Occidente unito contro la barbarie
La più grande strage dalla fine della guerra questa volta non può restare senza risposta.
di Carlo Rossella
È la terza guerra mondiale? Questa domanda se la sono posta in molti guardando alla tv le scene del terrore a Manhattan e a Washington. Martedì 11 settembre 2001, primo dell’era di George W. Bush, due aerei di linea sequestrati dai kamikaze islamici a Boston si sono scagliati contro le torri gemelle del World Trade Center di New York e le hanno distrutte. Nella stessa mattinata un altro aereo catturato dai criminali si è sfracellato sopra il Pentagono a Washington. Migliaia di morti a New York. Centinaia nella capitale. Panico in tutti gli Stati Uniti e nel mondo. Paura di un nemico potente, organizzato, fanatico, invisibile: il terrorismo islamico, avversario implacabile degli Stati Uniti e della modernità, di Israele e della libertà, del progresso economico e della pace.
Il colpo è forte per l’America, i suoi alleati, i suoi amici. L’attentato multiplo, sferrato contro New York e Washington, contro i simboli del potere economico e militare della superpotenza solitaria e contestata, è il più devastante dopo quello dei giapponesi a Pearl Harbor. Allora ci furono 2.403 morti. L’11 settembre le vittime sono state molte, molte di più. I testimoni della proditoria trappola giapponese furono solo i militari e i residenti delle Hawaii. A New York i terroristi, con una diabolica tecnica mediatica, hanno colpito in diretta tv. I loro mandanti si sono goduti la scena davanti al teleschermo. E hanno sicuramente festeggiato la strage più grande dal 1945. Hanno vinto una battaglia ma non trionferanno nella guerra, la terza guerra mondiale che hanno unilateralmente dichiarato contro l’umanità. L’America, come ha fatto nel 1941, si risolleverà dal dolore e si impegnerà in una lotta senza quartiere contro gli strateghi della morte di massa. Il terrorismo non prevarrà contro la democrazia, la libertà, i valori dell’Occidente. Ma per vincere bisognerà riflettere bene sulle cause che hanno porta- to a questa immane tragedia. Quello che è successo può cambiare i destini del mondo in cui viviamo. La lotta al terrorismo, d’ora in poi, dominerà l’agenda internazionale, fino alla sua sconfitta, anche militare. Per garantire la nostra sicurezza dovremo essere un poco meno liberi, questo è uno dei tanti prezzi che dovremo pagare per difenderci. Le menti diaboliche che hanno ideato, organizzato e portato a termine questi crimini mostruosi, che hanno sprofondato l’umanità in un inimmaginabile clima di guerra, vanno scoperte. Ma bisogna guardarsi indietro.
Il mondo occidentale per anni ha considerato il terrorismo islamico come un problema transitorio, legato al conflitto arabo-israeliano. Per troppo tempo si sono lasciati gli Stati Uniti soli con Israele (lo si è visto anche alla recente conferenza di Durban, dove si è condannato il sionismo e si è taciuto sui kamikaze di Allah) a combattere contro l’odio antioccidentale degli estremisti islamici. Quando sono bruciate le bandiere americane e israeliane nelle piazze di Teheran, Baghdad, Cairo, Amman, Damasco, Tripoli e nei campi palestinesi, certi intellettuali e certi antiglobalizzatori hanno provato una gran soddisfazione.
I terroristi per anni sono riusciti a nuotare agevolmente nelle acque amiche dell’antiamericanismo e dell’antisionismo. Molti stati arabi hanno lasciato che nelle loro masse crescessero sentimenti ostili all’Occidente. Per non parlare dei religiosi islamici e degli esagitati predicatori di molte «moschee», anche italiane. Venerdì scorso, a Gerusalemme, nella moschea di al Aqsa il mullah ha gridato: «Morte ai sionisti, morte agli imperialisti». Morte: ecco la parola che più piace pronunciare ai fanatici. Morte ai nemici americani e israeliani, non importa se si tratta di civili o di militari.
