattro anni fa Generali non fece neppure un’offerta per rilevare i fondi di Pioneer è stato solo perché Piazzetta Cuccia era l’advisor dei francesi di Amundi, che poi risultarono vincitori. E ancora lo scorso agosto, quando Deutsche Bank mise in vendita la sua rete italiana di promotori (ex Finanza & Futuro), Generali non si fece avanti, ma ci provò Mediobanca. Senza successo, perché l’acquisizione nella Penisola la portò a casa Zurich per circa 350 milioni di euro.
Più in generale, Del Vecchio e Caltagirone lamentano il freno che Mediobanca avrebbe messo alle Generali sul fronte delle grandi acquisizioni, per paura di dover sottoscrivere aumenti di capitale e mettere a rischio il ricco flusso di dividendi, che in media pesa per circa un terzo degli utili di Piazzetta Cuccia.
Così, i Pattisti contestano a Donnet di aver perso ulteriormente terreno rispetto ai grandi del settore come Axa e Allianz, facendo solo acquisizioni di scarso impatto come quella in Malesia, dove a giugno sono stati rilevati asset di Axa per 262 milioni. Oppure perdendo occasioni importanti come quella della vendita delle attività di Aviva in Polonia, che a marzo sono finite ad Allianz per 2,5 miliardi, nonostante un’offerta anche da Trieste.
Infine, c’è il capitolo del presunto strapotere di Mediobanca. È mai possibile, si sono chiesti i grandi soci italiani del Leone, che gli ultimi due presidenti di Generali, Cesare Geronzi e Gabriele Galateri di Genola, siano arrivati da Piazzetta Cuccia quando rischiavano di intaccare il potere di Nagel?
E che amministratori delegati come Fabio Cerchiai (1997-2001), Giovanni Perissinotto (2001-2012) e Mario Greco (2012-2016) siano stati prima usati e poi scaricati secondo logiche tutte interne a Mediobanca? Salvo poi osservare, come fece Perissinotto, che «una società con il 13% esercita il controllo ben al di là della sua quota, e su questo le autorità hanno sempre avuto un approccio molto distante, rilassato» (La Stampa, 28 gennaio 2016).
I Pattisti avevano dunque chiesto a Nagel di sedersi intorno a un tavolo e individuare insieme un nuovo capo azienda per le Generali con due caratteristiche fondamentali: essere bravo nelle operazioni di fusione e acquisizione ed essere italiano. La risposta è arrivata nella riunione del consiglio di amministrazione Generali del 27 settembre, quando è stata votata a maggioranza (9 a favore e 4 contrari) l’avvio delle procedure che per la prima volta porteranno anche nella compagnia di Trieste il modello di governance di Mediobanca, ovvero la presentazione all’assemblea di aprile di una lista per il rinnovo dei vertici preparata direttamente dal cda uscente, anziché dagli azionisti. Con Donnet che ha già fatto sapere di essere disposto a un altro triennio.
In questi cinque anni alla guida del Leone, del resto, il manager che ha lavorato 22 anni in Axa ha portato a casa risultati considerevoli. Da novembre 2016 a ottobre 2021, il valore delle azioni è salito del 66%, contro il 31% di Allianz, il 42% di Zurich e il 9% di Axa. Se poi si guarda il guadagno totale per gli azionisti, aggiungendo anche i dividendi, nell’era Donnet il Leone balza al 115%, contro il 65% di Allianz, il 90% di Zurich e il 41% di Axa.
Al netto dell’interesse sulle azioni Generali creato dai corposi acquisti dei Pattisti, si tratta di numeri più che positivi. E oltre a generare circa 10 miliardi di dividendi, sono stati spesi 3,3 miliardi in acquisizioni (sui 4 previsti). Quanto all’accusa di aver mancato acquisizioni «di livello europeo», la difesa di Donnet è questa: sono stati scrupolosamente realizzati con successo i due piani industriali triennali votati all’unanimità dagli azionisti, Pattisti compresi. Come dire che se gli azionisti hanno ordinato una Panda, non possono lamentarsi che non sia arrivata una Maserati.
Profitti alla mano, Generali non sarebbe un problema per nessuno, ma è legittima la critica dei Pattisti, convinti che il Leone potrebbe fare molto meglio se «liberato» dalla cattività mediobanchesca e affidato a un manager che non venga dalla patria di Axa. Alla quale, dal 1° agosto, è tornato l’ex direttore generale del Leone, Frédéric de Courtois, uscito a gennaio con due anni di stipendio e un patto di non concorrenza di appena sei mesi. Il tema di un presunto derby Italia-Francia, o della famosa «italianità» del Leone, emerge ogni tanto e sempre in modo bizzarro.
Per schivarlo, Del Vecchio ha riportato in Italia la sua holding Delfin, Donnet ha appena ottenuto la cittadinanza italiana, mentre Nagel, per non saper né leggere né scrivere, mantiene la famiglia a Londra in caso di Nagelexit. In ogni caso, a passaporti invertiti, se una holding italiana avesse fatto il giochetto delle azioni in affitto per mantenere il controllo di un colosso francese, è assai probabile che il presidente Emmanuel Macron avrebbe alzato il telefono con Mario Draghi.
Al di là delle porte girevoli tra Generali e Axa, prendere a prestito le azioni, anziché comprarle, non è esattamente da campioni dell’alta finanza e si tratta di un escamotage vietato in gran parte del mondo anglosassone, finora ignorato dalla Bce solo in quanto mai utilizzato a certi livelli. Adesso, però, con una Mediobanca che da oltre cinque anni diceva al mercato di voler scendere dal 13 al 10% in Generali, e che ora sale al 17% con una maggioranza a noleggio, c’è il rischio che Bce e Consob vogliano vederci chiaro. Anche perché il segnale che dà l’Italia nei confronti degli investitori internazionali non è proprio dei più incoraggianti.
L’«empty voting» su Generali lo stanno studiando con cura gli avvocati dei Pattisti per impugnarlo e visto che Del Vecchio ha il 20% di Mediobanca, uno scenario un po’ estremo, ma che circola a Milano, è quello di un’assemblea straordinaria di Mediobanca a gennaio che ribalti i rapporti di forza in Piazzetta Cuccia e ne mandi a casa il cda. A quel punto, con meno capitali e in minor tempo, la «liberazione» di Trieste sarebbe più agevole.