Il supremo maestro della morte è Osama Bin Laden, protetto dai talebani di Kabul, tollerato dal Pakistan, sostenuto dagli hezbollah libanesi, glorificato nei campi profughi e nelle cittadine arabe della Palestina (anche dopo il crimine di New York e Washington nella West Bank si è inneggiato al successo dell’operazione). Bin Laden ha già fatto colpire il World Trade Center nel 1993. Ha fatto saltare le ambasciate americane in Kenya e in Tanzania. Ha silurato una nave della marina Usa nello Yemen. Bin Laden, presumibilmente, è l’organizzatore dell’ultima colossale azione di morte. Ma i servizi di informazione, incapaci di prevenire i colpi di New York e Washington, ora dicono che non poteva agire da solo. Che qualche servizio di intelligence statale lo ha aiutato, che qualche ambasciata straniera a Washington e a New York ha fatto da base ai suoi uomini. L’azione militare degli Stati Uniti e dei loro alleati ora sarà diretta non solo a mettere fuori gioco e a eliminare Bin Laden e i suoi uomini. Ma anche a colpire i complici, gli agenti e i leader di quegli stati e di quelle organizzazioni canaglia che hanno dichiarato la guerra all’Occidente.
Inutile affidarsi, in queste ore, a un certo pacifismo politically correct. Queste idee hanno sempre ostacolato all’Onu e dintorni la punizione dei terroristi islamici, impedito forti azioni di rappresaglia in Afghanistan, bloccato iniziative militari decisive contro Saddam Hussein. È con la forza e il coraggio che si combatte il terrorismo e non con gli inutili sofismi di certi progressisti radical chic. Ma ci vogliono intelligenza e una profonda convinzione. La stessa che ha mosso Israele, il paese al mondo che per primo ha pagato un forte tributo alla battaglia contro i guerrieri occulti della morte e del massacro dei civili: se non elimini il terrorista, sarà lui un giorno a eliminarti.
I morti di New York e di Washington vanno vendicati. E in fretta. In queste ore l’America ha chiesto a tutti i paesi civili di collaborare alla lotta, soprattutto attraverso l’intelligence. I criminali, come si è visto, dispongono di un forte servizio di informazione, capace di operare con gruppi numerosi senza essere intercettato. Si tratta di guerriglieri della morte so- fisticati, capaci di guidare gli aerei dopo aver sequestrato e ucciso i piloti. Sono uomini fanatici, votati al sacrificio dei kamikaze di Allah. Sono mossi dalla fede e dall’odio. In questi due anni di preparazione del- l’attentato sono stati capaci di occultarsi, di sfuggire a tutti i servizi del mondo. Sono una specie di Spectre, una organizzazione ricchissima e potente che sembra uscita dall’immaginazione di un Fleming o di un Clancy.
Scoprire e colpire non sarà un compito facile. Ma nessun delitto è perfetto. Qualche traccia sarà trovata. Qualche indizio potrà essere utile se tutti gli amici dell’America e del mondo libero collaboreranno. È il momento di trovare valori comuni col maggior numero possibile di popoli. La Seconda guerra mondiale fu vinta dagli alleati proprio per- ché tutti credevano negli stessi principi di libertà e di democrazia e li volevano difendere. Così si esce da Pearl Harbor e dalle sanguinose sorprese del nemico. L’Italia, come ha detto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, è in tutto e per tutto a fianco dell’America. E fa bene.
Comincia così la terza guerra mondiale?

New York, 11 settembre 2001. Ore 8.45: il primo degli aerei bomba piomba sul World Trade Center. Ore 10: il presidente Bush fa scattare la macchina bellica Usa. È l’inizio del «martedì nero» americano, una data che entrerà nei libri di storia come la seconda Pearl Harbor. Perché oggi, come nel 1941, gli Usa si sono fatti trovare incredibilmente impreparati.
di Pino Buongiorno
«Defcon Delta, Defcon Delta»: è il presidente degli Stati Uniti in prima persona a dare l’ordine di massima allerta per tutto l’apparato militare americano, che scatta solo a seguito di «molteplici e specifici attacchi». Sono le 10 del mattino e Bush jr si trova nel bunker della base aerea della Louisiana chiamata in codice Barksdale, nel nord-ovest dello stato. Immediatamente i sottomarini nucleari armati con missili balistici lasciano le coste americane. I bombardieri e i caccia F- 16 cominciano a sorvolare tutte le città degli Stati Uniti con l’ordine di abbattere qualsiasi aereo sospetto.L’Air space command di Colorado Springs attiva le procedure di allarme nucleare. Le forze speciali Usa, Delta Force e Navy Seals, partono per destinazioni ignote. È rarissimo che il Defcon Delta venga lanciato alle forze armate. Ma «noi siamo in guerra» approva il capo della commissione Intelligence del senato, Richard Shelby dell’Alabama, subito avvertito dal consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice. Martedì 11 settembre 2001. Generazioni e generazioni, non solo di americani, terranno sempre bene impressa questa data e, come il presidente Franklin Delano Roosevelt il 7 dicembre 1941, dopo l’improvviso attacco giapponese a Pearl Harbor, diranno semplicemente che è stato «a day of infamy». Pochi minuti prima delle 9, ora della costa orientale degli Stati Uniti, un aereo dell’American Airlines, dirottato da un gruppo di terroristi e proveniente da Boston, è andato a schiantarsi contro una delle World Trade Towers di New York, quella a nord. Diciotto minuti più tardi un altro aereo dell’American ha colpito la seconda torre. Meno di un’ora dopo, mentre i simboli dell’opulenza di Manhattan si afflosciavano in una nube di polvere e detriti, un terzo aereo in mano ai terroristi ha puntato dritto contro il Pentagono, distruggendo un’intera ala. Prima ancora di tirare un sospiro, ecco un quarto aereo della United, anche questo dirottato, cadere poco fuori Pittsburgh.
Gli uffici federali, inclusa la Casa Bianca e Capitol Hill, sono stati evacuati. Tutti i principali esponenti dell’amministrazione e del Congresso sono stati nascosti in luoghi segreti. Il sindaco di Washington ha dichiarato lo stato di emergenza. Ma soprattutto a New York è stata l’apocalisse. Secondo il sindaco Rudolph Giuliani, nei due grattacieli da 110 piani ciascuno lavoravano in quel momento non meno di 40 mila persone. Nemmeno la più fervida fantasia di uno scrittore di spy story, nemmeno un Tom Clancy, così solitamente bene informato nel descrivere complotti e scenari di guerra (vedere il riquadro a pagina 28), poteva davvero immaginarsi qualcosa di simile a quello che è accaduto nel «giorno dell’ignominia». Organizzare un attacco di questo tipo, così sofisticato e ben coordinato, non è roba da dilettanti. Molti terroristi vi hanno partecipato sia nella fase dell’elaborazione sia in quella dell’esecuzione. Lo sforzo coordinato ha abbracciato diversi continenti. La tempistica è stata perfetta. Nel migliore dei casi non meno di un centinaio di persone sono state coinvolte. I messaggi fra loro sono andati e tornati in codice e probabilmente attraverso le chat line di Internet. Eppure, non una sola notizia è filtrata. Non un solo sospetto è stato segnalato.
«È un nuovo tipo di terrorismo» afferma Shabtai Shavit, che ha guidato il Mossad israeliano dal 1989 al 1996. «Chiunque abbia organizzato questi attacchi deve ricevere un credito per aver pianificato ed eseguito un’azione terroristica tanto complicata senza che fosse spifferato il minimo dettaglio». Che la minaccia terroristica stesse cambiando lo avevano scoperto già qualche mese fa i membri della commissione nazionale Usa sul terrorismo, guidata dall’ambasciatore Paul Bremer III, in un rapporto inviato al Congresso e alla Casa Bianca. «I terroristi di oggi cercano di fare il maggior numero di vittime e tentano di raggiungere l’obiettivo sia all’estero sia sul suolo americano» si legge nel documento, di cui Panorama ha ottenuto una copia. «Essi sono meno dipendenti dalla sponsorizzazione degli stati e, invece, formano affiliazioni diffuse e transnazionali basate su un’affinità religiosa o ideologica e il comune odio nei confronti degli Stati Uniti. Questo rende gli attacchi terroristici più difficili da scoprire e da prevenire». L’ultima volta che l’America fu vittima di un attentato più o meno simile, a Oklahoma City, nel 1995, gli esperti e anche i funzionari governativi indicarono subito i colpevoli nei fanatici musulmani. Invece, poco dopo, scoprirono che i responsabili erano stati alcuni estremisti di destra americani.
Questa volta però ci sono più elementi che fanno puntare il dito contro il network terroristico originato dal fondamentalismo islamico. «Se si guarda alla mappa del terrore internazionale e alle organizzazioni capaci di condurre questo tipo di azioni, in base anche ai loro precedenti attentati, non rimane che un solo gruppo, quello dello sceicco Osama Bin Laden» dichiara a Panorama Ely Karmon, che lavora al centro interdisciplinare Studi del Terrore dell’università israeliana di Herzlia. Della stessa idea è un altro esperto tedesco, Rolf Tophoven: «La tipologia di questa guerra terroristica parla di uomini cresciuti in un odio fanatico nei confronti del “grande Satana”. Quest’apocalisse è una macabra conferma del primo attentato al World Trade Center del 1993, che, allora, per fortuna fece poche vittime». L’autore materiale fu il terrorista islamico Ramzi Yousef, educato in Gran Bretagna, arrestato dall’Fbi dopo una caccia di due anni. Yousef aveva pianificato di far esplodere contemporaneamente 11 aerei americani sul Pacifico e di attaccare il quartier generale della Central intelligence agency, a Langley, in Virginia, con un piccolo aereo-robot armato di armi chimiche (vedere riquadro a pagina 18). «Sì, sono un terrorista » disse agli agenti dell’Fbi che lo rintracciarono in Pakistan. «E sono orgoglioso di esserlo. Appoggio il terrorismo fino a quando è usato contro gli Stati Uniti e Israele». Nemmeno a dire che Yousef aveva strettissimi legami con Osama Bin Laden, il miliardario saudita che guida il terrorismo globale islamico e che ha attualmente rapporti sempre più stretti con l’Afghanistan dei talebani e con l’Iraq di Saddam Hussein.
Chi lo conosce bene, come Jeff Bodansky, autore della biografia di Bin Laden The Man who declared war on America, descrive così a Panorama gli obiettivi del terrorista miliardario: «Quello che cerca Osama Bin Laden è una vittoria comparabile a quella che i musulmani ottennero contro i crociati. Lui, che non è un capo militare, ma un ideologo, pesca i suoi uomini nei movimenti religiosi islamici e fra i gruppi terroristici palestinesi, siriani, algerini, albanesi del Kosovo». Lo sceicco saudita che vuole ristabilire il Sacro califfato è l’impersonificazione vivente di quello «scontro di Laciviltà » di cui parla da tempo uno dei maggiori politologi di Harvard, Samuel Huntington. «Le società occidentali, e in particolare l’America, godono di uno straordinario potere militare ed economico » spiega Jessica Stern, professore alla Kennedy school of government di Harvard e autrice del fondamentale saggio The Ultimate Terrorists. «Ma lo scontro di civiltà fra l’Occidente e il resto del mondo, predetto da Samuel Huntington, è improbabile che abbia luogo esclusivamente sui campi di battaglia. Gli estremisti islamici violenti hanno già riconosciuto che non possono sfidare l’America in una guerra convenzionale, ma possono infliggerle dolori insopportabili attraverso atti di terrorismo. Anche gli estremisti di destra possono partecipare a questo scontro di civiltà».
Se la Cia non aveva avuto sentore del complotto dell’11 settembre, a Londra invece nella redazione del settimanale al-Quds al-Arabi, si viveva da giorni in uno stato di tensione altissima, come racconta a Panorama uno dei redattori. «Per la verità già tre settimane fa avevamo ricevuto informazioni di prima mano che Osama Bin Laden e i suoi stavano pianificando attacchi senza precedenti, una cosa enorme, contro gli interessi americani». Era stato in particolare il direttore Abdel Bari Atwan, che ha più volte intervistato in Afghanistan il nemico numero uno degli Stati Uniti, a essere messo in allarme. Ma può Osama Bin Laden fare tutto questo da solo o, tutt’al più, con l’aiuto delle cellule di terroristi sparse nel mondo? «Non ci credo. Ci deve essere per forza uno stato dietro attacchi di questo tipo» si dice sicuro Karmon. Ma quali? L’Iraq, l’Afghanistan, la Siria, l’Iran? È quello che stanno cercando di capire (e di decifrare dai tabulati della National security agency) in queste ore frenetiche gli esperti di intelligence terroristica di tutto il mondo. «Non c’è dubbio» conclude Karmon «che è la maggiore azione terroristica della storia. Tutti i paesi dovranno prendere decisioni estreme nelle prossime settimane. Non solo l’Occidente, ma anche Russia, Cina e India sono minacciati dai gruppi islamici».
Cronache (in diretta) dall’inferno di New York

Uomini e donne terrorizzati che vagano a Manhattan, i sopravvissuti disperati perché non sono riusciti a salvare amici e colleghi, i soccorritori morti per aiutare la gente. Il tragico racconto di una mattina che ha sconvolto New York.
di Marco De Martino
Sto correndo rincorso da una nuvola nera che è tutto quello che resta del World Trade Center di Manhattan. Sono le 10.28 di martedi 11 settembre: anche la seconda delle torri gemelle, quella nord, è crollata dopo la prima come un castello di sabbia. Ed è cenere bianca quella che mi inghiotte quando finalmente la nuvola raggiunge me e i poliziotti che corrono a fianco dei cameramen, dei vigili del fuoco e degli agenti dell’antiterrorismo. Quando anche l’ultima eco dell’esplosione si spegne, siamo tutti statue bianche circondate da una cascata di coriandoli gialli: sono le pagine dei bloc notes che usavano gli avvocati che lavoravano nel grattacielo. Per terra ci sono prospetti finanziari, stampate di e-mail, i fogli rosa con annunci di telefonate.
Qualcuno si mette a raccogliere i frammenti: su uno c’è scritto Fuji Bank, sull’altro Us Custom, su un altro Millennium Vista Hotel, e Chase Manhattan. Sono i nomi delle aziende in cui lavorava la gente del World Trade Center: c’erano 50 mila persone dentro quelle torri che ora non si vedono più all’orizzonte. Il primo superstite arriva su una bicicletta senza sellino che si muove a malapena nel mezzo metro di sabbia che ormai copre tutto: «Non è mia, l’ho trovata abbandonata tra le macerie e l’ho presa» racconta. La parte destra del suo gessato è coperta di sangue, sulla bocca ha una maschera antigas: «Sono uscito lasciandomi indietro quattro colleghi della mia merchant bank» dice, e scoppia a piangere. «Volevo aiutarli ma non potevo toccarli perché i vestiti si erano liquefatti sul loro corpo: è inutile andare lì, non è rimasto vivo nessuno».
Passa un camion con sopra un gommone: dovevano usarlo i reparti antiterrorismo sottomarini ma invece porta feriti. Di uno si vedono solo gli occhi rossi, il resto è un uomo di neve che trema: «Ero all’81esimo piano, sono sceso per le scale, ero quasi fuori quando tutto mi è crollato addosso» racconta. «Quando sono uscito, per terra c’erano i corpi dei vigili del fuoco che erano accorsi dopo il primo scoppio: uno era tagliato a metà e sanguinava». Un altro vigile del fuoco arriva sottobraccio a una assistente sociale: invece del casco ha una benda sulla testa. Gli manca uno stivale, sembra abbia perso la strada: «No, non devi tornare al lavoro, devi andare a casa, ora appena troviamo un’ambulanza libera ti portiamo» gli dice la donna. Si sente un botto, poi un altro, poi un altro ancora a breve distanza: «Le tubature del gas» urla una donna. «Autobomba» dice un altro. Un aereo militare sfreccia nel cielo facendosi largo tra due elicotteri dei network televisivi: «È uno dei nostri?» chiede un poliziotto, e per la prima volta è chiaro che siamo in guerra, anche se il nemico non si vede. Finora era sembrato un film, e di quelli girati male.
A Washington square centinaia di studenti erano stati fermati da un botto mentre entravano per il corso del mattino alla New York university: guardando a sud avevano visto le fiamme uscire dal settantesimo piano dove si era infilato l’American Airlines 11 dirottato dai terroristi con a bordo 92 persone. Diciotto minuti dopo migliaia di newyorkesi hanno visto l’American Airlines 77 con 64 persone a bordo schiantarsi contro la seconda Torre prima planando e poi pigliando velocità. «Wow» urlava la gente sulla Quinta avenue mentre New York si fermava col fiato sospeso a guardare i due buchi neri scavati nel simbolo della città. Molti chiamavano casa ma i cellulari non funzionavano. «Di’ a mamma che sto bene, di non preoccuparsi perché come al solito ero in ritardo e non sono entrata nella torre » diceva una ragazza fuori dalla fermata della metropolitana che porta in New Jersey. In metropolitana, sulla linea 1, di solito piena dei pendolari di Wall Street, il conduttore diceva a tutti di uscire: «Il traffico è sospeso per via delle esplosioni al World Trade Center: scendete dal treno e dite una preghiera per quelli che sono dentro le Torri. Vi prego dite una preghiera, ora». Fuori era una giornata di sole, di quelle che di solito fanno muovere Manhattan più veloce.
Ma neppure una macchina circolava per le strade, neanche un negozio era aperto, solo un bar con una televisione accesa su una colonna di profughi che avrebbero potuto essere in Kosovo se non fosse che stavano camminando sul Brooklyn Bridge. I taxi gialli erano fermi con la radio accesa: «È crollato il Pentagono, hanno abbattuto il grattacielo Sears a Chicago» diceva qualcuno, sbagliando di poco. «Tutta colpa di Bush: invece di essere qui è già in un bunker» incalzava un altro. Alla radio un commentatore aveva ancora voglia di fare ironia: «Gli aeroporti sono chiusi, i treni non funzionano e anche la borsa è chiusa, per fortuna». Ma più ci si avvicinava alle torri in fiamme più il film diventava una tragica realtà: «Dio mio, no» sibilava un ragazzo biondo guardando gli impiegati che si gettavano dagli ultimi piani dell’inferno di cristallo. Hanno scelto di morire così in tanti: cadendo non urlavano ma si dimenavano, come se stessero nuotando. Prima è caduta una donna, poi una coppia mano nella mano, infine un uomo. Ma è solo quando le torri sono crollate, prima una e poi l’altra, che nelle strade molti sono scoppiati a piangere: «Non le vedrò più, non le vedrò più» si disperava uno studente biondo. «Come faccio a spiegarlo a mia figlia?» aggiungeva un altro uomo mentre su New York scendeva un silenzio irreale interrotto solo dalle sirene della polizia.
A mezzogiorno New York è in apnea. Davanti all’Odeon, il ristorante dove una volta i finanzieri pranzavano all’ombra delle torri, hanno allestito un ospedale improvvisato ma la polizia urla agli infermieri di sgombrare: «C’è un pacco sospetto, c’è un pacco sospetto». All’1 si sparge la voce che uno dei due aerei caricava armi biologiche, forse gas, e che gli ospedali sarebbero stati presi d’assalto presto da gente in preda a crisi respiratorie: la voce poi è stata smentita ma decine di mezzi di soccorso erano stati nel frattempo rimandati indietro. Nella macchina della volante la radio gracchia una lista di altri obiettivi per i terroristi, e sono tut ti nel raggio di poche centinaia di metri dal World Trade Center. C’è One Police Plaza, il quartiere generale della polizia verso cui corrono le macchine blu a sirene spiegate. C’è il Federal building davanti a cui ogni mattina fanno la fila migliaia di immigrati che sperano di diventare cittadini anche se all’improvviso anche il loro sogno sembra meno luccicante. E poi c’è 7 Wall street, che al sedicesimo piano ospita il bunker antiterrorismo voluto da Rudolph Giuliani proprio per coordinare la risposta ad attacchi terroristici come quelli di questa mattinata maledetta: non serve neanche quello, è stato evacuato prima di crollare, e il sindaco sfreccia dentro un pullman coperto di cenere che lascia intravedere la scritta: «Unità di pronto intervento». Quando esce racconta di essere stato intrappolato anche lui dentro il bunker: «Per dieci minuti abbiamo pensato che non saremmo usciti ma poi per fortuna ce l’abbiamo fatta». Il bunker venne costruito dopo l’attacco terroristico del 26 febbraio 1993, quando 900 chili di esplosivo uccisero sei persone e ne ferirono 11.
Ma Andy Garcia, un impiegato che era sopravvissuto a quell’attacco e che ora è coperto di sangue, dice che non c’è paragone: «Allora ci sembrava un disastro immane ma non è niente in confronto alle migliaia di persone che sono rimaste seppellite sotto le torri oggi». Otto anni fa nessuno avrebbe pensato che nel giorno in cui New York doveva pensare al suo nuovo sindaco, con l’inizio delle primarie, traghetti carichi di corpi avrebbero raggiunto il New Jersey perché i 170 ospedali della città erano già pieni. Che navi da guerra si sarebbero dirette verso la città in stato d’assedio. Nessuno avrebbe immaginato due buchi da cui sale una nuvola di fumo circondati da strade senza macchine, e solo un senzatetto ubriaco che canta: «È la guerra, è la guerra».
Ora basta con le utopie malate

Crollano, con le torri gemelle, i miti regressivi della sinistra più ideologica. E adesso il mondo chiede una giustizia che impugni la spada. Per garantire la sicurezza perduta.
di Giuliano Ferrara
L’infarto dell’Occidente, era questo che si preparava. Colpire al cuore lo Stato Imperialista delle Multinazionali è stato il grande mito regressivo, la grande leggenda nera della sinistra profonda, ideologica, anticapitalistica, che abita le viscere impazzite del passaggio tra i due secoli. Ora quel sogno si è realizzato nel fragore e nell’orrore della morte innocente, nella bieca immagine restituita in diretta a miliardi di persone: il collasso dei due monumenti alla libertà del commercio internazionale, quelle volute di fumo grigio disposte a ombrello come foglie di palma che calano verso terra tra i grattacieli sopravvissuti e cancellano vita, ricchezza, mobilità, sicurezza intorno a un simbolo grandioso e fragile della civiltà occidentale.
Quel cuore d’acciaio che ci consente semplicemente di vivere da uomini liberi si salverà, ma la convalescenza sarà dura, dolorosa, le ripercussioni del simulacro di guerra mondiale messo in piedi dal terrorismo si fanno e si faranno sentire in Europa, in Africa, in Medio Oriente, in Asia, dappertutto nel mondo e perfino nella casa di ciascuno di noi, nel privato, nei pensieri, nelle angosce dell’uomo medio. Dietro e a sostegno di questo attacco ai monumenti e ai centri decisionali intorno a cui si celebra e si organizza la libertà internazionale si era sviluppato in questi ultimi anni, con motivazioni ambigue, spinte utopistiche irrazionali, paure simulate e artificiali, profetismi di bassa lega, un movimento di idee, di illusioni e di folli speranze chiamato «no global».
Una massa crescente di giovani, di tribù varie del disorientamento e della confusione intellettuale, con il suffragio di ideologi cinici, finanzieri disinvolti fino alla carognaggine, e di guitti eterni della rivoluzione on stage, è stata psicologicamente ed emozionalmente preparata al grande delitto globale. Con sofisticata, sistematica e perfino scientifica capacità di coordinamento e di orchestrazione transfrontaliera. Ora che con il crollo dei Twins è sfregiata la skyline di Manhattan, ora che le istituzioni americane sono state evacuate nel terrore e nell’umiliazione, ora che abbiamo visto il gran film di un presidente degli Stati Uniti prigioniero del suo Air Force One in mezzo a voli di linea dirottati, ora possiamo veramente misurare alcuni dei grandi drammi della nostra epoca, dall’assassinio di Rabin alla vittoria dei Talebani in Afghanistan, dall’agonia di Arafat nel suo letto di menzogne alla tragedia di un Islam combattente proiettato nel solito paradiso di giustizia e di riscatto che in terra significa l’inferno della massima ingiustizia, la paralisi delle libertà e la morte.
Dire che niente sarà più come prima, e questo per almeno una generazione di abitanti del pianeta, è perfino un eufemismo. Il bombardamento dei centri nevralgici del mondo libero – libero nelle sue istituzioni politiche, libero da pregiudizi e fondamentalismi dottrinali, libero dagli istinti neotribali scatenati dal tramonto del comunismo – non ha fatto vittime solo a New York e a Washington. L’obiettivo era creare il grande spavento mondiale, una colossale destabilizzazione, ed è stato pienamente raggiunto. Ma il contrappasso si farà sentire, con la forza legittima di una giustizia che deve saper impugnare spietatamente la spada, che deve tornare a garantire la sicurezza perduta, l’intima libertà di vivere e morire nella libertà privata e pubblica della nostra vita quotidiana.
Ora basta scherzare, pensa giustamente la grande maggioranza dei cittadini dell’Occidente, basta rinfocolare le febbri malariche mediorientali: il nuovo ordine internazionale è un’esigenza immediata, l’alternativa a una pace stabile e garantita è solo una guerra risolutiva. Da molti anni ormai gli americani, che hanno pagato già un tributo altissimo alla loro funzione di Stato-sicurezza e di comunità-guida della politica internazionale, hanno avvertito il mondo sulla pericolosità degli Stati-canaglia, sulla necessità di tagliare il nodo gordiano del terrorismo, sul fatto che i vecchi accordi bipolari, di quando il mondo era tagliato in due, non resistono alla proliferazione degli armamenti, al terrore di chi è insieme foraggiato da Stati ricchi e potenti, e votato alla morte dal fanatismo ideologico. Non sono stati ascoltati come si doveva ascoltarli, e questo è il risultato.
L’Italia, provincia lontana e piccola ma cruciale snodo di molte delle avventure terroristiche globali, deve confermare con durezza e chiarezza adamantine il suo ruolo, riconquistato, di battistrada di una politica estera e di sicurezza in cui l’Europa ha da mettere il meglio del suo coraggio, se se lo può dare, e non il peggio delle sue storiche viltà. Il nuovo ordine mondiale, il più giusto possibile, deve avere il suo scudo. Uno scudo non metaforico. Una protezione politica e militare invalicabile. Lo esige la ragione politica. Lo vuole il mondo che è sopravvissuto alla tragedia del comunismo e non vuole cedere al ricatto luttuoso e tragico delle nuove utopie mondiali.